Bella l’idea della Srl Odontoiatrica, ma come si fa la trasformazione da Studio Dentistico ad impresa? Gli strumenti che possiamo utilizzare sono sostanzialmente tre: oltre alla trasformazione vera e propria, ci sono anche il conferimento e la cessione. Ognuno di essi implica presupposti e conseguenze specifiche sul piano fiscale, ma non solo, che è bene conoscere.
Questo articolo è dedicato a tutti i colleghi odontoiatri che hanno capito il valore di una Srl Odontoiatrica e tutti i vantaggi che essa comporta per un dentista comune ma non sanno ancora come operare questa trasformazione o non conoscono il concetto di conferimento.
Come sempre accade, in tutti i contesti, tradurre le idee in azioni richiede tanta fatica ed un minimo di intelligenza per non vanificare la fatica fatta.
Per quest’ultima ragione ci sentiamo di dare un consiglio di carattere generale: un dentista comune non può trasformare il proprio studio dentistico in Srl Odontoiatrica da solo. Ha bisogno di aiuto da parte di consulenti che si occupino, come minimo, delle implicazioni fiscali, organizzative e autorizzative.
I consulenti di cui abbiamo bisogno sono: un notaio, un commercialista, un tecnico esperto di autorizzazioni, un Rspp, un consulente del lavoro. Quando stabiliamo rapporti fiduciari con i nostri consulenti dovremmo sempre tenere a mente il vecchio adagio che rivolgiamo ai nostri pazienti:
Se credi che un esperto sia troppo caro non hai idea di quanto ti costerà un incompetente.
Se vi circondate di consulenti mediocri avrete risultati mediocri.
Quando usiamo l’espressione “trasformazione di studio in Srl” esistono due accezioni diverse che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra:
E’ importante sapere che si può ottenere una trasformazione da studio a Srl, nella sostanza, anche senza ricorrere all’istituto giuridico della trasformazione davanti ad un notaio, per esempio mediante il conferimento dell’attività vecchia in una nuova. Eppure conferimento e trasformazione, sul piano civilistico e anche fiscale, sono due istituti completamente diversi e con conseguenze molto diverse che andremo ad analizzare in questo capitolo.
Facciamo alcuni esempi che ci aiutino a capire bene, perché questo concetto è una grande parte di tutto quello che c’è da sapere:
In tutti i casi lo scopo è sempre lo stesso per il lettore di questo articolo: poter cambiare l’assetto organizzativo esistente in base alle nuove esigenze sopravvenute, dando luogo ad un soggetto nuovo senza estinguere quello vecchio (oppure estinguendolo, se si vuole) e ottenendo così notevoli vantaggi di carattere fiscale, patrimoniale, legale o successorio.
Definiti questi concetti possiamo ora proseguire con la trattazione impiegando il termine trasformazione nella sua accezione lato sensu di passaggio da studio a Srl, indipendentemente che avvenga con una delle tre modalità sopra descritte. Quando ci riferiamo all’istituto giuridico della trasformazione stricto sensu (soprattutto per le implicazioni fiscali che comporta) allora sarà evidente nel testo.
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La trasformazione di una struttura sanitaria semplice (come uno studio dentistico tradizionale) in una struttura imprenditoriale complessa comporta sostanzialmente un passaggio da una gestione di tipo professionale ad una imprenditoriale (quasi sempre in forma societaria).
Tale passaggio potrebbe essere effettuato verso qualsiasi forma societaria (di persone o di capitale) e quindi verso:
Tuttavia, a noi interessa soffermarci solo sulla trasformazione in SRL, per i motivi che sono già stati abbondantemente esposti in questo blog.
Un primo profilo di discussione che incontra l’interesse dell’operatore odontoiatra è quello della valutazione dell’opportunità di tale trasformazione, per comprendere il quale si deve necessariamente affrontare una analisi sistematica del comparto sanitario e di quello odontoiatrico in particolare.
Quando si esce dalla dimensione del piccolo studio in mano ad un odontoiatra senior che è prossimo alla pensione – un caso a sé e che ovviamente non ha molti motivi per prendere in considerazione la trasformazione se non ha eredi in grado di continuare il proprio lavoro – la questione appare subito abbastanza chiara.
Non vi sono molti dubbi sul fatto che l’evoluzione del mercato odontoiatrico spinga verso la marginalizzazione del modello di studio mono-professionale in favore di forme a maggior grado di complessità.
Ma quando si passa dall’enunciazione del principio alla disamina tecnica, tutto diviene più difficile. Il campo è sporcato dalle polemiche e si fa una gran fatica a ragionare serenamente.
Tutti pensano ovviamente solo a fattori fiscali o concorrenziali, che hanno ovviamente il loro peso, ma la realtà è che tale evoluzione è legata ad altri fattori molto importanti e cogenti.
Ne citiamo alcuni:
Se tutto questo possa essere considerato frutto di pressioni lobbistiche oppure no, ha ben poca importanza oramai: anche a voler ammettere che questo risponda a verità, è evidente che tali pressioni sono talmente potenti e ad alto livello da aver sostanzialmente conformato contesti giuridici nazionali ed internazionali. Combattere contro queste tendenze può anche apparire molto nobile, ma è assai poco utile.
In questo contesto evoluto il singolo professionista deve comunque fare i conti con la propria situazione personale e professionale e guardarsi fuori e dentro con sincerità e realismo. La valutazione della convenienza della trasformazione andrà effettuata sotto il profilo economico e fiscale e anche sotto quella della rispondenza della struttura ai requisiti minimi, che sono quelli dell’ambulatorio, come abbiamo ampiamente descritto in altri articoli.
Tuttavia è anche giusto ricordare che la questione non si riduce solo a questo.
Tutti i discorsi sulle magnifiche sorti e progressive delle strutture complesse non tolgono nulla al fatto che passare da una dimensione in cui la professione è nel proprio pieno controllo ad una in cui occorre in parte delegare e affrontare nuove incombenze rispetto a quelle cui si è abituati, costituisce un salto non facile e che va affrontato solo se si è ben decisi e motivati a farlo.
In caso contrario (a maggior ragione se non mancano molti anni alla pensione e/o non si hanno prospettive di trasmissione ai figli della propria attività) si può tranquillamente optare per altre soluzioni, magari incrementando, se si ha la possibilità, le proprie collaborazioni con strutture esterne o al massimo trasformando lo studio monocratico in studio associato.
Questa valutazione deve essere portata avanti partendo dalle determinanti cliniche. Riflettere sui propri punti di forza e debolezza clinica serve anche ad evitare l’affidamento in improbabili miracoli: nessuna attività di marketing o efficientamento gestionale, nessun cambio di regime giuridico di esercizio della professione potranno mai trasformare un ciuccio in un cavallo da corsa.
Chi racconta il contrario o è un incompetente oppure è in malafede.
Sono molti gli aspetti ove è necessario affrontare un cambio di mentalità. Pensiamo ad esempio agli aspetti contabili e fiscali. Al di là del diverso trattamento fiscale che sicuramente si incontra passando da Professione a Srl, rimane il fatto che già passare da un regime sostanzialmente di cassa a uno di competenza è un salto che richiede alcune accortezze.
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Scopo di questo paragrafo è quello di concentrarsi su una serie di questioni tecniche che caratterizzano la trasformazione dello studio tradizionale alla Srl Odontoiatrica di gestione, avvertendo il lettore che tali questioni sono in gran parte comuni anche al caso di una trasformazione da studio ad srl-stp.
Ove esistano delle differenze significative con specifico riferimento alle stp, ovviamente le segnaleremo.
Sappiamo già, perché ne abbiamo parlato diffusamente nei primi capitoli, che lo studio non ha una organizzazione dotata di vita propria, perché la stessa è costruita intorno al professionista e ne dipende interamente.
Abbiamo anche detto che la principale differenza che esiste tra professionista ed impresa è proprio legata al ben diverso peso che l’organizzazione possiede nel secondo caso, un peso cioè preponderante, fino al punto di poter fare a meno dell’imprenditore fondatore e proseguire con un altro. Sappiamo anche che questa organizzazione imprenditoriale è altrimenti denominata azienda.
La prima questione di cui conviene occuparci è la seguente: lo studio può essere considerato un complesso aziendale come quello che sta alla base dell’impresa?
Il complesso di beni costruito dall’imprenditore, che è appunto l’azienda, è cosa ben diversa dal primo tipo di complesso di beni, quello cioè organizzato attorno al professionista.
Questa differenza riverbera i suoi effetti su tutta una serie di questioni. Ad esempio, sul fatto che, se tale complesso di beni non è un’azienda, non può essere conferito in una società di capitali o di persone (Srl o Stp-srl) in modo diretto e unitario.
