E’ molto probabile che neppure un addetto ai lavori sia in grado di ricostruire le trame complesse della normativa sulla pubblicità sanitaria. In questo articolo, denso di riferimenti e di commenti arguti, PP Mastinu tenta di rintracciare il filo logico che unisce tra loro legislatori e tribunali del vecchio continente. Una lettura completa delle contraddizioni e delle opportunità che il mondo sanitario in parte ignora ed in parte spreca.
Con questo nuovo tema di discussione mi propongo di portare alla vostra attenzione il perimetro regolamentare europeo e italiano in materia di pubblicità sanitaria.
In particolare, intendo dimostrare che molte delle questioni che agitano e dividono la categoria non sono colpa dell’Europa o dei decreti Bersani, perché persino in essi si possono trovare gli elementi per addivenire ad un quadro di sana concorrenza e non certo del far west selvaggio cui stiamo assistendo e che stiamo anche subendo.
La colpa dell’attuale situazione in realtà è del tutto ascrivibile a quelle che non esito a definire le occasioni mancate.
La concorrenza in un settore delicato come quello sanitario può essere certamente un valore – chiunque lo neghi non merita attenzione – ma in un quadro di sana competizione e orientamento primario alla tutela della salute e degli operatori.
Il che significa, in primis, lotta ai monopoli o oligopoli, ma anche tutta una serie di limiti alla pubblicità di tipo commerciale, alla discriminazione tra operatori, all’imposizione di obblighi autorizzativi e di controllo sproporzionati e del tutto eccessivi rispetto agli obiettivi che è giusto porsi, e cioè quelli della sicurezza delle cure e della tutela di operatori e pazienti.
Per comprendere perché la dialettica su queste tematiche da instaurare con le Autorità non possa essere tuttavia basata su criteri vecchi e che cozzano con il nuovo quadro, occorre conoscere quel quadro e trovare la via corretta per richiedere il rispetto di principi giusti con metodi sbagliati. Bisogna, in altri termini, parlare la stessa lingua di coloro che questo quadro hanno ideato e costruito e per farlo, bisogna conoscerlo.
In caso contrario – come hanno ampiamente dimostrato i fatti – qualunque iniziativa a difesa di giuste istanze non potrà che apparire altro che puramente corporativa e non convincente.
L’integrazione del mercato unico europeo ha costituito uno dei più importanti obiettivi dell’Unione Europea e tutto ciò da molti decenni e in particolare ben prima che i popoli guardassero alle istituzioni comunitarie con sospetto e crescente insofferenza.
I principali strumenti normativi di base sono stati rappresentanti da due importanti capisaldi:
Con il primo principio, quello della libertà di insediamento e di circolazione, si tendeva a realizzare le precondizioni per la libera circolazione di uomini, mezzi e servizi all’interno dell’Unione. Si trattava di un obiettivo programmatico, in quanto si è sempre stati consapevoli che tale libertà era di fatto fortemente limitata dalle differenti norme giuridiche e regolamentari di ciascun Paese aderente. Lasciare in piedi questo mosaico così variegato avrebbe costituito già di per sé un ostacolo a quegli obiettivi di cui sopra e non vi è da stupirsi se si è sempre teso a renderlo maggiormente omogeneo.
Con il secondo principio, quello del mutuo riconoscimento, si intendeva sostanzialmente creare un processo di concorrenza tra norme. Col permettere al cittadino o alla persona giuridica di un Paese membro di stabilirsi in un altro Paese dell’Unione, rispettando sostanzialmente il quadro normativo del proprio paese di riferimento, si sarebbe dovuta creare una spinta verso l’adozione di norme giuridiche meno frastagliate e distanti.
Avrebbero dovuto completare – come poi di fatto hanno completato- il quadro le direttive europee e altri provvedimenti, la cui adozione nei vari paesi diveniva obbligatoria, rispettandone i principi di fondo e il contesto in cui erano state concepite. Tale adozione doveva avvenire attraverso leggi e regolamenti di diritto nazionale, per la cui emanazione veniva lasciato un congruo lasso temporale.
Per i motivi illustrati, è assai importante, quando si guarda alle direttive, leggere i “Considerando” che precedono il vero e proprio testo legislativo, perché da essi è facile estrarre il contesto in cui la direttiva è nata e i suoi precisi scopi. Quei considerando, per l’interprete, sono addirittura più importanti della legge vera e propria.
E’ altresì fondamentale comprendere che, nel quadro appena delineato, frapporre ostacoli e restrizioni alle tendenze e obiettivi di questa convergenza comunitaria non solo sarebbe inutile, ma del tutto controproducente, perché a un cittadino straniero sarebbe permesso molto di più a casa nostra di quanto sarebbe permesso a noi.
Fatta questa premessa, vorrei ora soffermarmi sulla famigerata Direttiva Servizi Bolkestein, che direttamente ci riguarda e alla quale rimando per una lettura diretta, tali e tanti sono gli spunti che possiamo trarre da essa per le questioni che interessano il nostro settore e in particolare la componente professionale.
Tale Direttiva non era nata per essere applicata ai servizi sanitari pubblici o privati (anche se sono stati fatti vari tentativi per introdurveli ex post); ma non si può dimenticare che alcuni dei suoi principi fondanti permeano interamente la mentalità degli Organismi decisori della Unione e in particolare la Corte di Giustizia in materia di servizi, soprattutto quando tali servizi sono erogati da soggetti economici. Poco conta, nella visione comunitaria, se tali soggetti sono imprese o professionisti.
Il punto è che tale direttiva è nata come reazione ad uno studio sullo stato della liberalizzazione dei servizi nel mercato interno europeo, il cui grado di raggiungimento era stato considerato del tutto insoddisfacente. Da qui la necessità di urgenti iniziative anche legislative.
