Il dentista comune non conosce i principi generali del Contratto Collettivo Nazionale dei lavoratori (CCNL) che sarebbero molto utili al management dello studio ed, in particolare, alla gestione del personale. Su questa base si capisce anche perchè egli non colga molte opportunità che il Diritto del Lavoro, in continuo mutamento, pure offre: stipulare accordi specifici sul welfare o sulla produttività, optare tra contratti diversi sulla base della convenienza, agire in deroga a quanto stabilito nei CCNL.
L’obiettivo di questo articolo è quello di illustrare alcune caratteristiche generali del Contratto Collettivo Nazionale dei Lavoratori in ambito odontoiatrico nel contesto più ampio del Diritto del lavoro e del Diritto Sindacale.
Non si tratta di una esposizione didattica in astratto, ma è finalizzata a far comprendere al dentista come la conoscenza di questa materia possa aprire opportunità interessanti sia nel management generale dello studio sia nella relazione di valore con il personale dipendente.
Il campo di ricerca e di pratica del management aziendale è molto vasto e si articola in due principali filoni, uno interno e l’altro esterno all’azienda; quello interno si sostanzia nello studio e nella pratica di modelli organizzativi, procedure e processi.
Qualunque azienda può mettere a frutto questo tipo di modelli e fare la differenza sotto il profilo economico, proprio perché sono proprio questi profili a dare corpo e dimensione ai fatti economici e a rendere la struttura organizzativa efficace ed efficiente.
Per quanto il controllo di gestione e la contabilità direzionale siano fondamentali e importanti, senza la tridimensionalità del fattore organizzativo tutto il lavoro di pianificazione e controllo sui meri numeri rischia facilmente di tradursi in un’occasione mancata. Sotto questa angolazione non esiste azienda che possa considerarsi estranea all’esigenza organizzativa, anche quelle appartenenti al settore odontoiatrico e a quello sanitario in genere non fanno eccezione: anzi, a ben vedere sono proprio le aziende sanitarie quelle al cui interno il fattore organizzativo rileva come uno di quegli elementi essenziali per il buon funzionamento della struttura stessa.
Il fattore organizzativo, a sua volta, ha una diretta relazione con la gestione del personale: dal momento della sua assunzione alle modalità con cui si impartiscono regole e istruzioni, si determina il livello salariare e gli altri benefit in natura e ogni altro aspetto attinente al rapporto di lavoro.
A sua volta, la gestione del personale attiene all’ambito dell’Organizzazione aziendale ma dipende in misura sensibile da un contesto esterno all’azienda, un contesto che risente del quadro giuridico nazionale e quindi dal Diritto del Lavoro e dal Diritto Sindacale. Di queste materie raramente si sente parlare ad opera dei vari esperti di management attivi nel settore odontoiatrico: eppure si tratta di una conoscenza che si rivela molto utile a tutti quelli che devono occuparsi di condurre un’azienda e anche un’azienda sanitaria.
Una cultura giuridica di base in questo ambito può rivelarsi davvero utile ed è per questo che scriviamo queste note. Peraltro, si tratta di una branca del Diritto molto bella e interessante da conoscere e soprattutto molto viva e in continua evoluzione.
A conferma di quanto appena affermato, possiamo sottolineare che, se esiste una materia all’interno del più vasto ambito del Diritto che presenta una continua dialettica tra la norma scritta e quella materiale, è proprio questa che ci proponiamo di indagare. Il Diritto del Lavoro e il Diritto Sindacale si modificano e si adattano alle mutevoli condizioni del contesto sociale e politico ad una velocità e con una profondità che raramente possono essere riscontrate in altri campi del Diritto.
Se vogliamo comprendere questa evoluzione e interpretare a nostro vantaggio questo insieme di conoscenze giuridiche, dobbiamo tuttavia partire dal principio e illustrare alcuni fondamenti di una sua essenziale porzione che è quella del Diritto Sindacale.