La giurisprudenza, e in particolare la Cassazione, si sono occupate molto di questo tema e per lunghi anni hanno escluso categoricamente che si potesse conferire in un’azienda un complesso organizzativo appartenente ad un professionista.
Solo a partire dal 2010 si è assistito ad un cambio di tendenza nei pronunciamenti dei Giudici e in particolare della Cassazione, sia pur in un ambito diverso da quello di cui ci stiamo occupando e cioè quello della cessione dello studio da parte del titolare ad altro professionista per fine attività.
Ovviamente, le conclusioni raggiunte da questi filoni giurisprudenziali tornano comode anche nel caso in cui si debba applicarle ad una trasformazione in cui il titolare resta sostanzialmente lo stesso.
La Giurisprudenza ha infatti coniugato un nuovo tipo di fattispecie giuridica, si badi bene, inesistente nel nostro codice civile o nella Legge in genere, ma comunque lecita e ammissibile nell’ambito di quel perimetro della libera contrattazione atipica ex art. 1322 Cod. Civ. Tale tipologia contrattuale non è dunque contemplata nel Codice, ma lo stesso la ammette come pienamente legittima. Si tratta di conferimento o cessione dell’azienda – o meglio del complesso aziendale – del professionista, diverso dall’azienda dell’imprenditore e quindi dall’azienda vera e propria.
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Tale complesso aziendale, pur non essendo di natura imprenditoriale, può essere considerato meritevole di tutela – attenzione alle sfumature – quando il complesso dei beni assume una certa rilevanza rispetto alla semplice opera del professionista, che rimane pur fondamentale: quindi il grande studio mono professionale o associato con un complesso organizzativo rilevante sia pur organizzato attorno alla persona del o dei titolari.
Solo attraverso questo concetto – e soprattutto solo se questo concetto ha ottenuto un riconoscimento e quindi un valore giuridico – è possibile valutare l’azienda professionale come un complesso di beni il cui valore va oltre la somma delle singole parti.
L’avviamento, la pazientela, le competenze dell’equipe e il complesso delle attrezzature per capirci, vanno intese come un corpus e rappresentano un valore unico, come tale monetizzabile e quindi vendibile o conferibile in una struttura complessa (anche mediante trasformazione, intesa questa volta in senso strettamente giuridico).
Solamente in questo modo si può determinare un prezzo di cessione o un valore di conferimento; soprattutto si possono portare tutte le attività economiche, insite nello studio, all’interno della Srl Odontoiatrica non necessariamente come una serie di cessioni di ogni singola parte, ma anche come un tutto unico. In caso contrario lo studio rimarrebbe sostanzialmente incedibile, perché totalmente legato alla persona del professionista.
I beni poi, valutati uno per uno, sarebbero anche cedibili, ma con quali complicazioni e soprattutto a quale valore? Quello che dà valore è l’appartenenza a un complesso di beni che è appunto l’azienda del professionista.
Cosa succede quando lo studio non ha un’organizzazione abbastanza rilevante da poter essere considerata un’azienda del professionista?
Il caso ci interessa poco dal punto di vista pratico, in considerazione del fatto che abbiamo già detto – e lo ribadiremo nel prosieguo – che la trasformazione interessa e conviene prevalentemente ai titolari di studi di media e grande dimensione, ma è comunque il caso di completare la disamina anche a questo caso residuale.
Ebbene, persino in questo caso la Giurisprudenza ha prodotto un notevole sforzo per suggerire una soluzione praticabile. Per farlo, ha dovuto utilizzare altri strumenti, diversi da quelli della valutazione del complesso aziendale e della sua cessione o suo conferimento. Li ha quindi legati ad obblighi di fare e di non fare, successivi e vincolanti alla cessione vera e propria.
Per cedere – o per conferire – gli attivi e in particolare per cedere la parte più importante tra questi che è il bene immateriale (o intangibile) per eccellenza e cioè la relazione di clientela e l’avviamento, il medico o l’odontoiatra deve impegnarsi a presentarla al professionista acquirente e contestualmente deve impegnarsi a non fare concorrenza allo stesso, nella stessa zona di operatività, per un periodo di tempo lungo.
Sono questi gli elementi condizionanti la validità della cessione del piccolo studio e la valorizzazione e cessione, dietro corrispettivo, del pacchetto clienti.
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Tornando al caso dell’azienda del professionista, che permette una trasmissione alla srl complessiva e non condizionata dell’intero pacchetto aziendale, va detto che una volta valutata l’azienda stessa, con una perizia giurata, si può agevolmente passare da studio associato a srl con una operazione di trasformazione eterogenea progressiva.
La perizia giurata è comunque necessaria anche quando si passa da una società di persone ad una società di capitale con una operazione di trasformazione (intesa questa volta in senso stretto dal punto di vista giuridico), per il semplice fatto che l’assetto e gli obblighi di tenuta contabile delle società di persone sono quasi sempre diversi e più semplificati rispetto a quelle previsti per le società di capitali.
Ovviamente, le stesse considerazioni si impongono quando – come nel caso in esame – la trasformazione interessi uno studio associato che è del tutto assimilato ad una società di persone come la società semplice che eserciti attività professionale e che quindi sia inquadrata nel regime dei redditi di lavoro autonomo; una società quest’ultima che adotta spesso contabilità semplificata.
D’altra parte, una operazione di trasformazione in senso giuridico stretto non può che interessare come struttura di partenza esclusivamente lo studio associato e che non è configurabile nel caso in cui la struttura di partenza sia uno studio mono professionale.
Considerando che la perizia giurata è comunque richiesta come presupposto per un altro tipo di operazione idealmente utilizzabile e cioè quella del conferimento, perlomeno quando siano presenti beni da conferire in natura, non sembra che la trasformazione porti alcun vantaggio dal punto di vista del costo per la perizia, in considerazione del fatto che è necessaria sia nell’uno che nell’altro caso.
Il secondo caso possibile è appunto quello del conferimento, che presuppone comunque la creazione di una società ex novo, il cui capitale sociale viene direttamente alimentato per il tramite del conferimento stesso, una operazione che nella sostanza innesta nel capitale sociale della società tutti gli attivi che erano appartenuti alla struttura di partenza che, in questo caso, può essere ovviamente sia uno studio mono professionale che associato.
Per poter determinare tali attivi – come è già stato rilevato – è comunque necessaria una perizia giurata sottoscritta da un iscritto all’Albo dei Revisori contabili, la quale ha ovviamente un costo.
Un modo per evitare la perizia giurata è infine quello rappresentato dalla cessione di tutto o parte degli attivi della struttura di partenza alla srl, che rappresenta appunto la terza via per poter effettuare la traslazione dei beni dalla struttura di arrivo a quella di partenza. La cessione è il termine giuridico con il quale nel gergo comune definiamo una vendita.
Quando conferiamo dei beni in una società agiamo direttamente sul suo capitale sociale.
Benché tale capitale debba essere sempre valorizzato precisamente in termini monetari, il conferimento non deve essere necessariamente ed unicamente effettuato come un versamento di denaro. Si possono anche conferire beni in natura, sia materiali (un immobile, uno strumento di lavoro) che immateriali (avviamento, royalties, asset intangibili in genere).
La legge prescrive l’obbligo – nel caso in cui siano presenti tra gli attivi beni in natura – che il conferimento non possa avvenire in mancanza di una perizia giurata, effettuata da un revisore, che determini appunto il valore monetario di quei beni.
Una volta stabilito tale valore, il conferimento impatterà direttamente sul valore complessivo del capitale sociale al momento in cui la società viene costituita e prende vita. In questo preciso momento, il patrimonio sociale coincide perfettamente con il capitale sociale. Già dal giorno dopo, questa equivalenza potrebbe facilmente non sussistere più, per il semplice motivo che la società inizia ad operare e quindi il suo patrimonio inevitabilmente si modifica, mentre il capitale sociale resta fermo fino ad eventuali interventi che lo modifichino e che devono essere deliberati dall’Assemblea.
Tuttavia, per quello che a noi più interessa, qualunque sia il valore di quel capitale sociale, da quel momento in poi e in assenza di modificazioni al rialzo o al ribasso dello stesso (attuato attraverso eventuali e successivi aumenti di capitale o riduzioni per perdite), quel capitale lo troveremo in bilancio tra le passività e costituirà la componente principale del cosiddetto patrimonio netto: un aggregato, quest’ultimo, che costituisce la parte di patrimonio della società che deve sempre permanere intatto a garanzia dei terzi. Il patrimonio netto è infatti costituito dalla sommatoria del capitale sociale aumentato degli utili non ancora distribuiti oltre che dalle riserve patrimoniali e diminuito dalle perdite di vecchi esercizi.
