Breve storia (triste e critica) della autorizzazione sanitaria e dei requisiti minimi per gli studi odontoiatrici
Poco tempo fa i NAS di Campobasso hanno chiuso diversi studi odontoiatrici che praticavano interventi di chirurgia mini invasiva in studi senza autorizzazione sanitaria. I responsabili delle attività sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria ed è stata disposta la chiusura delle strutture.
Su queste tematiche, e questi fatti di cronaca mi aiutano a ricordarlo, ho spesso discusso con gli odontoiatri e quello che mi è stato subito chiaro è che sono davvero pochi, persino tra coloro che esercitano cariche sindacali e ordinistiche, quelli che hanno veramente chiaro come stanno le cose.
Ciò non sembri casuale.
Per capire questo evidente paradosso, è necessario tratteggiare una sia pur breve storia critica della faccenda. Una storia critica e molto triste.
Il nuovo corso delle autorizzazioni sanitarie nasce con il DLgs 502/92, art 8 ter. Quest’ultimo:
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In questa prima fase, tuttora in corso, autorizzazione e requisiti viaggiano su strade diverse. La prima obbligatoria per alcuni, gli altri per tutti.
Con riferimento alla prima, la mancanza di una chiara definizione delle procedure invasive ha creato il solito guazzabuglio e la selva delle interpretazioni, in cui quelle di parte hanno giocato un ruolo preminente: il gioco era quello di restringere oltre ogni decenza e buon senso il novero delle procedure invasive, allo scopo di esentare più studi possibile dall’obbligo autorizzativo, il che alla lunga – e non è certo l’unico caso in questo senso – non ha ovviamente contribuito ad accrescere la credibilità delle rappresentanze associative e ordinistiche agli occhi delle Istituzioni, e tanto meno quella della Categoria che rappresentano.
Per comprendere il passaggio successivo, è opportuno ricordare che, persino prima che entrasse in vigore la Riforma del Titolo V della Costituzione con Legge Costituzionale del 2001, le Regioni hanno sempre avuto una potestà legislativa concorrente con quella statale in materia sanitaria. Senza voler entrare in disquisizioni troppo distanti dall’oggetto di questo articolo, ciò concretamente significa che lo Stato detta principi generali e un contenuto minimo e le Regioni definiscono i dettagli.
Le regioni, quindi, non possono dettare regole meno restrittive di quelle statali, ma possono benissimo dettarne di più restrittive (concetto che spesso sfugge a molti commentatori di queste faccende).
E infatti, la gran parte delle Regioni aveva dettato al massimo l’obbligo di Scia al Comune per gli studi “non invasivi”:
Ma la questione requisiti minimi non impensieriva più di tanto.
E’ vero che i requisiti andavano rispettati da tutti, ma le verifiche erano poche e quindi era bassa la possibilità che qualche autorità controllasse il tipo di procedure effettuate e se poi quei requisiti erano davvero rispettati.
Ciò ha comportato un sostanziale disinteresse non solo associativo ma anche generale della categoria, mancando ogni azione di sensibilizzazione e formazione al riguardo, i cui effetti si vedono tutti ancora oggi. Di queste tematiche la gran parte dei dentisti – e basta leggere le pagine fb da loro frequentate per capirlo -, hanno nozioni scarse e assai confuse e dico che per certi versi non è neanche colpa loro.
Chi, odontoiatra o no, su base volontaria o meno, è costretto a venire a patti con tutti i requisiti minimi prima ancora di aprire, quindi è costretto a conoscerli e ad applicarli. Ma tra coloro che non sono odontoiatri esiste uno scambio di informazioni e di competenze che l’odontoiatra medio non possiede.
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Nel frattempo i requisiti minimi sono stati definiti dal D.P.R 14 gennaio 1997 in G.U. 20 02 97 n. 42. Una parte generale, valida per tutte le strutture sanitarie, presentava già in quella prima formulazione evidenti ridondanze per un studio mono professionale.
L’altra parte, mancando nel decreto governativo una definizione di requisiti specifici per gli studi ma solo per le strutture complesse, veniva delineata dalle Regioni, più o meno presentando una versione leggermente ridotta di quelle specifiche di altre strutture complesse (in primis gli ambulatori).
Nel frattempo, un Tavolo Tecnico al Ministero aveva definitivamente chiarito che in Odontoiatria non esiste nulla che possa essere considerato a basso rischio infettivo per il Paziente, ma anzi che quasi tutto era a alto o molto alto rischio, quasi pari a quello della sale operatorie ospedaliere.
È da queste premesse che nasce la nuova Intesa Stato Regioni 2016, che non è ancora Legge ma potrebbe diventarlo presto. Essa salda insieme – a differenza di prima – requisiti e autorizzazioni ai fini di tutelare il Paziente, anche per via dei troppi casi di studi non in regola né con i requisiti e neanche con le procedure praticate, che erano spesso invasive senza che fosse stata chiesta l’autorizzazione.
La nuova regolamentazione prevedrebbe:
Cosa singolare è che le rappresentanze odontoiatriche oggi raccontano agli odontoiatri che questa intesa avrebbe introdotto nuovi requisiti generali che sono assurdi (e sull’assurdità hanno pure ragione). Peccato che quei requisiti (protezione antisismica, norme da Iso 9001, regolarità catastali, barriere architettoniche, etc.) era tutta già presente nella formulazione dei requisiti di 19 anni prima.
Si sarebbe dovuto subito intervenire per spiegare che chiedere questi adempimenti ad un odontoiatra che ha uno studio situato da decenni al quarto piano di un palazzo in centro storico era semplicemente inutile e infondato. I requisiti minimi irrinunciabili dovevano essere solo quelli a tutela del Paziente e degli operatori interni, non altra roba che vale per le strutture complesse e aperte al pubblico (e lo studio non è né l’una né l’altra cosa). Ma nessuno l’ha fatto allora e la cosa è ormai consolidata da 19 anni di vita senza obiezioni. Adesso diviene difficile contestare una prassi consolidata e codificata alla Stato-Regioni.
Diciamo pure impossibile.
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