Mi interessa focalizzare la Vostra attenzione su alcuni considerando assai interessanti:
La presente direttiva istituisce un quadro giuridico generale a vantaggio di un’ampia varietà di servizi pur tenendo conto nel contempo delle specificità di ogni tipo d’attività o di professione e del loro sistema di regolamentazione.
Tale quadro giuridico si basa su un approccio dinamico e selettivo, che consiste nell’eliminare in via prioritaria gli ostacoli che possono essere rimossi rapidamente e, per quanto riguarda gli altri ostacoli, nell’avviare un processo di valutazione, consultazione e armonizzazione complementare in merito a questioni specifiche grazie al quale sarà possibile modernizzare progressivamente ed in maniera coordinata i sistemi nazionali che disciplinano le attività di servizi, operazione indispensabile per realizzare un vero mercato interno dei servizi entro il 2010.
Conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la sanità pubblica, la tutela dei consumatori, la salute degli animali e la protezione dell’ambiente urbano costituiscono motivi imperativi di interesse generale. Tali motivi imperativi possono giustificare l’applicazione di regimi di autorizzazione e altre restrizioni. Tuttavia, tali regimi di autorizzazione o restrizioni non dovrebbero discriminare in base alla nazionalità. Inoltre, dovrebbero essere sempre rispettati i principi di necessità e proporzionalità.
La procedura di valutazione reciproca prevista dalla presente direttiva non dovrebbe pregiudicare la libertà degli Stati membri di stabilire nei rispettivi ordinamenti giuridici un elevato livello di tutela degli interessi generali, in particolare per quanto riguarda gli obiettivi di politica sociale. Inoltre, è necessario che il processo di valutazione reciproca tenga pienamente conto delle specificità dei servizi di interesse economico generale e delle funzioni particolari a essi assegnate. Tali specificità possono giustificare talune restrizioni alla libertà di stabilimento, soprattutto quando tali restrizioni mirino alla protezione della sanità pubblica e ad obiettivi di politica sociale e qualora soddisfino le condizioni di cui all’articolo 15, paragrafo 3, lettere a), b) e c). Ad esempio, per quanto riguarda l’obbligo di assumere una specifica forma giuridica al fine di prestare determinati servizi in campo sociale, la Corte di giustizia ha già riconosciuto che può essere giustificato imporre al prestatore il requisito di non avere scopo di lucro.
Occorre sopprimere i divieti totali in materia di comunicazioni commerciali per le professioni regolamentate, revocando non i divieti relativi al contenuto di una comunicazione commerciale bensì quei divieti che, in generale e per una determinata professione, proibiscono una o più forme di comunicazione commerciale, ad esempio il divieto assoluto di pubblicità in un determinato o in determinati mezzi di comunicazione. Per quanto riguarda il contenuto e le modalità delle comunicazioni commerciali, occorre incoraggiare gli operatori del settore ad elaborare, nel rispetto del diritto comunitario, codici di condotta a livello comunitario.
Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare l’elaborazione di codici di condotta a livello comunitario, specialmente da parte di ordini, organismi o associazioni professionali. Tali codici di condotta dovrebbero includere, a seconda della natura specifica di ogni professione, norme per le comunicazioni commerciali relative alle professioni regolamentate e norme deontologiche delle professioni regolamentate intese a garantire l’indipendenza, l’imparzialità e il segreto professionale.
I codici di condotta a livello comunitario hanno lo scopo di fissare regole di condotta minime sono complementari ai requisiti di legge degli Stati membri. Essi non ostano, in conformità del diritto comunitario, a che gli Stati membri adottino con legge misure più rigorose, ovvero a che gli organismi o ordini professionali nazionali prevedano una maggiore tutela nei rispettivi codici nazionali di condotta”.
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Abbiamo dunque appena individuato alcuni principi fondamentali dell’impostazione giuridica comunitaria:
Le regole generali impongono agli Stati membri di favorire la libertà di stabilimento e la libera circolazione in un quadro di sostanziale e graduale apertura alla concorrenza.
Dobbiamo ora aggiungere un altro importante tassello al mosaico, e cioè un articolo del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, su G.U. n. 185 del 8-8-2008 – Suppl. Ordinario n. 188:
(ex articolo 49 del TCE)
Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione.
Teniamo bene a mente questo articolo, perché ci tornerà utile.
Dobbiamo ora prendere in considerazione altre due direttive e precisamente:
Ai sensi della presente direttiva si intende per “attività professionale regolamentata”, un’attività professionale, per la quale l’accesso o l’esercizio o una delle modalità di esercizio in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un titolo di formazione o attestato di competenza. (…)
Guardiamo con grande attenzione intanto il Considerando 9:
«La presente direttiva non pregiudica i ricorsi individuali proposti da soggetti che sono stati lesi da una pratica commerciale sleale. Non pregiudica neppure l’applicazione delle disposizioni comunitarie e nazionali relative (…) agli aspetti sanitari e di sicurezza dei prodotti (…). Gli Stati membri potranno in tal modo mantenere o introdurre limitazioni e divieti in materia di pratiche commerciali, motivati dalla tutela della salute e della sicurezza dei consumatori nel loro territorio ovunque sia stabilito il professionista, ad esempio riguardo ad alcol, tabacchi o prodotti farmaceutici. (…)».
Pare abbastanza chiaro che la normativa europea non impedisce agli Stati Membri di adottare normative più restrittive per particolari settori come quello sanitario, ma anzi lo prevede come opzione possibile e lo fa esplicitamente.
Rilevano a conferma poi, in particolare, i seguenti articoli:
La presente direttiva si applica alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori, come stabilite all’articolo 5, poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.
La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto.
La presente direttiva non pregiudica l’applicazione delle disposizioni comunitarie o nazionali relative agli aspetti sanitari e di sicurezza dei prodotti.
La presente direttiva non pregiudica le eventuali condizioni relative allo stabilimento, o ai regimi di autorizzazione, o i codici deontologici di condotta o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate, volti a mantenere livelli elevati di integrità dei professionisti, che gli Stati membri possono, conformemente alla normativa comunitaria, imporre a questi ultimi.