Tutte le volte in cui il patrimonio della società dovesse scendere oltre quel limite di garanzia rappresentato dal patrimonio netto, la società andrà tecnicamente in deficit patrimoniale e l’amministratore deve convocare immediatamente l’assemblea per ricapitalizzare la società, liquidarla o continuare ma con un regime di responsabilità che cessa di essere limitata per divenire lo stesso delle società di persone. Nella gran parte dei casi, i soci preferiscono ricapitalizzare la società, e cioè effettuare ulteriori versamenti a titolo di capitale, fino a riportare il capitale sociale e il patrimonio netto appena sopra il limite già indicato.
Per evitare tali complicazioni come anche per evitare di avere un capitale di importo molto più ampio del limite minimo imposto dei 10.000 €, esiste la possibilità alternativa che è quella di costituire intanto la società conferendo in denaro il capitale sociale minimo (euro 10.000) salvo poi far confluire in un secondo momento e a società già in vita i beni in natura e le altre disponibilità liquide, con una operazione di cessione e non utilizzando il conferimento.
Le differenze fondamentali sono essenzialmente due: in primo luogo, non è richiesta la perizia giurata ma una relazione di stima meno impegnativa – e anche meno costosa, perché questi beni non andranno ad incrementare il capitale sociale bensì il patrimonio della società.
Quest’ultima operazione poi presenta ulteriori pregi rispetto a quella rappresentata dal conferimento:
Certo, si potrebbe anche costituire la società in un primo momento con un capitale minimo salvo poi passarvi i beni in un momento successivo con un’operazione di conferimento, ma non si vede alcun buon motivo che consigli di farlo, anche per via degli oneri più elevati a fronte dei quali non si ravvisa alcun vantaggio oltre che per le ulteriori complicazioni che ne conseguirebbero (delibera assemblea straordinaria di aumento del capitale sociale e effetto diluizione sulle quote dei soci non conferenti, naturalmente in caso che tali soci esistano).
Ci possono invece essere altri casi in cui cessione e conferimento possono convivere nella stessa società di arrivo e si configurano quando i soci sono più di uno e si preferisce utilizzare entrambi i modi per capitalizzare a vario titolo la società, alimentando sia il capitale sociale che il patrimonio della società stessa.
L’obiettivo finale in casi come questi è comunque quello di non creare un capitale sociale troppo elevato, anche al fine di non favorire l’insorgere di potenziali future tensioni alla gestione della società, con riferimento agli obblighi di ricostituire il capitale quando il patrimonio della società possa scendere sotto il limite del patrimonio netto, una situazione che è stata già illustrata in questo paragrafo.
Risulta quindi e quasi sempre preferibile la scelta di costituire la società con conferimenti in denaro sufficienti a costituire un capitale non troppo elevato (da 10 mila a quale decina di migliaia di euro), regolando per questa via più facilmente le quote sociali e i rapporti di forza tra i soci, salvo poi rimpinguare il patrimonio della società utilizzando come strumento di traslazione la cessione più che il conferimento, perché la prima si traduce in un incremento patrimoniale e non del capitale sociale. Si potrà poi usare i patti parasociali per riequilibrare eventuali sproporzioni che questa convivenza tra alimentazione del capitale tramite conferimenti e del patrimonio tramite cessioni potrà avere eventualmente creato nei rapporti di forza tra i soci in relazione al reale apporto di ciascuno nella società. Apporto che può essere in parte anche di natura immateriale (particolari professionalità, pacchetto pazienti, etc.).
Una variante particolarmente interessante e molto utilizzata nella pratica di questa strategia è quella di utilizzare in luogo della cessione lo strumento dei cosiddetti versamenti in conto patrimonio, che alcuni chiamano anche conferimenti a patrimonio. Non è qui il caso di illustrare le sottigliezze giuridiche legate a queste distinzioni, che vedono sul piano sostanziale sussistere ben labili differenze tra i conferimenti in senso stretto, i versamenti a conto patrimonio e i finanziamenti infruttiferi da parte dei soci, dei quali ultimi abbiamo già parlato in altre sezioni del volume.
In realtà l’unico obbligo civilistico per quello che direttamente concerne i beni in natura è che si gli stessi vengano correttamente stimati tramite perizia giurata è che siano poi imputati a patrimonio.
Quello che normalmente viene fatto è conferire solo la parte in moneta entro i limiti minimi imposti dalla legge – i famosi 10 mila euro – e versare il resto (denaro che eccede quella somma e controvalore dei beni in natura) tramite un conferimento – o versamento a conto capitale qual dir si voglia – a patrimonio. Viene concretamente iscritta a bilancio per il relativo controvalore una riserva patrimoniale che, a differenza del conferimento, non richiede neanche il pagamento delle relative imposte indirette (imposta di registro proporzionale al 3%).
E qui si aprono altre opportunità interessanti che con la cessione (peraltro sempre gravata da iva al 22% per la parte di beni immateriali) sarebbero comunque precluse.
Infatti, in futuro si potrebbe utilizzare tali riserve per aumenti di capitale a titolo gratuito, il che servirebbe anche a ridurre plusvalenze latenti con un tratto di penna e senza apportare nuovi versamenti e tantomeno pagando imposte di alcun genere. O ad effettuare altre operazioni che non citiamo per una serie di motivi, non ultimo il fatto che gli addetti ai lavori davvero preparati le conoscono tutte molto bene e che non sono operazioni che possiate effettuare da soli senza il loro ausilio, onde evitare l’insorgere di problemi ben peggiori delle opportunità normalmente conseguibili per loro tramite.
Per altro verso, confluendo questi versamenti comunque nelle riserve, nulla cambia in termini di patrimonio netto (visto che le riserve vi confluiscono esattamente come vi confluisce il capitale sociale) e quindi resta immutata quella porzione di patrimonio cui la legge destina il compito di restare sempre capiente a garanzia delle ragioni dei terzi.
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La trasformazione è un’operazione giuridica che permette di trasformare una realtà associativa in un’altra realtà associativa di diverso genere e di farlo direttamente, senza altri passaggi intermedi: la trasformazione è quindi una opzione percorribile solo nel caso in cui la struttura di partenza sia uno studio associato.
Si tratta sempre di un’operazione eterogenea, anche se parliamo di un passaggio tra società di persone. Quello che la rende tale non è infatti il profilo soggettivo, legato alla appartenenza delle due società (quella di partenza e quella d’arrivo) alla stessa o a diversa famiglia (di capitali e di persone), quanto la diversa natura del reddito tra le due. Lo studio associato, infatti, si muove sempre nel regime del reddito di lavoro autonomo, mentre qualunque società commerciale – sia essa di capitali come di persone – si muove sempre e solo in quello dei redditi di impresa.
Se teniamo bene a mente questa distinzione in relazione alla natura della trasformazione, è chiaro che potremmo avere situazioni diverse a seconda di come configuriamo la struttura d’arrivo.
La trasformazione dello studio associato in una società di persone, è l’operazione più immediata e semplice (in gergo giuridico: trasformazione eterogenea progressiva). Lo studio associato è già considerato da parte della Dottrina e dalla Legge fiscale come assimilato a una società semplice.
Tale operazione richiede, per l’arrivo alla snc o alla sas (oppure alla STP-snc o STP-sas), il consenso unanime dei soci e la scrittura privata autenticata o l’atto pubblico e, dopo i successivi adempimenti in tema di pubblicità del negozio giuridico, previsti nel D.M. n.34/2013, si perfeziona.
I principi generali della trasformazione di questa tipologia li trovate nell’art. 2498 e seguenti del Cod. Civ.
In realtà esiste anche un altro caso di trasformazione da studio associato a società, cui aderisce quella parte di Dottrina che considera lo studio associato non già come una società semplice, ma come un’associazione non riconosciuta. Vi evitiamo tutta la disquisizione giuridica e vi diciamo che all’atto pratico, per stabilire a quale delle due tipologie appartiene la vostra trasformazione, occorre leggere lo statuto dello studio associato e farsi assistere da un esperto, anche perché a seconda del tipo cambiano anche alcuni adempimenti.
Nel caso in cui la società di arrivo sia quella di capitali come la Srl Odontoiatrica di gestione, la disciplina di riferimento è quella descritta nell’art. 2500-ter e seguenti del Cod. Civ.
Quindi, la decisione sulla trasformazione in struttura complessa avverrà a maggioranza, secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili come risultante dallo statuto e al socio dissenziente è comunque garantito il diritto di recesso.
Il capitale sociale, risultante dalla trasformazione, deve ovviamente rispettare i minimi legali della società di capitale e deve essere determinato sulla base dei valori risultati da una relazione di stima fatta da un perito (iscritto all’Albo dei Revisori), con ulteriori varianti a seconda del tipo di società di capitale d’arrivo.