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Dobbiamo necessariamente partire dalla nostra Costituzione che, dopo aver cristallizzato il fondamentale principio della libertà dell’associazionismo sindacale nella Repubblica italiana – anche allo scopo di operare una vera e propria discontinuità rispetto a quanto previsto dall’Ordinamento vigente nel ventennio fascista – si occupa anche di illustrare i principali compiti dei sindacati e lo fa in particolare nell’art. 39, che merita una citazione letterale e una esegesi attenta:
L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Un primo elemento che attira il nostro interesse è proprio quello della funzione normativa affidata ai sindacati: quella appunto di stipulare Contratti Collettivi nazionali (e territoriali) validi erga omnes. Si tratta di una funzione che possiamo a piena ragione definire normativa, in quanto è proprio attraverso questo strumento (il contratto collettivo nazionale appunto) che i sindacati possono (se rispettano i requisiti fissati dalla Costituzione) predeterminare il contenuto dei contratti individuali di lavoro per ciascun settore dell’Economia. La Costituzione e la Dottrina Giuridica vanno esattamente nella stessa direzione nel momento in cui assegnano a questa funzione una natura essenzialmente normativa, normalmente delegata a ben altri soggetti giuridici e sono ben consapevoli dell’eccezionalità di questa attribuzione.
Possiamo subito anticipare che questi contratti collettivi si sono sviluppati nel tempo fino a costituire un sistema, in senso molto ampio e articolato, che vede al vertice gli accordi interconfederali, i quali definiscono le basi retributive e gli altri elementi del rapporto di lavoro minime e comuni a tutto il mondo del lavoro e alla base i vari contratti collettivi nazionali di lavoro, per ciascun settore economico, che disciplinano e articolano quelle regole, adattandole a ciascun settore preso a riferimento. I Contratti collettivi spesso si moltiplicano con diversi sindacati firmatari per ciascun settore economico.
Chiunque debba stipulare un contratto di lavoro individuale presso la propria azienda deve applicare un contratto collettivo di riferimento con una essenziale differenza, che riguarda solo i datori di lavoro e non i lavoratori.
I datori di lavoro (ddl), quindi anche gli odontoiatri, se sono iscritti ad un sindacato, sono a loro volta tenuti ad applicare il contratto collettivo nazionale di cui il proprio sindacato risulti co-firmatario.
Se invece non sono iscritti a nessun sindacato, possono applicare uno qualunque dei contratti collettivi nazionali di riferimento del proprio settore e persino quello di un altro settore, a condizione che quest’ultimo garantisca un trattamento economico minimo almeno pari a quello disciplinato dai contratti collettivi nazionali del proprio settore.
Si specifica che ai fini del discorso che stiamo portando avanti, il termine azienda deve essere visto non in senso strettamente giuridico, secondo la nozione cui siamo stati abituati dal Diritto Commerciale. In ambito giuslavoristico, infatti, le stesse regole sono applicabili a qualunque datore di lavoro, sia esso un imprenditore vero e proprio come anche un professionista.
Appare quindi evidente l’esigenza di addentrarci nella materia per andare a verificare se la conoscenza dei precetti fondamentali di questa branca del Diritto possa tornare utile anche per gli interessi dell’odontoiatra e dello studio dentistico.
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Tornando al precetto Costituzionale, va subito sottolineato una sorprendente realtà e cioè quella per cui il secondo e il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione non abbiano mai ancora trovato piena attuazione nel nostro Ordinamento. Varie sono le ragioni per le quali questo articolo della Costituzione ha subito questa strana sorte (e non si tratta neanche di un caso isolato, peraltro).
Tra queste vanno sicuramente identificate ragioni eminentemente politiche, relative alla forza dei Sindacati e ai loro legami con la Politica propriamente detta, che hanno avuto un ruolo predominante perlomeno nei primi cinquant’anni di vita della Repubblica, nella strada per la traduzione in leggi ordinarie del precetto costituzionale.
In parole semplici, l’idea di registrarsi e/o quella di dichiarare il numero dei propri iscritti è un precetto al quale i sindacati si sono sempre fieramente opposti e va anche detto che sono riusciti a convincere la Politica delle buone ragioni sottese ai loro convincimenti. Poiché tuttavia la contrattazione collettiva aveva un ruolo fondamentale nella strutturazione di tutta la contrattualistica sottesa ai rapporti di lavoro nel nostro Paese, fu direttamente la Dottrina Giuslavoristica a coniare nuovi e diversi criteri attraverso i quali misurare la rappresentatività di un sindacato, al fine di legittimarlo a stipulare contratti collettivi di lavoro.
Furono in particolare due grandi Giuristi, Gino Giugno e Francesco Santoro Passarelli a coniare alcuni tra questi nuovi criteri, alla cui articolazione definitiva ha poi contribuito anche la Giurisprudenza della Cassazione e persino quella della Corte Costituzionale.
In sintesi, questi i nuovi criteri: anzitutto, la rappresentatività è sempre declinata al plurale. I sindacati rappresentativi sono sempre quindi più di uno.