Le pratiche commerciali sleali sono vietate.
Una pratica commerciale è sleale se:
è contraria alle norme di diligenza professionale,
è falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.
È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso:
- l’esistenza o la natura del prodotto;
- le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto;
- la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto;
- il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo;
- la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione;
- la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti;
E’ altresì considerata ingannevole una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, induca o sia idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso e comporti una qualsivoglia attività di marketing del prodotto, compresa la pubblicità comparativa, che ingeneri confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente;
È considerata ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
E’ abbastanza chiaro che tale direttiva impone limiti che, se letti attentamente e correttamente applicati, possono scongiurare già da soli – e anche senza voler entrare nello specifico di una legislazione speciale sulla pubblicità sanitaria che di certo nessun testo normativo comunitario intende escludere – talune aberrazioni della pubblicità sanitaria commerciale e aggressiva cui abbiamo assistito, in qualunque settore economico.
La Direttiva, si presti una certa attenzione sul punto, parla di pratiche sleali. Non considera sbagliate pratiche di pubblicità promozionale e comparativa e questo aspetto va tenuto presente perché vi ritorneremo più avanti.
Quasi non bastasse, premettendo che le pratiche commerciali sleali non si prestano sempre a una catalogazione precisa ma sono suscettibili di una valutazione effettuata dall’Organo Giudicante caso per caso. La Direttiva presenta anche in allegato un elenco di pratiche CERTAMENTE sleali, e pare davvero il caso di esaminarlo tale elenco:
Pratiche commerciali ingannevoli
Affermazione, da parte di un professionista, di essere firmatario di un codice di condotta, ove egli non lo sia.
Esibire un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione.
Asserire che un codice di condotta ha l’approvazione di un organismo pubblico o di altra natura, ove esso non la abbia.
Asserire che un professionista (incluse le sue pratiche commerciali) o un prodotto è stato approvato, accettato o autorizzato da un organismo pubblico o privato quando esso non lo sia stato o senza rispettare le condizioni dell’approvazione, dell’accettazione o dell’autorizzazione ricevuta.
Dichiarare falsamente che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo sufficiente per prendere una decisione consapevole.
Affermare o generare comunque l’impressione che la vendita del prodotto è lecita, ove non lo sia.
Formulare affermazioni di fatto inesatte per quanto riguarda la natura e la portata dei rischi per la sicurezza personale del consumatore o della sua famiglia se egli non acquistasse il prodotto.
L’ultima Direttiva che ci interessa esaminare riguarda la sola pratica – perlomeno nel nostro settore – di fornire informazioni e praticare sollecitazione a distanza dei propri servizi per il tramite dei mezzi messi a disposizione dalla Rete Internet. E cioè attraverso siti internet, pagine social e simili.
Da una prima lettura della normativa, si potrebbe pensare che il suo campo d’applicazione non riguardi il nostro settore, ma è stata la Corte di Giustizia Europea a fornire una risposta definitiva sul tema: quando il dentista utilizza il sito internet per pubblicizzare la sua attività, si rivolge potenzialmente a cittadini anche residenti in altri Paesi dell’Unione, il che significa che rientra pienamente nell’ambito di applicazione di questa Direttiva, con tutte le conseguenze del caso.
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Il considerando 18 della direttiva 2000/31 così recita:
I servizi della società dell’informazione abbracciano una vasta gamma di attività economiche svolte in linea (on line). (…) Non sempre si tratta di servizi che portano a stipulare contratti in linea ma anche di servizi non remunerati dal loro destinatario, nella misura in cui costituiscono un’attività economica, come l’offerta di informazioni o comunicazioni commerciali in linea (…). Le attività che, per loro stessa natura, non possono essere esercitate a distanza o con mezzi elettronici, quali la revisione dei conti delle società o le consulenze mediche che necessitano di un esame fisico del paziente, non sono servizi della società dell’informazione.
«Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni:
a)”servizi della società dell’informazione”: i servizi ai sensi dell’articolo 1, punto 2, della direttiva [98/34];
f) “comunicazioni commerciali”: tutte le forme di comunicazione destinate, in modo diretto o indiretto, a promuovere beni, servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di una persona che esercita un’attività commerciale, industriale, artigianale o una libera professione.
g) “professione regolamentata”: professione ai sensi dell’articolo 1, lettera d), della direttiva 89/48/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1988, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni (…), o dell’articolo 1, lettera f), della direttiva [92/51] (…)».
L’articolo 8, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva, intitolato «Professioni regolamentate», così recita:
«1. Gli Stati membri provvedono affinché l’impiego di comunicazioni commerciali che costituiscono un servizio della società dell’informazione o ne sono parte, fornite da chi esercita una professione regolamentata, [sia autorizzato] nel rispetto delle regole professionali relative, in particolare, all’indipendenza, alla dignità, all’onore della professione, al segreto professionale e alla lealtà verso clienti e colleghi.
Fatta salva l’autonomia delle associazioni e organizzazioni professionali, gli Stati membri e la Commissione le incoraggiano a elaborare codici di condotta a livello comunitario che precisino le informazioni che possono essere fornite a fini di comunicazioni commerciali, nel rispetto del paragrafo 1».
Questo complesso quadro normativo – e ancor prima di passare in rassegna la Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea – ha già presentato una serie di spunti molto interessanti e che portano de plano tutti ad una univoca conclusione.
Non è l’Europa a vietare una regolamentazione speciale per la pubblicità sanitaria e per le pratiche commerciali sleali anche nel nostro Settore.
La Giurisprudenza della Corte di Giustizia e lo spazio discrezionale che il Legislatore Comunitario ha lasciato ai Legislatori dei Paesi aderenti alla UE.