Quando lo studio si trasforma in srl di gestione, quest’ultima andrà iscritta al Registro delle Imprese. In una prima fase potrà anche essere registrata come inattiva, salvo poi diventare attiva nel momento in cui effettivamente cominci ad operare sul mercato.
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Il conferimento di uno studio mono professionale in una srl invece, presenta peculiari problematiche, in particolare, in merito al fascio di contratti che appartengono al professionista conferente.
Le norme applicabili sono quelle del conferimento d’azienda e in particolare:
Prima di passare ad analizzare i metodi di valutazione dello studio (semplice o associato), dobbiamo preliminarmente guardare al caso della cessione dello studio, che costituisce una alternativa al conferimento dello studio stesso nella società di arrivo, di cui abbiamo parlato nella seconda parte.
Le considerazioni sulla cessione dello studio nella struttura complessa (Srl o Stp) assumono ovviamente rilevanza specifica anche nel caso in cui si volesse avere semplicemente notizie relative alla cessione dello studio in generale.
La problematica della cessione dello studio – e ben prima della legge istitutiva della STP – è stata lungamente discussa dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza e ne abbiamo già parlato nella prima parte di questo scritto.
Avevamo individuato, all’inizio di questo capitolo, una nuova fattispecie giuridica, coniata per l’occasione dalla Cassazione: quella della azienda del professionista o del complesso aziendale del professionista.
Concentrandoci sulle caratteristiche di questa fattispecie di nuovo conio giurisprudenziale, possiamo subito dire che la stessa non è applicabile indistintamente a tutti gli studi mono professionali e associati, ma solo a quelli in cui l’organizzazione, pur rimanendo strettamente funzionale alla persona del titolare o dei titolari, assume una certa rilevanza, tale da poter essere quasi assimilata a quella di una azienda vera e propria.
In questa direzione, è andata ad esempio la Cassazione (Cass. 7/8/2002 n. 11896; Cass. 3/5/2007 n. 10178).
Solo rispetto a queste realtà il contratto di cessione dello studio può condividere la disciplina applicabile al trasferimento d’azienda, emergendo, a livello interpretativo, la fattispecie della cessione della c.d. azienda professionale. Ne deriva che nei contesti maggiormente organizzati, la cessione dello studio comprensivo della cessione della clientela e dell’avviamento, viene definitivamente ammessa.
La Cassazione ha poi rielaborato definitivamente questo concetto nel 2010 (Cass. 9/2/2010 nr. 2860), stabilendo che, anche nel caso opposto a quello ora ventilato, e cioè quello in cui il professionista prevalga sull’organizzazione (parliamo quindi, per capirci, degli studi piccoli), è comunque lecito e stipulabile l’atto di cessione dello studio; ma solo come complesso di arredi, di beni strumentali e di rapporti contrattuali di fornitura e della clientela.
Tuttavia, con riferimento in particolare alla clientela, non si può parlare di cessione d’azienda in senso stretto.
Il contratto atipico che ne deriva, infatti, richiede anche l’impegno scritto del professionista cedente a favorire la prosecuzione del rapporto professionale tra i propri clienti e il subentrante, con la contestuale assunzione di obblighi positivi di fare (mediante una attività promozionale di presentazione e di canalizzazione della pazientela) e di non fare (astensione dell’esercizio della stessa attività nello stesso luogo).
A queste condizioni, la cessione atipica a titolo oneroso è ammessa anche per questi casi, il che risponde anche a regole di puro buon senso.
Lo studio piccolo dipende troppo, anche dal punto di vista della sua valutazione economica, dalla persona del professionista e la cessione DEVE tener conto di questo (sul punto ritorneremo presto).
Mentre nel caso della cessione dello studio con larga organizzazione (azienda del professionista), queste condizioni non saranno necessarie e avremo una cessione d’azienda atipica.
Entrambi i contratti potranno regolare la cessione dello studio anche verso una società.
Poiché immagino che a questo punto qualcuno di voi potrebbe essere confuso, al fine di diradare la nebbia, vi dico che queste nozioni possono esservi utili in generale ma anche per lo specifico caso STP o per quello srl odontoiatrica.
Immaginate che due o tre professionisti, titolari ciascuno di proprio studio, decidano di associarsi con la formula della stp, magari scegliendo come studio quello più grande disponibile tra i tre. Uno dei tre dentisti conferirà lo studio alla srl-ambulatorio o alla srl-stp, ma gli altri due dovranno per forza entrare tramite una cessione delle loro attività – o più facilmente di parte di esse – nella società stessa. Cessione e conferimento in questo caso convivono nella nascita della nuova realtà associativa.
Naturalmente, i soci potrebbero anche decidere di utilizzare tutti la cessione come forma per il passaggio.
La differenza fondamentale tra le due fattispecie è che nel primo caso, quello della cessione, rientra nella natura del contratto l’esistenza della contro-prestazione (e cioè del conseguimento del corrispettivo) – anche se può ovviamente esistere ma come eccezione alla regola anche una cessione a titolo gratuito – ed quindi è anche implicita la sottoposizione ad imposta sui redditi del corrispettivo. Imponibilità che nel caso della cessione del pacchetto pazienti non è più probabile ma assolutamente certa, perché il professionista non valorizza e quindi neanche ammortizza l’avviamento in bilancio, come fanno le società, per cui il valore di carico teorico di quella è pari a zero, il che significa che tutto il valore stimato per quella costituisce posta interamente imponibile. La relazione di pazientela e l’avviamento, infatti, sono il frutto dell’attività del professionista protratta nel tempo e la relativa valutazione economica è sempre e pienamente suscettibile di essere assoggettata all’imposta sul reddito del professionista.
Quando, come nel caso della cessione, il corrispettivo è intimamente legato alla natura dell’operazione e viene effettivamente percepito dal professionista, tale posta – se presente – diviene subito e anche sottoposta ad imposizione (imposta diretta sul reddito), come vedremo più avanti.
Nel conferimento invece, la presenza di un corrispettivo non è intimamente legata alla natura dell’operazione, perché il conferente professionista non riceve un corrispettivo in denaro ma quote societarie e per conseguenza diretta l’operazione non è tassabile sotto il profilo delle imposte dirette sul reddito.
Come vedremo meglio nel prosieguo, fino alla fine del 2018, questa impostazione veniva considerata applicabile a qualunque società di arrivo. Poi sono intervenuti due pronunciamenti dell’Agenzia delle Entrate (dicembre 2018 e gennaio 2019) e hanno cambiato il quadro.
Questa impostazione può oggi ritenersi valida solo nel caso in cui il conferimento rimanga nell’ambito dei redditi di lavoro autonomo. Cioè solo nel caso in cui si conferisca l’avviamento dallo studio mono a quello associato.
Dopo queste pronunce, una delle quali riguardava proprio un’odontoiatra che stava trasformando il proprio studio in srl-stp, l’indefinitezza sulla tipologia della società di arrivo che esisteva prima è finita e nel caso in cui si passi da studio a società assoggettata ai redditi di impresa ( come è il caso di qualunque società commerciale e di qualunque stp, a prescindere dalla forma societaria prescelta, sia essa appartenente alla famiglia delle società di persone come anche di capitale ) il conferimento – o la cessione – sono considerati sempre onerosi.
Si deve quindi applicare l’art. 54 comma quater del TUIR che assoggetta l’intero importo percepito (anche se sotto forma di quote societarie e quindi non in denaro) come controvalore del pacchetto clientela a tassazione sul reddito (anche con tassazione separata, se l’intero controvalore è percepito in unica soluzione o anche in più rate ma solo se percepite nello stesso e unico periodo di imposta).
Si fa notare che quasi sempre il valore di perizia – sia essa una perizia giurata come nel caso del conferimento come anche una perizia informale nel caso di cessione – comprende sicuramente anche altri elementi, quali possono essere l’immobile strumentale, impianti e macchinari e magazzino materiali di consumo, ma quello che pesa ai fini della formazione della tassazione sul reddito del professionista è quasi sempre e solo la parte degli intangibili, cioè la relazione di pazientela e l’avviamento.
I beni materiali infatti o saranno stati verosimilmente già ammortizzati (e se ne esiste qualcuno che non è stato ancora interamente ammortizzato si trova il modo di non cederlo e di lasciarlo in capo al professionista, che andrà a sua volta a concederlo con un comodato gratuito alla società attraverso apposita pattuizione contrattuale – come anche di cederlo ma al valore residuo ancora da ammortizzare) oppure, come nel caso del magazzino materiali dentali, già dedotti.