Inoltre, la rappresentatività viene riconosciuta in quanto effettiva. Criterio sicuramente vago ma aperto, nel senso che possono esistere diversi modi per andare ad indagare se tale rappresentatività è in qualche modo dimostrata o dimostrabile per fatti concludenti. In particolare, è richiesta una equilibrata consistenza associativa su tutto l’arco delle categorie e la diffusione dell’organizzazione su tutto – o perlomeno su gran parte del – territorio nazionale (Cassazione). E’ poi valutato come fatto concludente la partecipazione attiva del singolo sindacato alla contrattazione collettiva nazionale, oltre che lo svolgimento continuativo e sistematico dell’attività dell’autotutela.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, Il sindacato, per esistere ed essere riconosciuto quale rappresentativo, deve farsi sentire e dimostrare continuamente di essere vivo e vitale, in tutte le modalità che la legge e la prassi sindacale mettono a sua disposizione, il che spiega anche il motivo per il quale i sindacati più importanti (e anche quelli che lo sono meno) abbiano maturato certe abitudini e talune prassi operative (quali ad esempio quelle di indire scioperi, organizzare manifestazioni, tenere rapporti stretti con il mondo dell’informazione e con la Politica, etc.).
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Perché la rappresentatività del sindacato costituisce un presupposto importante per la stipula di un contratto collettivo nazionale?
Il motivo è semplice: solo integrando questa condizione si può ambire a stipulare contratti collettivi nazionali validi erga omnes e cioè anche al di fuori del più ristretto perimetro rappresentato dal Sindacato firmatario e dei propri iscritti. Il che costituisce una notevole eccezione alla dottrina generale dei contratti: un contratto, di qualunque genere esso sia, ha normalmente efficacia tra le parti e non estende i suoi effetti a terzi estranei alle pattuizioni contrattuali. Il Contratto Collettivo Nazionale stipulato da associazioni sindacali rappresentative fa eccezione a questa regola, proprio in funzione di quel fondamentale presupposto – la rappresentatività appunto – e perché costituisce un istituto che l’Ordinamento giuridico e il Diritto del Lavoro giudicano meritevole di regole speciali, a loro volta giustificate in relazione alla finalità di interesse pubblico che quel contratto deve realizzare: costituire un fondamentale presupposto di primo livello per la stipula dei contratti individuali di lavoro in ogni settore e ambito dell’Economia Nazionale.
Cosa intendiamo dire quando affermiamo che il Contratto Collettivo stipulato da organizzazioni sindacali rappresentative acquista validità erga omnes? Semplicemente che le regole in esso contenute non valgono solo per le associazioni e gli iscritti a quelle associazioni ma anche per tutti gli altri datori di lavoro e lavoratori che non vi appartengono. In particolare, saranno i datori di lavoro a scegliere se iscriversi ad un sindacato – il che li costringe ad applicare il contratto collettivo di cui la propria associazione sindacale risulti co-firmataria – o applicare a propria scelta uno dei Contratti Collettivi disponibili nel proprio settore (e persino di altri settori, ma sul punto si ritornerà). Nel momento in cui accade questo, appare evidente l’estensione delle regole dettate dal CCNL al di fuori delle parti firmatarie come anche balza prepotentemente agli occhi la funzione normativa che viene espletata dallo stesso CCNL.
La contrattazione collettiva quindi costituisce un sistema ampio e articolato e dimostra per tabulas l’estensione e l’articolazione del comparto sindacale, svolgendo un’essenziale quanto del tutto peculiare funzione e costituendo la base su cui vanno ad articolarsi tutti i contratti di lavoro individuali conclusi tra ddl e lavoratori nell’intero Paese.
Il fatto poi che per ciascun settore possano esistere più contratti di lavoro cofirmati da sigle sindacali diverse (e che a loro volta rappresentano sia i lavoratori che i datori di lavoro) apre ai più, che non sono associati ad alcuna sigla sindacale, una possibilità aggiuntiva: andare a scegliere quel contratto collettivo nazionale che meglio si attaglia alle proprie peculiari esigenze.
I contratti collettivi nazionali, infatti, sono tutti abbastanza simili ma non sono per nulla eguali. Una delle attività più interessanti da effettuare con l’ausilio del proprio consulente del lavoro dovrebbe essere propria quella di andare a verificare quale tra i contratti collettivi disponibili potrebbe essere il più adatto da adottare per le proprie peculiari esigenze. Usiamo il condizionale non a caso, in quanto nella realtà si tratta proprio di una di quelle operazioni che vengono clamorosamente trascurate.