Dal quadro che abbiamo finora tratteggiato pare potersi trarre una conclusione chiara, che può essere riassunta nei seguenti punti:
1) La normativa comunitaria non pone limiti invalicabili a una normazione nazionale sulla pubblicità sanitaria, ma anzi ne incoraggia l’utilizzo ogni qualvolta motivi di interesse generale possano renderlo consigliabile.
2) Tali limiti non possono essere assoluti, perché è assolutamente possibile coniugare l’interesse generale con la libera concorrenza, assicurando la libertà di stabilimento e di circolazione dei relativi servizi all’interno dell’Unione. Per la UE la concorrenza è un valore in sé che può comportare effettivi vantaggi per i consumatori e i pazienti, la cui fruizione non può essere del tutto scongiurata da limiti che di fatto possono favorire la permanenza di posizioni di vantaggio acquisite da parte degli operatori storici del settore.
3) Non è quindi incoraggiata né una normazione troppo liberista e nemmeno una normazione troppo restrittiva in materia di pubblicità.
4) In particolare, nella promozione di servizi effettuata attraverso i canali internet, non può essere incoraggiata una normazione speciale talmente restrittiva da concretamente impedire la libera circolazione dei pazienti all’interno dell’Unione, che potrebbero ben volersi e potersi rivolgere ad un professionista i cui servizi abbia conosciuto attraverso una comunicazione a distanza quale quella che si realizza per il tramite dei siti internet e dei social.
Questa impostazione, che si può agilmente dedurre da una lettura comparata della normativa di riferimento, à stata platealmente confermata da una sentenza della Corte di Giustizia che si è pronunciata proprio su un caso che riguardava la pubblicità di un dentista.
Ma per quello che più interessa dimostrare come conclusione di questa parte dell’articolo, quella relativa alla normativa comunitaria, appare opportuno concludere che la stessa non ha mai voluto impedire regole speciali per il settore sanitario, quando e se queste regole non servono a favorire interessi corporativi ma a realizzare superiori motivi di tutela della salute e di interesse pubblico.
Terza Sezione
Sentenza 4 maggio 2017
«Rinvio pregiudiziale – Articolo 56 TFUE – Libera prestazione dei servizi – Prestazioni di cura del cavo orale e dei denti – Normativa nazionale che vieta in modo assoluto di effettuare pubblicità per servizi di cura del cavo orale e dei denti – Esistenza di un elemento transfrontaliero – Tutela della sanità pubblica – Proporzionalità – Direttiva 2000/31/CE – Servizio della società dell’informazione – Pubblicità effettuata mediante un sito Internet – Membro di una professione regolamentata – Regole professionali – Direttiva 2005/29/CE – Pratiche commerciali sleali – Disposizioni nazionali relative alla salute – Disposizioni nazionali che disciplinano le professioni regolamentate».
Nella causa C-339/15, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Nederlandstalige rechtbank van eerste aanleg te Brussel, strafzaken (tribunale di primo grado neerlandofono di Bruxelles, sezione penale, Belgio), con decisione del 18 giugno 2015, pervenuta in cancelleria il 7 luglio 2015, nel procedimento penale a carico di Luc Vanderborght.
[…]
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49 e 56 TFUE, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU 2005, L 149, pag. 22) e della direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico») (GU 2000, L 178, pag. 1).
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale a carico del sig. Luc Vanderborght, dentista stabilito in Belgio, accusato di aver violato una normativa nazionale che vieta qualsiasi tipo di pubblicità per prestazioni di cura del cavo orale e dei denti.
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
All’epoca dei fatti che hanno dato luogo ai procedimenti penali nei suoi confronti, il sig. Vanderborght esercitava la professione di medico dentista qualificato a Opwijk (Belgio). Detti procedimenti penali sono stati avviati nei suoi confronti poiché, almeno tra il marzo 2003 e il gennaio 2014, egli avrebbe effettuato pubblicità per prestazioni di cure dentistiche, in violazione del diritto belga.
Dalla decisione di rinvio risulta che il sig. Vanderborght ha apposto un pannello che constava di tre superfici stampate, indicante il suo nome, la sua qualifica di dentista, il suo sito Internet, nonché il recapito telefonico del suo studio.
Inoltre il sig. Vanderborght ha creato un sito Internet per informare i pazienti sui diversi tipi di trattamento che egli effettua nel suo studio. Infine, ha inserito alcuni annunci pubblicitari in quotidiani locali.
I procedimenti penali fanno seguito a una denuncia presentata dal Verbond der Vlaamse Tandartsen VZW, un’associazione professionale.
Il 6 febbraio 2014 il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio del sig. Vanderborght dinanzi al tribunale penale. Con ordinanza del 25 marzo 2014 la camera di consiglio lo ha rinviato dinanzi al Nederlandstalige rechtbank van eerste aanleg te Brussel, strafzaken (tribunale di primo grado neerlandofono di Bruxelles, sezione penale, Belgio).
P.Q.M.
la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), dev’essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che tutela la sanità pubblica e la dignità della professione di dentista, da un lato, vietando in modo generale e assoluto ogni tipo di pubblicità relativa a prestazioni di cura del cavo orale e dei denti e, dall’altro, fissando alcuni requisiti di discrezione per quanto concerne le insegne degli studi dentistici.
2) La direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico»), deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che vieta in modo generale e assoluto ogni tipo di pubblicità relativa a prestazioni di cura del cavo orale e dei denti, in quanto vieta ogni forma di comunicazione commerciale per via elettronica, compresa quella effettuata mediante un sito Internet creato da un dentista.
3) L’articolo 56 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che vieta in modo generale e assoluto ogni tipo di pubblicità relativa a prestazioni di cura del cavo orale e dei denti”.
La legislazione interna sulla pubblicità sanitaria: situazione attuale e proposte di riforma.