Sui beni materiali è teoricamente possibile – per capirci – che possa formarsi qualche plusvalenza (sempre sottoposta a tassazione) ma nell’agire concreto degli addetti ai lavori si fa sempre in modo di evitarlo.
Nel caso invece dei beni immateriali non avremo una plusvalenza, ma la ripresa a tassazione ordinaria sul reddito dell’intero controvalore, perché è questo che prevede l’art. 54 comma 1-quater del TUIR.
Quando invece, per i più diversi motivi che illustreremo nelle prossime pagine, il/i professionista/i può/possono evitare di conferire o cedere la relazione di pazientela e l’avviamento, la formazione di plusvalenze sulla parte dei beni tangibili è meno certa e quindi è assai probabile evitare le imposte sul reddito; ed in più, con la cessione, non si pagano praticamente imposte indirette, come meglio vedremo appresso.
Il che significa che in casi come questi la cessione appare come lo strumento da preferire, perché costituisce una ottima occasione di caricare sulla società (magari rateizzandolo in modo di dargli tempo per poterlo sostenere con l’attività) l’onere della corresponsione del valore fino a quel momento creato dal professionista al professionista stesso. Il che non può non fare comodo a lui, anche e soprattutto perché se non percepisce valore attraverso un corrispettivo, sia pur parziale, lo dovrà poi fare un domani distribuendo l’utile o estraendo valore dalla società sotto altra forma, che è comunque sottoposta alla tassazione Ires o a quella più l’altra sui dividendi. Ma anche perché nei momenti del passaggio quei soldi possono fare incredibilmente comodo.
Un altro motivo per il quale è preferibile utilizzare la cessione lo abbiamo indicato nei paragrafi precedenti è ed legata ai rischi di frizione patrimoniali futuri cui si espone la società quando si conferisce importi elevati nel suo capitale. Il capitale sociale infatti è la principale e quasi sempre anche più corposa – perlomeno nei primi anni di attività – componente del patrimonio netto. Tanto più quest’ultimo è elevato, tanto più sarà facile che il patrimonio di funzionamento possa scendere per effetto dei fatti di gestione al di sotto del limite da lui rappresentato. A quel punto, l’assemblea non ha molte alternative: o ricapitalizza (e non sempre i soci possono essere in grado di farlo), o liquida oppure continua ad operare ma perdendo il beneficio della responsabilità limitata.
Il capitale sociale può essere benissimo più alto del limite minimo ma non esiste alcuna valida ragione per innalzarlo troppo sopra quel limite. Si deve trovare un giusto compromesso tra la sicurezza e l’immagine di solidità da trasmettere all’esterno e l’esigenza di non legare mani e polsi ai soci nel caso in cui le vicende alterne e non sempre prevedibili della gestione nel tempo possano presentare più facilmente il conto ai soci con un capitale sociale troppo alto.
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Ora concentriamoci sulla valutazione dello studio ai fini del conferimento o cessione dello stesso in una STP o SRL, ricordando che se utilizzano il conferimento tale perizia deve essere giurata e redatta da un revisore (non tutti i commercialisti sono anche revisori) e ha ovviamente un costo più alto, mentre se parliamo di cessione, tale perizia non dovrà essere giurata ma una perizia interna e informale, con un costo verosimilmente più basso di quella giurata.
Il metodo di valutazione dello studio, tuttavia, resta improntato sugli stessi principi, e affonda le sue radici nelle best practices per la valutazione delle aziende.
Le vere attività oggetto di conferimento sono tutte intangibili e in particolare lo sono le relazioni di clientela e l’avviamento.
La prima ha a che fare con il pacchetto pazienti già esistente e con la sua valorizzazione in termini economici. Il secondo invece ha a che fare con la capacità dello studio di attrarre pazientela nuova e con la sua valorizzazione economica.
Nel parlare comune e spesso persino nel parlare comune dei tecnici – si badi bene – spesso avviamento e relazione di pazientela vengono chiamati e ricompresi nella più generale concezione dell’avviamento; tuttavia, a stretto rigore e a maggior ragione quando valutiamo un’organizzazione professionale e non una azienda vera e propria, la distinzione più corretta è quella che vede da una parte la relazione di pazientela e dall’altra l’avviamento.
Naturalmente, andranno valutati anche gli altri beni tangibili presenti nello studio: impianti e macchinari, attrezzature varie, magazzino beni di consumo, ed eventualmente l’immobile (che è sempre meglio non inserire nel patrimonio della società, sempre che non sia per il tramite dell’attività della stessa che viene in realtà pagato il suo acquisito).
Nel caso degli impianti e attrezzature, l’operazione preliminare alla valutazione del perito è quella che normalmente viene effettuata con il proprio fornitore di fiducia, al quale si va a chiedere una valutazione analitica (e cioè articolo per articolo con relativo prezzo) degli impianti (idrico, aereazione, elettrico) e delle attrezzature medicali ed elettromedicali a prezzo di presunto realizzo (e cioè al prezzo al quale potrebbero essere vendute sul mercato dell’usato).
Il perito non è ovviamente in grado di poter effettuare in autonomia una operazione del genere e quindi prenderà per buona questa valutazione di un operatore di mercato esperto (e cioè l’unico che per la Legge può indicare un prezzo credibile di vendita per le attrezzature che costituiscono il suo mercato tipico).
Tornando agli intangibili e cioè alla relazione di pazientela e all’avviamento, va poi aggiunto che entrambi traggono origine dalla capacità dello studio di generare un extra-reddito positivo, dopo aver remunerato i fattori della produzione (costi operativi + capitale investito per realizzare lo studio e per remunerare il lavoro del titolare).
L’extra-reddito non coincide, si badi bene, con l’imponibile fiscale del professionista. Da quest’ultimo va detratto il costo figurativo del lavoro svolto dal professionista stesso, calcolato in proporzione alla produzione di servizi sanitari effettivamente da lui direttamente realizzata, oltre che la remunerazione del capitale investito.
E’ per questo motivo, che spesso sfugge ai dentisti, che non tutti gli studi hanno veramente un avviamento e una intangibile relazione di clientela.
Può accadere benissimo – e di fatto accade molto più spesso di quanto si possa credere – che l’imponibile sia a mala pena sufficiente a pagare il lavoro effettuato dal titolare, calcolato figurativamente ad una percentuale sul fatturato persino inferiore a quella concessa ai suoi collaboratori (odontoiatri e igienisti); o che addirittura non basti nemmeno a quello.
Discorso simile vale per la remunerazione del capitale investito!
Da che mondo e mondo, una persona che investa dei soldi – e il dentista per costruire e allestire il proprio studio ne spende tanti, spesso svariate centinaia di migliaia di euro – lo fa per ottenerne un ritorno, almeno minimo. Questo ritorno va dunque calcolato e dovrebbe essere coperto anch’esso dall’imponibile.
Se non è così, non solo lo studio non ha alcun avviamento, ma non è nemmeno in grado di remunerare i suoi principali fattori produttivi.
E questo può accadere per le più svariate ragioni: inefficienza gestionale, fatturato insufficiente alla copertura dei costi e alla formazione di un congruo margine, organizzazione pletorica e ridondante rispetto ai volumi di produzione dello studio, errata quantificazione delle tariffe rispetto alla struttura dei costi e alla qualità erogata.
Ma nella realtà pratica e per l’esperienza che ci siamo potuti costruire visitando un numero elevato di studi, nell’ambito del nostro lavoro di consulenti, quello che normalmente accade è che il titolare paga troppo i collaboratori odontoiatri rispetto a quanto gli permetta la sua struttura dei costi o spende troppo per materiali dentali e laboratorio, illudendosi che queste spese siano indissolubilmente legate alla qualità sanitaria che eroga, quando in realtà si pongono in essere sprechi, inefficienze e in qualche caso persino ruberie. Oppure non è stato semplicemente in grado di costruire un tariffario congruo alla sua struttura dei costi, perché non ha implementato un controllo di gestione e viaggia in maniera intuitiva.
In uno studio che fattura importi dai 500 mila in su, è ben difficile che, con qualsiasi livello di qualità erogata, si possa spendere in termini di costi variabili e in ragione di una percentuale sul fatturato, somme troppo distanti dai range appresso indicati: dal 6% al 11% per materiali dentali; dal 9% al 16% per laboratorio; dal 25% al 35% per collaboratori odontoiatri.
Questi sono i range fisiologici che caratterizzano tutte le gestioni di successo ed efficienti e TUTTI i grandi nomi dell’odontoiatria.