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I contratti collettivi nazionali si articolano essenzialmente in due modalità e espletano due essenziali funzioni: quella normativa e quella obbligatoria.
La funzione normativa è quella più importante e si sostanzia nel predeterminare il contenuto essenziale dei contratti individuali di lavoro, sia per quanto riguarda il trattamento economico che per quanto riguarda tutti gli altri istituti o aspetti che rilevano nell’attuazione del rapporto di lavoro e cioè: le ferie, i permessi, la formazione, l’apparato sanzionatorio, il trattamento delle malattie e degli infortuni, il welfare, etc.
E’ proprio tra le pieghe di queste materie che da un contratto collettivo all’altro si potrà constatare che, se il trattamento del rapporto si somigli in generale da un contratto all’altro, sono proprio i particolari che disciplinano ogni singolo istituto quelli dove possono essere riscontrate le più importanti differenze. Ad esempio, nella disciplina dell’apprendistato professionalizzante e in quella dell’apprendistato per qualifica professionale alcuni contratti collettivi (ad es. quello cofirmato da Andi) prevedono un trattamento economico sensibilmente inferiore per i primi anni del periodo di apprendistato, rispetto ad altri contratti collettivi di settore (quello co-firmato da Aio e quello co-firmato dal Siaso-Confsal).
La seconda ed essenziale funzione dei contratti collettivi nazionali è quella di regolamentare e fissare rapporti di natura obbligatoria tra le organizzazioni sindacali aderenti e co-firmatarie. Il più significativo esempio di questa tipologia di rapporti è quella che ha visto la nascita e lo sviluppo dei cosiddetti Enti Bilaterali.
Gli enti bilaterali esistono da molto tempo, ma la rosa di compiti a loro riservata è stata definitiva con la Legge n. 30/2003 e il decreto attuativo Dlgs 6/10/2004 n. 251. In particolare la Legge del 2003 all’articolo 2 statuisce che:
agli enti bilaterali spetta la funzione di regolamentazione del mercato del lavoro attraverso la promozione di una occupazione regolare e di qualità; l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento.
Tutti i datori di lavoro (ddl) che aderiscono ad un contratto collettivo, nel momento in cui stipulano i contratti individuali di lavoro con i propri dipendenti, sono in qualche modo certamente legati ad un Ente bilaterale di riferimento e pagano anche dei piccoli contributi per la loro attività. Nella gran parte dei casi, tuttavia, se sono a conoscenza di questi Enti e persino del fatto di versare contributi per la loro gestione, non conoscono le attività erogate dai citati Enti e non sanno che potrebbero persino usufruire di alcuni servizi da loro erogati gratuitamente e/o a condizioni economiche molto favorevoli. Sotto questo profilo, il decreto è vittima di una disinformazione che dipende in parte da esso stesso ma che in molti casi è anche causata dalla scarsa professionalità dei consulenti cui si affida. Pochi ad esempio sono i datori di lavoro che sono a conoscenza del fatto che la sicurezza sul lavoro potrebbe essere affidata a questi Enti a costi molto inferiori rispetto a quelli che gli stessi ddl sostengono nel privato per assicurarsi gli stessi servizi.
Ancor meno tali ddl sono consapevoli di un’altra peculiarità che caratterizza la parte obbligatoria del contratto collettivo nazionale che hanno deciso di adottare, spesso acriticamente e su semplice consiglio del proprio consulente del lavoro: persino per coloro che sono obbligati a stipulare i contratti individuali, applicando il contratto collettivo firmato dalla propria associazione sindacale, tale obbligo riguarda la sola parte normativa di questi contratti e non quella obbligatoria.
Questa libertà, quindi, riguarda tutti i ddl ed è semplicemente subordinata al rispetto delle previsioni generali della parte obbligatoria del proprio contratto collettivo – perlomeno quando e se sono obbligati a adottarne uno e uno soltanto – quando e nella misura in cui si traducono in diritti o in trattamenti di maggior favore a beneficio del lavoratore.
La posizione giurisprudenziale maggioritaria nel Diritto del Lavoro, con riferimento particolare alla bilateralità, è stata confermata dal Ministero del Lavoro con la Circolare n. 43/2010, la quale ha statuito che, quando il CCNL prevede tutele aggiuntive per i lavoratori, nella parte economico-normativa, il datore può scegliere tra riconoscere un’ulteriore retribuzione o prestazioni equivalenti (anche attraverso altro ente) al dipendente o aderire all’ente bilaterale del CCNL di riferimento.