Abbiamo appena esaminato il contesto regolamentare europeo concludendo – dopo esaustiva disamina – che per tale Regolamentazione è possibile limitare anche in misura significativa la pubblicità sanitaria ma non vietarla del tutto, visto che anche la tutela della concorrenza è funzionale a realizzare gli interessi del cittadino, esattamente come quella della Sua salute.
Questa normativa ha quindi vincolato gli Stati membri a abolire le disposizioni legislative che si muovevano nel senso di vietare o di fortemente limitare, in misura esorbitante rispetto ai soli fini di tutela della Salute, la pubblicità stessa, cosa che in Italia era stato fatto, da ultimo, con
Il testo di tale Legge lo trovate nel link in fondo alla pagina.
Si trattava di una normativa tesa a realizzare una forte limitazione della pubblicità, ma non un divieto assoluto; chi oggi polemizza chiedendo un ritorno al passato con la ri-adozione di un divieto assoluto evidentemente non sa di cosa parla.
Parte di questa Legge, che la Cassazione e il Ministero della Salute avevano considerato come implicitamente nonché parzialmente abrogata per effetto dell’entrata in vigore dei decreti Bersani, è stata “resuscitata” da un paio di sentenze, una di primo grado, da parte del Tribunale di Cosenza – e relativa non alla pubblicità ma all’acquisto di apparecchiature odontoiatriche da parte di non iscritti all’Albo; e l’altra dal Tar di La Spezia e dal Consiglio di Stato, che hanno invece considerato come pienamente operativa tale Legge, nella parte in cui prevede l’obbligo di comunicazione del nome e degli estremi del Direttore Sanitario nei messaggi pubblicitari.
Andiamo ora ad esaminare quello che di fatto è da tutti considerata quale la Legge attuativa del citato quadro regolamentare europeo e cioè i cosiddetti Decreti Bersani, o più precisamente:
Il D.L. 4 luglio 2006 n. 233 e successive modifiche (Decreti Bersani).
Di pubblicità sanitaria si occupano l’art. 2 e 3:
“Art. 2. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero professionali ed intellettuali: a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni, secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio, il cui rispetto è verificato dall’Ordine; c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti, previamente indicati. Sotto la propria personale responsabilità.
Art. 3. Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1 gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data, le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso da considerarsi nulle.”
Questi articoli comportano, in realtà, oltre ad una parziale liberalizzazione della pubblicità sanitaria, anche la cosiddetta abrogazione del tariffario minimo e l’ulteriore novità – poi perfezionata dalla Legge del 2011, istitutiva della Società tra professionisti (STP) e successivi decreti attuativi – costituita dalla concessa nuova possibilità di esercitare l’attività professionale anche in forma societaria.
Cosa ben diversa – come più volte rilevato in questa pagina-, dall’esercizio in forma imprenditoriale di una attività complessa di gestione di strutture sanitarie.
A costo di sfidare la Vostra disapprovazione, faccio notare che i danni – in qualche caso reali e in qualche altro presunti – legati alla abrogazione del tariffario minimo sono assai dubbi e tutti da dimostrare, se si trasporta tale tariffario nel contesto competitivo attuale.
Infatti tale tariffario costituiva un argine del tutto teorico alle successive “derive” del low cost.
E basta esaminarlo per capirlo.
Cito solo alcune tariffe minime del “caro estinto” per motivare quanto dico:
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Visita unica o prima in ambulatorio € 12,91
Visita specialistica: aumento del 50% sulla
tariffa sopra indicata
Anestesia di superficie € 20,66
Anestesista locale o loco-regionale per
infiltrazione € 30,99
Anestesista tronculare € 41,32
Ablazione del tartaro € 36,15
Estrazione semplice di dente o radice € 20,66
Estrazione complicata di dente o radice € 30,99
Estrazione di un dente in soggetto sottoposto a narcosi
in circuito (escluso compenso per anestesia) per ogni dente € 20,66
Estrazione di dente o di radice in inclusione ossea
parziale € 77,47
Chi volesse rivedere il tariffario completo, lo trova nel link in calce alla pagina.
E’ chiaro che queste tariffe minime avrebbero potuto essere compatibili con quelli di molti attuali operatori low cost.
E anche a volerle prendere per buone a livello indicativo nel contesto attuale, costituiscono in realtà una diminutio alle ragioni dei nostalgici del passato, perché – una volta applicati – dimostrerebbero che le tariffe minime e i relativi costi per ciascuna prestazione odontoiatrica di qualità minima accettabile sono davvero bassi. Molto più bassi di quanto normalmente si dica.
Ma volendo concentrarci sul tema dell’articolo, quello della pubblicità appunto, che non a caso nel Decreto Bersani era legata ai tariffari, va ricordato che, dalle analisi effettuate nel nostro settore, sia in ambito europeo che in quello italiano, negli anni che hanno preceduto le direttive di cui sopra, era infatti venuto fuori – e le polemiche di oggi non possono farlo dimenticare – che:
1) le tariffe degli odontoiatri italiani erano le più alte praticate in Europa;
2) non esisteva affatto, se non in un numero non prevalente di operatori, alcuna corrispondenza tra tariffe e qualità. Esistevano quindi molti casi di operatori la cui qualità era scarsa o insufficiente, ma questo non impediva loro di praticare tariffe assai simili a quelle dei migliori colleghi.
Su questa situazione interveniva la legislazione comunitaria e il decreto Bersani e occorre ricordarlo quando si chiede – come fanno alcuni – divieti pubblicitari o ritorni al passato.
E va anche ricordato che sempre i decreti Bersani imponevano anche agli Ordini di adeguare i codici deontologici alla nuova normativa entro una data predeterminata.
Ebbene, nessuno tra gli Ordini professionali delle varie categorie, è riuscito a portare in porto tali modifiche senza difficoltà e contrasti e quasi nessuno nei tempio previsti.