Sono fisiologici perché uno studio odontoiatrico ha una struttura dei costi importante e incomprimibile, che non permette di spendere di più senza intaccare in misura abnorme i compensi del titolare, intesi sia come compensi per le sue prestazioni professionali, che nel caso dell’esercizio professionale non sono costi ma confluiscono nell’imponibile confondendosi con l’utile vero e proprio, sia come avanzo che dovrebbe sempre esserci e andare a compensare il titolare per il rischio che ha corso, mettendo sul tavolo i suoi soldi per costruire e far sopravvivere lo studio e per i soldi che ha investito.
Chi eroga alta o altissima qualità in odontoiatria e sta in piedi in piena salute, lo fa non perché è uscito da questi range – detto tra noi quasi sempre vi rientra pienamente e/o fa addirittura meglio o molto meglio – ma perché ha prezzato in misura ben superiore alla media le sue prestazioni e cioè il suo tariffario. Naturalmente, sono in pochi a potersi permettere di far pagare una prestazione il doppio o il triplo del prezzo medio di mercato, ma questo è altro discorso.
Tornando al discorso principale, se l’extra-reddito, così come descritto, è negativo, vuole dire che non esiste alcun avviamento né relazione intangibile di clientela, o perlomeno non esiste nulla di ciò che basti a poter avere un valore positivo e quindi un prezzo di cessione che sia maggiore di quello relativo ai beni tangibili.
A voler meglio descrivere la dicotomia da cui siamo partiti, aggiungo che, a rigore, la relazione di clientela definisce una attività intangibile a vita definita (tutte le relazioni di clientela prima o poi finiscono), mentre l’avviamento rappresenta, normalmente, una attività intangibile a vita molto protratta o addirittura indefinita, e cioè quella capacità che hanno alcuni studi di rigenerare la clientela (quella vecchia) e di attrarne di nuova.
Tale capacità indefinita può essere in qualche caso legata all’organizzazione dello studio (studi grandi), ma più spesso è legata al professionista dotato di speciali capacità (il rainmaker, come dicono gli inglesi), che, proprio perché speciale, è in grado di attrarre sempre nuova linfa.
In questo caso, l’avviamento è personale per cui, se tale professionista entra nella società con altri soci, il rischio è forte, perché basta che lui un domani esca e sono guai; e se si è pagato un prezzo per il suo avviamento, a quel punto saranno stati soldi buttati.
Quindi, l’avviamento personale è trasferibile alla condizione che il professionista accetti di firmare un patto di non concorrenza, per un periodo sufficientemente ampio, da consentire il consolidamento di quell’avviamento in capo alla nuova impresa.
Quanto sopra ovviamente non può certo riguardare il nostro caso, quando e se il professionista cedente e quello ceduto sono in realtà la stessa persona.
Ma se i professionisti coinvolti nella nuova realtà societaria sono più di uno e ognuno di essi porta nella nuova scatola il controvalore economico dei propri studi o comunque della propria attività, è chiaro che anche queste considerazioni tornano utili a chiarire quali operazioni si debbano porre in essere per quantificare e qualificare quei valori e ri-proporzionarli all’interno della nuova società. Cosa che potrà avvenire in vari modi: quantificando il valore di ciascuno e facendo pagare alla società un corrispettivo coincidente con quel valore a ciascuno o solo ad alcuni tra questi, magari in un arco di tempo pluriennale. Oppure conferendo tutto nel patrimonio della nuova società, e attribuendo proporzionalmente a questi valori le rispettive quote di capitale.
Teniamo a specificare che tutto il discorso fatto finora risulta molto poco digeribile in un contesto di opinioni quale quelle che spesso popolano le comunità social dei dentisti, ma si tratta di questioni e valutazioni eminentemente tecniche, universalmente condivise da tutti coloro che valutano professionalmente le aziende.
In casi come questi, le opinioni lasciano il tempo che trovano: le aziende si valutano così, anche quelle dei professionisti se lo scopo è quello di sapere quanto valgono sul mercato dal punto di vista economico. Altre valutazioni, anche se degne di rispetto, non impattano sul valore economico.
Tenendo presente tutto ciò, gli step della valutazione dello studio saranno i seguenti:
Ricordiamo che, se la società di arrivo è di capitali (STP-srl o Srl Odontoiatrica) e l’operazione utilizzata per farvi confluire gli asset è il conferimento, tale valutazione deve essere redatta da un perito in una certa forma e obbligatoriamente e cioè con una perizia giurata effettuata e sottoscritta da un revisore (che ha ovviamente un costo di qualche migliaio di euro).
Ma non sarebbe male affidare comunque tali valutazioni ad un perito esterno in ogni caso, al solo fine di evitare clamorosi errori di sopra o sotto valutazione, in particolar modo quando i soci sono più di uno e tutti sono professionisti che conferiscono la propria attività in una realtà aziendale unica.
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Quando entriamo nell’ambito della normativa fiscale e della prassi amministrativa dell’AdE, la complessità che abbiamo finora visto tende a ridursi.
La legislazione tributaria si è infatti limitata a prendere atto delle nuove possibilità concesse ai professionisti dalla Giurisprudenza e della Dottrina Giuridica, introducendo, nel 2006, un nuovo comma all’art. 54, – l’articolo del TUIR che disciplina le regole per la determinazione del reddito di lavoro autonomo – il comma 1quater appunto, che testualmente recita:
Il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte e della professione, salvo quanto stabilito nei successivi commi.
I compensi sono computati al netto dei contributi previdenziali e assistenziali stabiliti dalla legge a carico del soggetto che li corrisponde.
Concorrono a formare il reddito le plusvalenze (e le minusvalenze) dei beni strumentali, esclusi gli immobili e gli oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione, se:
- Sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso;
- Sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita e il danneggiamento dei beni;
- I beni vengono destinati al consumo personale o familiare dell’esercente l’arte o la professione o a finalità estranee all’arte o professione.
Le minusvalenze dei beni strumentali di cui al comma 1-bis sono deducibili se sono realizzate ai sensi delle lettere a) e b) del medesimo comma 1-bis.
Si considerano plusvalenza o minusvalenza la differenza, positiva o negativa, tra il corrispettivo o l’indennità percepiti e il costo non ammortizzato ovvero, in assenza di corrispettivo, la differenza tra il valore normale del bene e il costo non ammortizzato.
L’art. 36 del D.L. n. 223/2006 ha poi modificato l’art- 54 del TUIR con l’aggiunta del comma 1-quater, che disciplina il trasferimento dello studio a titolo oneroso, prevedendo che:
Concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica e professionale.
Il Legislatore Tributario ha quindi preso atto delle nuove prassi e ha preso subito beneficio: non si è pronunciato sulla liceità della cessione dei beni immateriali, sull’avviamento, sulla sostanziale equiparazione dello studio all’azienda sotto molteplici profili, nel momento in cui la prassi aveva permesso la sua cessione o il suo conferimento come se fosse stato un unicum suscettibile di valutazione come nel caso di un’azienda vera e propria.
Poiché quello che restava scoperto era il bene immateriale, ne ha subito decretato la sorte sotto il profilo tributario, rendendo la sua cessione interamente tassabile per il professionista che li cede: pecunia non olet!
Subito dopo, è intervenuta l’Agenzia delle Entrate, creando un quadro che è stato considerato applicabile a qualunque fattispecie di trasformazione fino al 2018. Alla fine del 2018 e agli inizi del 2019, l’Ade è tornata ancora una volta sul tema e ha segnato una netta distinzione che ha cambiato il quadro.
Partiamo da qui.
L’Agenzia delle Entrate è intervenuta inizialmente due volte sul tema, nel corso del 2009 e precisamente: con la circolare 8 del 13 marzo 2009 e con la risoluzione 177 del 9 luglio 2009.
In entrambi i casi ha sostenuto che, in mancanza di una cessione a titolo oneroso, qualora il professionista stia cedendo per conferire in una forma associata e quindi per continuare l’attività in una nuova forma giuridica -da solo o con altri colleghi- non vi sono i presupposti per una plusvalenza fiscalmente rilevante in capo al professionista, a patto che si verifichino due condizioni:
In sostanza, la cessione è fiscalmente neutrale solo se è prodromica alla trasformazione dello studio in qualche altra forma associata e se il conferente non prende un corrispettivo in denaro.
In caso contrario, e cioè nel caso di semplice cessione per fine attività in cambio di conquibus, occorre ancora una volta distinguere:
Fino al 2018, questa impostazione sembrava applicabile a qualunque forma associata di arrivo, anche se in verità le due pronunce del 2009 si riferiscono sempre ad esempi relativi a conferimenti di studi mono a studi professionali associati.
Tuttavia, probabilmente anche per il fatto che in quegli anni il fenomeno della trasformazione da studio ad srl era ancora realizzato da pochissimi dentisti, si dava per scontato che tali pronunciamenti dell’Ade avessero valenza generale e che quindi fossero pienamente applicabili anche nel caso di una trasformazione di uno studio in una società di gestione di ambulatorio e di una stp-srl.