La Circolare aggiunge:
Si ritiene che l’azienda abbia libertà di scelta riguardo all’ente bilaterale a cui aderire: tuttavia, l’iscrizione a un determinato ente deve garantire le stesse prestazioni aggiuntive previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
A completamento del sia pur breve excursus sulla contrattazione collettiva nel nostro Paese, va anche segnalato che i rapporti di forza si sono nel tempo del tutto modificati in funzione dell’evoluzione del contesto sociale e della perdita di importanza dei sindacati più importanti (e in particolare della cosiddetta Triplice CGIL, CISL e UIL). Già alla fine degli anni ’90 era possibile scorgere i primi segni di questa evoluzione che ha visto il contratto collettivo nazionale sempre presente, come è presente oggi del resto, ma anche come sempre meno centrale nella disciplina del rapporto di lavoro.
Una tappa fondamentale in questo senso è rappresentata dall’art. 8 del d.l. 138/11, convertito in Legge n. 148/2011, il quale, per la prima volta, introduce un principio rivoluzionario che illumina da solo questa nuova fase dei rapporti sindacali nel nostro Paese. Il concetto è che la contrattazione collettiva di secondo livello – e cioè sia quella territoriale che quella semplicemente aziendale, stipulata con associazioni sindacali rappresentative a livello di singola azienda – può derogare ai principi stabiliti nella contrattazione collettiva nazionale.
Per capire la portata innovativa di questa deroga è sufficiente sottolineare che secondo questo precetto normativo i contratti collettivi aziendali o territoriali possono derogare, con effetti erga omnes, ai contratti nazionali, senza vincoli né procedurali né sostanziali. Tale deroga è possibile anche ad opera di sindacati con rappresentanza significativa almeno territoriale, indipendentemente da qualunque criterio di verifica di questa rappresentatività.
La serie delle materie su cui è possibile tale deroga è aperta e l’efficacia generale, anche nei confronti dei lavoratori iscritti a sindacati dissenzienti, è condizionata ad un generico «criterio maggioritario».
Fu proprio per diretta conseguenza dell’emanazione di questa Legge che si produsse la famosa svolta di Marchionne. Nel finire nel 2012, l’allora AD della Fiat dichiarò l’intenzione unilaterale di uscire da Confindustria e non rispettare il CCNL e gli accordi interconfederali stipulati con le parti sociali.
Si trattò di uno strappo che dal punto di vista della storia delle relazioni sindacali nel nostro Paese costituì una tappa fondamentale nel cammino verso una marginalizzazione dello strumento che era stato fino a quel momento il principale architrave della contrattazione nel mondo del lavoro: il contratto collettivo nazionale d’un tratto perdeva parte della sua forza e della sua centralità e con esso le perdevano anche i Sindacati maggiormente rappresentativi che avevano condotto il gioco fino a quel momento. Ovviamente, questa evoluzione non è certo dipesa unicamente da questi fatti che abbiamo sinteticamente ricordato. In realtà, la forza e la rappresentatività dei grandi sindacati del passato erano state messe in discussione da ben altri fattori: la nascita di nuovi sindacati, la trasformazione dei vecchi sindacati in istituzioni autoreferenziali e dedite alla erogazione di servizi, i cambiamenti del quadro politico e sociale nel Paese e altro. Ciò non toglie che tutti questi elementi hanno contribuito a produrre gli effetti che abbiamo già – sia pur molto sinteticamente – descritto.
Come vedremo in altri articoli dedicati alla disciplina del lavoro e nel nostro corso dedicato al management, per quello che a noi più specificatamente interessa e per la stretta attinenza al contesto odontoiatrico, questa deroga alla contrattazione collettiva nazionale si rileva molto importante sia in senso generale che ai nostri fini, perché permette ad esempio di stipulare un accordo aziendale con sindacati anche minori, utili a disciplinare materie quali il welfare aziendale e quello di produttività.
E tuttavia, tutto questo non toglie nulla all’importanza di conoscere lo strumento CCNL all’interno del nostro settore e in particolare il fatto fondamentale che andando ad analizzare la rosa di contratti presenti ed utilizzabili, si potrebbe già trarre qualche vantaggio di non poco conto andando a scegliere quello che meglio si attaglia alla nostre peculiari esigenze organizzative.
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