Ma la palma d’oro dei ritardi e delle frizioni con le autorità è andata proprio agli ordini dei medici (rectius, alla Federazione degli Ordini, la Fnomceo), la quale ha avuto difficoltà superiori alla media e forti contrasti con l’Agcom, che li ha costretti a modificare più volte il codice nella parte relativa alla pubblicità e persino li ha sanzionati con la massima ammenda prevista per gravi e reiterate intese restrittive della concorrenza.
Alla fine di questa diatriba, la cui narrazione Vi risparmio e la potete ritrovare comunque in un altri miei articoli, il codice è stato modificato con un testo finale che riportiamo integralmente di seguito:
“Art. 54. Esercizio libero professionale. Onorari e tutela della responsabilità civile.
Il medico, nel perseguire il decoro dell’esercizio professionale e il principio dell’intesa preventiva, commisura l’onorario alla difficoltà e alla complessità dell’opera professionale, alle competenze richieste e ai mezzi impiegati, tutelando la qualità e la sicurezza della prestazione. Il medico comunica preventivamente alla persona assistita l’onorario, che non può essere subordinato ai risultati della prestazione professionale. In armonia con le previsioni normative, il medico libero professionista provvede a idonea copertura assicurativa per responsabilità civile verso terzi connessa alla propria attività professionale.
Il medico può prestare gratuitamente la propria opera purché tale comportamento non costituisca concorrenza sleale o sia finalizzato a indebito accaparramento di clientela.
Art. 55. Informazione sanitaria
Il medico promuove e attua un’informazione sanitaria accessibile, trasparente, rigorosa e prudente, fondata sulle conoscenze scientifiche acquisite e non divulga notizie che alimentino aspettative o timori infondati o, in ogni caso, idonee a determinare un pregiudizio dell’interesse generale. Il medico, nel collaborare con le istituzioni pubbliche o con i soggetti privati nell’attività di informazione sanitaria e di educazione alla salute, evita la pubblicità diretta o indiretta della propria attività professionale o la promozione delle proprie prestazioni.
Art. 56. Pubblicità informativa sanitaria
La pubblicità informativa sanitaria del medico e delle strutture sanitarie pubbliche o private, nel perseguire il fine di una scelta libera e consapevole dei servizi professionali, ha per oggetto esclusivamente i titoli professionali e le specializzazioni, l’attività professionale, le caratteristiche del servizio offerto e l’onorario relativo alle prestazioni.
La pubblicità informativa sanitaria, con qualunque mezzo diffusa, rispetta nelle forme e nei contenuti i principi propri della professione medica, dovendo sempre essere veritiera, corretta e funzionale all’oggetto dell’informazione, mai equivoca, ingannevole e denigratoria.
È consentita la pubblicità sanitaria comparativa delle prestazioni mediche e odontoiatriche solo in presenza di indicatori clinici misurabili, certi e condivisi dalla comunità scientifica che ne consentano confronto non ingannevole. Il medico non diffonde notizie su avanzamenti nella ricerca biomedica e su innovazioni in campo sanitario non ancora validate e accreditate dal punto di vista scientifico, in particolare se tali da alimentare attese infondate e speranze illusorie. Spetta all’Ordine professionale competente per territorio la potestà di verificare la rispondenza della pubblicità informativa sanitaria alle regole deontologiche del presente Codice e prendere i necessari provvedimenti.
Art. 57. Divieto di patrocinio a fini commerciali
Il medico singolo o componente di associazioni scientifiche o professionali non concede patrocinio a forme di pubblicità promozionali finalizzate a favorire la commercializzazione di prodotti sanitari o di qualsivoglia altra natura”.
Ognuno di questi articoli meriterebbe una trattazione a parte, ma vediamo di concentrarci sugli aspetti che più rilevano con riferimento all’oggetto dell’articolo.
Le carenze della normativa e della riforma del Codice Deontologico
E’ di tutta evidenza che, nel tentativo di trovare una formulazione non censurabile da parte dell’Agcom, la logica del compromesso e del rimando alla valutazione successiva, da effettuarsi caso per caso, da parte dell’Ordine, in sede ispettiva e sanzionatoria, abbia prevalso sulla chiarezza della regola.
E basta leggere l’art. 56 per capirlo.
Questo articolo, infatti, si presta a troppe interpretazioni, la qual cosa si pone esattamente all’origine del motivo per cui tale articolo, la cui formulazione volutamente generica era stata realizzata allo scopo di superare il vaglio dell’Agcom, non solo non ha risolto il problema, ma ha esposto gli Ordini a censure successive del proprio operato sanzionatorio, proprio in funzione di questa genericità.
Uno dei principi cardine del Diritto Amministrativo, infatti, è proprio quello che impone una chiara e definitiva motivazione per le censure delle condotte del cittadino da parte della Pubblica Amministrazione. E l’Ordine, nel momento in cui va a censurare l’operato di un medico o di un odontoiatra, lo fa in qualità di organo ausiliario – o sussidiario fa poca differenza ai nostri fini – della Pubblica Amministrazione.
La stessa genericità, infatti, si riscontra spesso anche nei provvedimenti sanzionatori ed è alla base della loro debolezza agli occhi degli Organismi di appello (CEEPS e gli altri) molto più spesso di quanto si creda.
Ma vi è di più.
Nel momento in cui l’art. 56 afferma che la pubblicità informativa sanitaria può avere come oggetto titoli e specializzazioni, attività professionale, caratteristiche del servizio offerto e onorario, viene spontaneo chiedersi cosa possa essere escluso dal messaggio pubblicitario. Sostanzialmente nulla o quasi, il che significa che vale tutto o quasi tutto.
E poco serve, proprio in funzione della discussa genericità, aggiungere qualificazioni altrettanto generiche quali veritiera, corretta e funzionale all’oggetto, nel momento in cui si rimanda al giudizio successivo e soggettivo di un Organismo quale l’Ordine, che dovrà necessariamente giudicare sulla base di criteri del tutto soggettivi, contestuali all’epoca in cui il giudizio viene formulato, suscettibili di qualsivoglia condizionamento ambientale e corporativo e quindi – in ultima analisi – facilmente discutibili ed impugnabili.