Ne derivava una netta propensione verso l’operazione del conferimento, non foss’altro perché avrebbe comportato la neutralità fiscale dell’operazione sotto il profilo delle imposte dirette, ricevendo il conferente solo quote in cambio della cessione degli asset e non denaro.
Purtroppo, nel 2018, l’AdE torna sul tema e con due risposte ad interpelli, la 107 e 125 di dicembre 2018, una delle quali viene presentata proprio da un odontoiatra che deve trasformare uno studio in srl-stp – cambia le convinzioni diffuse su questa interpretazione valida erga omnes, statuendo che quei pronunciamenti dovevano essere inquadrati semplicemente ed esclusivamente in un contesto professionale. E cioè solo nel caso in cui la cessione o il conferimento fossero avvenuti cedendo – o conferendo – studi mono in studi associati.
In particolare, va osservato che gli stessi pronunciamenti passati specificavano, quanto al conferimento, che il fatto di ricevere quote in cambio della cessione degli asset era da considerarsi un’operazione neutrale solo in quello specifico ambito, considerando il fatto che non si poteva considerare sinallagmatico uno scambio tra attivi e quote di una società di persone e in particolare di una società sostanzialmente assimilata alla più basilare forma di quella, quale è appunto considerato lo studio associato. In casi come quelli, la quota è legata molto più al contributo professionale del titolare che ad uno scambio a titolo oneroso tra asset e quote sociali.
Ben diverso è il caso quando si va a conferire in una società commerciale o una società comunque sottoposta al regime dei redditi di impresa, come la srl o la srl-stp!
Per l’AdE, il semplice fatto che il professionista stia abbandonando il proprio regime tributario originario (redditi di lavoro autonomo nell’IRPEF) per abbracciare quello di impresa (IRES), rende anche il conferimento una operazione da considerarsi onerosa e quindi con corrispettivo persino in mancanza di remunerazione monetaria, come è il caso del conferimento in cui il conferente riceve quote.
Dal 2018 in poi, dunque, la cessione o il conferimento dell’avviamento comporta sempre che l’operazione stessa, per la parte relativa ai beni immateriali, è sempre e interamente sottoposta alla tassazione sul reddito di lavoro autonomo per il cedente/conferente professionista, mentre il corrispettivo pagato rimarrà interamente deducibile per la società.
Nel caso in cui lo studio di partenza sia uno studio associato, anche l’eventuale indennità di recesso, che il socio dissenziente all’operazione di trasformazione in società può ricevere, va assoggettata a tassazione separata. Ma solo se sono trascorsi più di cinque anni dalla costituzione dello studio associato alla votazione per la trasformazione che lo ha visto dissenziente.
In caso contrario, il corrispettivo riscosso andrà tassato a tassazione ordinaria (IRPEF).
In alternativa al recesso però, il socio potrebbe anche cedere la partecipazione e ne avrebbe anche una certa convenienza.
In questo caso, infatti, soccorre l’art. 67 comma 1, lett. C e c-bis del TUIR, a stabilire che tale cessione a titolo oneroso non dà luogo a plusvalenza tassabile.
Quindi, tirate Voi le relative conclusioni: pianificare e conoscere aiuta a non pagare tasse evitabili.
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Dal punto di vista dell’assoggettamento ad Iva, non potendosi parlare in alcune delle operazioni analizzate di trasferimento d’azienda in senso stretto, unanimemente si conviene che sia più prudente affermare che la cessione dello studio, inteso come cessione dei beni (studi piccoli con scarso rilievo della organizzazione), sia pienamente assoggettabile ad IVA, qualificandosi per espressa dizione dell’AdE, in una prestazione di servizi derivanti dall’obbligazione del cedente.
Mentre può essere considerata un’operazione esclusa in tutti quei casi in cui il trasferimento o il conferimento non comporta necessariamente una prestazione di servizi, contestuale ad opera del cedente.
In questi casi, ciò che viene trasferito è il complesso aziendale del professionista più che l’avviamento personale dello stesso.
Non avremo IVA quindi nei casi di conferimento di uno studio mono o associato in una srl o in una srl stp o nel caso di trasformazione con contestuale conferimento da studio associato ad srl – ambulatorio o stp qualunque genere, ma imposta di registro proporzionale al 3%.
Questo è un altro dei motivi per i quali si preferiva, prima del 2018, quasi sempre il conferimento alla cessione: una cosa è pagare il 22% sul valore di perizia relativo agli intangibili (sui tangibili, trattandosi di beni usati, l’iva non è dovuta in caso di cessione), che sono quasi sempre la parte preponderante del valore complessivo di perizia; e ben altra è pagare sull’intero valore di perizia una imposta di registro pari al 3%.
Dopo il 2018, con il sostanziale assoggettamento di qualunque operazione di cessione o conferimento a tassazione diretta per la parte relativa agli intangibili, il quadro delle scelte convenienti è radicalmente cambiato.
Dopo aver illustrato le procedure che i più ritengono corrette e percorribili, dedichiamo un cenno ad alcune procedure che pure vengono praticate ma che presentano il rischio di censura da parte dell’AdE.
Esiste anche una corrente di pensiero tra gli addetti ai lavori che non consiglia di effettuare il conferimento – o la cessione – dell’avviamento ma solo dei beni tangibili come le attrezzature ed impianti ed il magazzino.
A conforto di questa impostazione, sta la fondamentale osservazione che la Giurisprudenza della Cassazione ha sostanzialmente creato una fattispecie che nella Legge non esiste; per la Legge, il complesso organizzato del professionista non può in alcun modo essere assimilato ad un’azienda, ragion per cui non è concepibile che si ceda o conferisca l’avviamento e tanto meno che lo si possa cedere unitamente agli altri beni tangibili che costituiscono il complesso organizzativo e patrimoniale dello studio professionale. Quindi, diviene difficile dubitare in merito alla liceità di una condotta tesa a conferire o cedere attrezzature e impianti ma non la relazione di pazientela ed avviamento, perché non esiste alcun obbligo espresso di farlo.
D’altra parte, è appena il caso di osservare che il l’unica fonte di Legge a citare espressamente la possibilità di cedere il pacchetto clientela è il già citato TUIR, all’art. 54 co.1 quater. Ma tale testo legislativo rende obbligatorio pagare imposte sulla cessione del pacchetto clientela quando lo stesso viene trasferito (e anche per il conferimento, o perlomeno così si sente di interpretare estensivamente l’AdE quando “legge” il citato testo legislativo), non rende obbligatorio effettuare la cessione del pacchetto clientela!
Va anche detto, per onestà e completezza, che la prassi di evitare la cessione del pacchetto clienti è stata praticata da molti e in molti di questi casi non si è dovuto assistere ad alcuna contestazione da parte dell’Ade; tuttavia il fatto che ci siano state anche pratiche dello stesso tipo contestate dall’AdE, e persino prima della risposta ad interpello del 2018, ci porta a propendere che i casi del primo tipo siano da attribuire a casi fortunati e a nulla di più.
Il tema, infatti, è di quelli delicati e va preso con le molle: di fatto, l’Ade possiede degli algoritmi per verificare questo tipo di operazioni e tali algoritmi prevedono sempre una valutazione almeno della relazione di pazientela se non dell’avviamento, sulla base di metodi reddituali-patrimoniali, che sono proprio gli stessi metodi che i periti utilizzano per valutare gli studi professionali.
D’altra parte, se è vero che non conferire l’avviamento o cederlo in assenza di corrispettivo non produrrebbe comunque alcun effetto sull’imposizione diretta dei relativi cespiti, è altrettanto vero che li produce eccome su quella indiretta, per cui l’Ade potrebbe benissimo censurare l’operazione contestando almeno l’evasione dell’imposta di registro – nel caso del mancato conferimento – e dell’iva, nel caso della mancata cessione.
Noi consideriamo questa condotta come praticabile (comunque con rischio di vedersi arrivare una contestazione, si badi bene) solo quando la società di arrivo non è unipersonale e la compagine sociale non è composta solo dal ristretto nucleo familiare del professionista, ma limitatamente ad una sola ipotesi: quella della cessione di tutti i beni materiali e non di quelli immateriali.
Nel caso contrario, invece, consigliamo di cedere e non di conferire relazione di pazientela ed avviamento o, al limite, di conferire con corrispettivo il marchio (in quest’ultimo caso, quando si può farlo ovviamente e cioè quando il marchio sia stato depositato almeno tre anni prima).
Cedere invece che conferire (al di fuori dell’ipotesi conferimento marchio) è un consiglio che ammette una sola eccezione, rappresentata da quei casi in cui le aliquote marginali pagate dal professionista negli anni passati sono state particolarmente basse, e quindi potrebbe venire utile usufruire del regime della tassazione separata. Questo perché il conferimento sarà pure considerabile sempre e comunque come un’operazione onerosa dall’AdE, ma avverrà sempre in unica soluzione visto che avviene in natura e quindi resterà pienamente assoggettabile al regime della tassazione separata. E’ chiaro che se ci riflettiamo bene, il fatto che un professionista che fa una srl possa avere avuto redditi bassi nei cinque anni precedenti o comunque basse aliquote marginali Irpef resta come un’ipotesi abbastanza rara ed improbabile.
Discorso simile vale, a maggior ragione, quando lo studio di partenza è uno studio associato. E’ del tutto plausibile che in un caso come questo l’avviamento si lasci in capo a quello e non lo si ceda alla società, a maggior ragione se quello studio restasse comunque in piedi e fosse utilizzato per fatturare alla società – anche nel futuro – tutti i compensi degli associati per la loro produzione effettuata nella srl. Si potrebbe in questo caso dividersi gli utili anche negli anni a venire, evitando la contabilità ordinaria con relative spese – comprese quelle del commercialista – almeno per gli associati stessi, visto che gli stessi potrebbero semplicemente dividersi gli utili in proporzione alle quote e che lo studio associato permette di modificare il peso delle quote degli associati ogni anno e prima di presentare la dichiarazione dei redditi, attraverso una semplice operazione che può effettuare direttamente il commercialista.
Nei casi in cui non si conferisce l’avviamento, si potrebbe tranquillamente evitare il conferimento e utilizzare la cessione di attrezzature, impianti e magazzino.
Quasi sempre si tratterebbe di cedere beni non plusvalenti, per cui non si avrebbe comunque imposizione sul reddito. Inoltre, non essendo i beni usati gravati da iva, neanche imposizione indiretta.
Insomma, una cessione con corrispettivo potrebbe costituire una buona occasione per fornire liquidità a costo zero, dal punto di vista impositivo, per il professionista, una liquidità che potrebbe ovviamente fare comodo in un momento in cui le spese e gli investimenti legati alla trasformazione sono praticamente scontati.
Ma anche quando si deve – o si preferisce farlo per andare sul sicuro – trasferire l’avviamento, con la sola eccezione poc’anzi illustrata, l’operazione più conveniente resta quella della cessione dopo il 2018: e per una serie di ragioni.
Intanto, perché la perizia e il contratto non si devono obbligatoriamente registrare e non sono quindi automaticamente riscontrabili da parte dell’Ade, che soprattutto in certi contesti territoriali dove le società non sono moltissime, le operazioni di conferimento le passa tutte al setaccio.
Cedendo sulla base di una perizia e un contratto che restano privati, si rischia di meno ed è molto più facile evitare il vaglio dell’operazioni da parte del Controllore.
E’ ovviamente sempre possibile che l’Ade possa decidere di controllare comunque e anche chiedere di visionare il contratto e la perizia: ma avrà meno possibilità di contestare i numeri, visto che non si tratta di una perizia giurata per la determinazione del controvalore di beni in natura, la cui congruità deve essere particolarmente curata visto che il fine è il conferimento in una società, ma di un libero accordo tra le parti, che può quindi, sia pur entro certi limiti, presentare una maggiore elasticità nella valutazione.
Naturalmente, per la parte di valore che concerne l’avviamento e cioè la cessione della pazientela, il relativo controvalore dovrà scontare l’iva al 22%.
Ora però si deve cercare di essere pratici.
Quando si cede, la tassazione separata è una modalità poco interessante – per le ragioni già esposte – e si preferisce pagare il corrispettivo in un arco di tempo prolungato (magari in cinque anni). Sappiamo già che il reddito del professionista, una volta normalizzato, si riduce comunque di molto.
Il che significa che il valore dell’avviamento ben difficilmente può superare i 200.000 euro e in molti casi può addirittura essere prossimo allo zero. Il che vuole dire pagare somme mai superiori ai 40.000 euro anno.
Ed è proprio valutando sui numeri caso per caso che si potrà decidere per il meglio, ricordando che si è comunque in una fase di start up.
Sappiamo infatti che nei primi cinque anni di vita della srl, il professionista estrarrebbe comunque sotto forma di parcelle professionali ben più di quella somma. Che la estragga sotto forma di parcella o di corrispettivo rateizzato di una cessione, non cambia di una virgola la sua aliquota marginale Irpef.
L’intero importo della cessione uscirà invece dalle casse della società e sarà per lei interamente deducibile, compresa l’iva al 22%.
A ben vedere, per il professionista il carico fiscale di tale operazione peserebbe soprattutto per l’iva e molto meno per le imposte dirette, che pagherebbe comunque.
Certo, sarebbe sicuramente meglio evitarla questa imposizione diretta, ma quello che intendiamo dire è che tutto sommato il danno è minore di quanto possa apparire e in alcuni casi è davvero il caso di non correre rischi.
Anche perché se cediamo o conferiamo l’avviamento, questo potrà sempre avvenire su una base da tassare che entro certi limiti scegliamo noi. L’AdE può contestare la somma ovviamente ma abbiamo modo di difenderci se non abbiamo corretto troppo i calcoli a nostro vantaggio. Quando invece è l’Ade a calcolare quel valore, di sicuro non lo farà a nostro favore e in più vi chiederà di pagare sanzioni e interessi su quella somma; e sarà molto più difficile difendersi, in considerazione del fatto che quell’avviamento non lo avevamo dichiarato proprio. Non si dice che sia impossibile questa difesa, ma se la stessa non è corroborata da ragioni in diritto molto forti, diviene molto difficile sperare di avere qualche buona change di spuntarla.
Naturalmente, la partita iva del e dei professionisti deve rimanere aperta ed operativa ed è altamente consigliabile che la stessa venga utilizzata anche per fatturare i lavori in corso di ultimazione per un certo tempo successivo alla trasformazione e non solo le prestazioni sanitarie del professionista nei confronti della srl.
Nel caso della stp poi, questa condotta diviene praticamente obbligatoria, poiché la chiusura della partita iva del professionista comporta de plano la ripresa a tassazione di tutti i redditi che il professionista è riuscito a trasformare in utili della società, indipendentemente dalla loro integrale percezione.
Dal punto di vista dell’Ade, infatti, una trasformazione da studio a società professionale che ha un oggetto sociale esclusivo e limitato alla professione, con il passaggio dal regime del lavoro autonomo a quello dei redditi da impresa societaria (Ires vs Irpef) non può che essere considerato in re ipsa come condotta elusiva quando la vecchia partita iva e quindi il regime professionale precedente viene completamento chiuso e quindi appare terminato definitivamente.
Sia nel caso della srl che a maggior ragione in quello della srl-stp, mantenere quindi aperte e operative le partite iva dei professionisti risulta essere la condotta più indicata da seguire, per non dire quella obbligatoria, se si vuole evitare guai quando si è già scelto di correre il rischio di non cedere l’avviamento.
Questo principalmente al fine di dimostrare che la relazione di pazientela è rimasta in capo al professionista anche dopo l’inizio attività della srl.
Sconsigliamo vivamente di utilizzare la stessa condotta quando il professionista costituisce una srl unipersonale o a ristretta compagine sociale familiare. In questo caso, è molto più alta la possibilità che l’Ade intraveda nell’operazione una condotta elusiva su più livelli e non è mai il caso di svegliare il cane che dorme, visto che tra l’altro non dorme per niente.
Nel caso invece in cui si eviti il conferimento dell’avviamento e si ceda gli attivi tangibili alla società, società che verosimilmente avrà la stessa compagine sociale della associazione professionale, esiste ancora un altro motivo per continuare ad utilizzare lo studio associato anche per fatturare le prestazioni sanitarie degli associati professionisti – che sono anche i soci della srl – alla srl stessa: e cioè che in questo modo gli associati potranno ogni anno redistribuire le quote dello studio associato nella stessa proporzione in cui hanno pesato le relative produzioni dei soci su quella totale – la stessa che è stata poi fatturata allo studio associato a non a loro come singoli operatori – e dividersi gli utili dello stesso, evitando altre due contabilità ordinarie e potendo utilizzare la cassa dello studio in un modo ben diverso da quello in cui possono utilizzare quella della srl.
Nello studio infatti, come già rilevato, i prelievi dalla cassa costituiscono una mera anticipazione finanziaria degli utili da percepire a fine anno. La stessa operazione, quando effettuata sulla cassa della srl, costituisce un prelievo non giustificato e passibile di censura, in qualche caso anche sotto il profilo penale.
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