IL successivo capoverso, quello relativo alla pubblicità comparativa, almeno presenta delle qualificazioni meno generiche, perlomeno nelle intenzioni, ma si presta anch’esso a variegate interpretazioni, soprattutto in merito al requisito della “scientificità” (certi e condivisi dalla comunità scientifica ) delle prestazioni.
Considerazioni a parte poi merita la possibilità – prevista dai decreti Bersani e mai utilizzata – che era stata concessa agli Ordini: quella cioè di costruire dei sistemi utili a salvaguardare la qualità delle prestazioni pur in un mercato dei prezzi liberalizzato e cioè, in buona sostanza, un sistema di verifica di un corretto rapporto qualità-prezzo. Nessuno parla di questa occasione mancata e forse non a caso, perché non si vede chi o cosa abbia impedito agli Ordini di muoversi in questo senso. Di sicuro non l’Europa e nemmeno Bersani.
Quasi tutto ciò non bastasse, tali criteri sono del tutto inutili a spiegare le modalità di un corretto messaggio pubblicitario e non solo agli occhi degli operatori meno scrupolosi ma persino a quelli degli operatori virtuosi e animati dalle migliori intenzioni.
Come si è potuto giungere a questo madornale errore strategico a noi pare abbastanza chiaro.
Tale formulazione costituisce con tutta probabilità il frutto di una mancata comprensione del quadro legislativo comunitario e nazionale e delle possibilità che offriva di riformulare una nuova concezione del consentito e del negato, come anche di una mancata analisi delle sue caratteristiche; analisi che avrebbe potuto – se ben condotta o se almeno semplicemente condotta – concedere agli Ordini ben ampi spazi per formulare una nuova regolamentazione comunque utile ad evitare le derive di certe pubblicità commerciali, senza per questo voler ostacolare in maniera esorbitante la concorrenza tra operatori.
E l’occasione è stata del tutto mancata soprattutto perché si è tentato di far rientrare dalla finestra concetti vecchi e non più ammissibili, che per il nuovo quadro dovevano uscire dalla porta, quali l’illecito accaparramento, poi trasformato in indebito accaparramento nel testo definitivo, al solo scopo di evitare la censura, con il meraviglioso risultato che non si sa più cosa voglia davvero dire, mancando ogni definizione o distinzione dal vecchio concetto; o come il requisito del decoro della professione, utilizzato altrettanto maldestramente come refugium peccatorum utile a sanzionare quando non sai bene perché, un criterio che invece avrebbe potuto essere utilizzato con ben altra articolazione ed efficacia.
Per non parlare del tentativo di reintrodurre – tentativo che perdura ancora oggi – un criterio più volte censurato dall’Agcom come non conforme al quadro comunitario, prima ancora che alla Bersani: quello della valutazione preventiva del messaggio, una modalità che non ha mai funzionato neanche nel passato, figuriamoci oggi, con un quadro concorrenziale che si caratterizza per centinaia di messaggi da valutare al giorno, messaggi che per esigenze oggettive andrebbero valutati e giudicati in tempi ristretti, tempi che gli Ordini non sono in grado di garantire in alcun modo.
Per questi motivi l’Agcom ha considerato questa modalità come inammissibile, anche in relazione al potenziale pericolo assai verosimile per non dire certo, che attraverso questa modalità gli Ordini stessero tentando surrettiziamente di impedire la pubblicità con altri e diversi mezzi. E non a caso anche nel passato tale potere discrezionale di valutazione non prevedeva alcun limite temporale per essere espresso.
In ultima analisi, i fallimenti nella regolamentazione della pubblicità sanitaria sono da ascrivere molto più all’approccio reazionario e dilettantesco che gli Ordini hanno evidentemente praticato piuttosto che al nuovo quadro regolamentare.
Ovvio che anche la “comunicazione” continua e martellante, effettuata da figure apicali ordinistiche e segnatamente da quelle odontoiatriche – la gran parte dei contenziosi e delle pronunce dell’AGCOM hanno sempre riguardato la categoria odontoiatrica -, effettuata con i toni tipici dell’ultima crociata, non hanno certo contribuito a portare avanti un’azione politica efficace e tesa all’obiettivo e tantomeno una civile e proficua discussione con gli operatori del settore, istituzionali e non.
Niente del genere è accaduto nell’ambito professionale forense e anche in quell’ambito vigeva pienamente il quadro regolamentare comunitario e della Bersani.
Tutto ciò va ricordato non allo scopo di rigirare il coltello della piaga. Ma a quello, molto più importante, di formulare un progetto che non si basi sugli stessi e perdenti schemi del passato. Tale nuova formulazione si rende necessaria per poter mantenere qualche buona possibilità di convincere la politica ad adottare una nuova regolamentazione, con argomenti che siano spendibili e condivisibili da tutti. E tale possibilità si traduce in una proposta che sia in linea con il quadro regolamentare che abbiamo di fronte e che non può essere scavalcato come nulla fosse.
Le possibili proposte per una nuova regolamentazione della pubblicità sanitaria.
Una prima valutazione del tutto condivisibile è quella che ha a che fare con la forma del messaggio pubblicitario, forma che ha una relazione stretta anche con il decoro professionale, come più volte rilevato.
Ad ogni buon conto, nulla osta a una motivata richiesta alla Politica di riformare la regolamentazione anche sotto questo profilo, perché la pubblicità sanitaria non deve essere banalizzata e squalificata con mezzi e diffusione tipici della pubblicità commerciale.
Piuttosto che dare indicazioni sulla forma del messaggio – volantino o affissione – e definire quali sono ammissibili e quali no – come accadeva nel passato – sarebbe molto più utile e sicuro definire quali sono i contenuti e le modalità di veicolazione del messaggio che non appaiono ammissibili perché indecorose, specificando nelle motivazioni che il decoro della professione non costituisce solo un requisito di interesse interno alla categoria, ma anche un requisito che nel medio e lungo termine conviene mantenere per tutelare il Paziente. Il quale non ha alcun interesse, anche se del tutto inconsapevolmente, a vedere la Sanità ridotta ad un puro mercatino degli scampoli, con ricchi premi e cotillon.
E sarebbe anche il caso di stilare delle linee guida assai particolareggiate, con esempi e casi di scuola a corredo.
Una seconda valutazione è quella che ha a che fare più specificatamente con le cosiddette catene, e che attiene all’uso da parte di queste di effettuare “pubblicità di brand”, al solo scopo di dribblare le normative che vincolano la singola struttura sanitaria al rispetto di certe regole ( quale quella dell’indicazione del Direttore Sanitario nei messaggi ) e/o il controllo dell’Ordine ( magari scegliendo Direttori Sanitari iscritti a Cao provinciali diverse da quella in cui è situata la struttura sanitaria di cui hanno la responsabilità ).
In questo senso, potrebbe benissimo essere riproposta una norma quale quella già contenuta nella 175/92, quella dell’obbligo di indicazione del nome e degli estremi del Direttore Sanitario, poiché tale indicazione, e soprattutto quando la proprietà della struttura complessa non è medica, costituisce – o dovrebbe costituire – una garanzia per il cittadino paziente e quindi non appare affatto come ridondante anche ai fini del quadro europeo.
E anche qui l’unico modo per ovviare al problema, in un caso come nell’altro, è quello di chiedere una regolamentazione ad hoc, del tutto sacrosanta.
Una terza valutazione è quella che ha a che fare con il contenuto del messaggio, e qui la questione diviene ovviamente spinosa, perché la concezione di cosa è lecito e di cosa non lo è appare fortemente controversa.
Una possibilità potrebbe essere quella di vietare intanto e almeno l’utilizzo dello slogan pubblicitario nell’ambito delle procedure cliniche e dei trattamenti sanitari.
Lo slogan pubblicitario, infatti, richiede brevità per essere efficace, ma niente che sia breve e conciso può essere utilizzato per descrivere un trattamento sanitario o una procedura clinica.
Si pensi a messaggi quali: “con il laser e il microscopio riusciamo a curare in maniera ottimale la parodontite” che, oltre ad essere destituiti di ogni fondamento scientifico, sono anche scorretti e ingannevoli per definizione, in quanto trascurano di spiegare al paziente tutte le “eccezioni alla regola”. O di quelli che espongono slogan del tipo: “denti fissi in giornata”, viziati sostanzialmente nello stesso identico modo da una modalità semplicistica e ingannevole che è del tutto lecito e per nulla anticoncorrenziale vietare.
I trattamenti sanitari e le procedure cliniche, infatti, anche per poter essere descritti ai profani, con un linguaggio non tecnico in una forma non ingannevole, devono essere pieni di distinguo e avvertenze (si pensi ad esempio al testo di un qualunque consenso informato).
E’ chiaro quindi che la concezione in merito all’ingannevolezza del messaggio deve essere declinata in una modalità speciale in ambito sanitario e non può essere la stessa di un qualunque messaggio.
Ma anche sotto questo profilo, l’unico sistema rimane quello di richiedere ed ottenere una regolamentazione speciale che faccia espressa menzione della specialità di tale ingannevolezza nel nostro ambito.
Un’ultima valutazione è quella relativa all’Organo Giudicante.
E qui non posso far altro che dire quello che penso: e cioè che, per compendiare la tutela della Salute con quella della concorrenza, e non limitare i vantaggi che entrambe possono procurare al cittadino-paziente, deve essere deputato un Organo super partes e con la necessaria competenza.
E questo Organo non può che essere il Minsalute.
Il quale potrebbe stilare delle Linee Guida specifiche, che possono dare concreta attuazione e arricchire i dettami della nuova Legge di cui stiamo illustrando la necessità nell’attuale contesto, in cui si spiega in maniera esaustiva e con esempi concreti il o i modi corretti di effettuare il messaggio pubblicitario – direi meglio l’informazione sanitaria – nel nostro ambito.
E’ chiaro che l’indicazione delle tariffe praticate può non costituire un problema se si accompagna ad una informazione corretta e decorosa, che non punti ad attrarre il paziente solo ed esclusivamente per una tariffa artificiosamente bassa.
Gli Ordini potrebbero mantenere un potere di segnalazione di eventuali abusi e quello di fornire al Ministero pareri consultivi e non vincolanti, soprattutto in relazione ai criteri che possono essere meglio valutati proprio da loro, quali il decoro, l’effettiva ottemperanza alle linee guida e ai risultati della ricerca scientifica, etc.
Il Ministero che esercita la funzione ispettiva invece, potrebbe esercitare un controllo ex post sul messaggio e riservarsi di sanzionare – dopo apposita statuizione legislativa in questo senso – eventuali irregolarità in base alla loro gravità e con sanzioni pecuniarie che possono arrivare fino al 10% del fatturato annuo (in misura analoga a quanto oggi è consentito all’Agcom) e anche con sospensioni o revoche delle autorizzazione ad operare.
L’effetto deterrente di tali misure, oltre al fatto di aver fornito ex ante istruzioni dettagliate sulla corretta modalità nell’effettuazione del messaggio, potrebbe riuscire a risolvere il problema molto più delle tante filippiche cui assistiamo da anni senza che dalle stesse derivi alcun risultato utile. E non impedirebbe ai soggetti virtuosi di effettuare l’informazione sanitaria corretta in tempi e con regole certe e senza artificiosi intralci che nulla hanno a che fare con la Tutela della Salute.
Pietro Paolo Mastinu
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32006L0123&from=IT
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_692_allegato.pdf
https://www.ordinemedicipa.it/upload/TARIFFARIO_ODONTOIATRI.pdf
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