Per passaggio generazionale non intendiamo solo la trasmissione agli eredi dell’attività odontoiatrica ma persino quella effettuata a favore di società o imprese individuali riconducibili al dentista come anche quella a terzi estranei al nucleo familiare. Risulta determinante, al fine di poterla realizzare nella maniera più indicata, la tipologia di struttura di partenza. Il caso dello studio monocratico e associato è molto diverso da quello della stp, dell’impresa individuale o della società di gestione dell’ambulatorio, della srl di consulenza e di quella di mezzi. Ancora una volta dall’analisi dei vari casi possibili emerge prepotentemente la convenienza delle srl ordinarie di gestione e di consulenza.
Di passaggio generazionale si parla sempre più spesso e persino senza piena cognizione di causa. Taluni elementi di contesto rendono più attuale la discussione su questa tematica e fanno sì che la stessa diventi particolarmente sensibile per la comunità dei dentisti. In particolare, i dati sull’invecchiamento della popolazione degli odontoiatri, l’innalzamento dell’età media degli stessi e la crescente polarizzazione che si sta creando tra odontoiatri legati ai modelli passati e quelli che più si dimostrano attenti a cogliere le opportunità legate all’evoluzione del settore, ponendo in essere faticose trasformazioni del proprio modello di servizio originario.
A rendere più critico il quadro, contribuisce anche la tipologia di acquirenti tipici delle strutture sanitarie: dando per scontato che i giovani dentisti sono sempre meno interessati alla costruzione di una propria struttura sanitaria e tantomeno all’acquisto di una già in essere, non rimangono, nel ruolo di acquirenti, che i gruppi del grande capitale e alcuni dentisti imprenditori. Il grande capitale, in particolare, risulta molto attivo nella acquisizione di strutture sanitarie odontoiatriche fino a costituire il principale acquirente. Al momento attuale questo soggetto economico può contare sul fatto che il numero di strutture in vendita è molto superiore alle proprie necessità.
Il che sembrerebbe costituire una buona notizia per i dentisti prossimi alla pensione e/o comunque intenzionati a vendere; se non fosse che gli acquirenti principali – grandi gruppi e dentisti imprenditori – non comprano qualunque studio ma solo quegli studi che abbiano determinate caratteristiche.
Persino nei casi in cui il dentista riesce a trasmettere la struttura ai propri eredi che siano o meno dentisti o ad altri giovani dentisti estranei al proprio nucleo familiare, lo stesso non può ignorare che le condizioni cui è subordinato il successo o meno dell’iniziativa sono esattamente le stesse : la struttura sanitaria deve diventare efficiente ed economicamente robusta se già non lo è.
Parlare di passaggio generazionale quindi non può significare solo parlare in maniera completa ed esaustiva degli strumenti giuridici e delle regole fiscali che disciplinano le singole fattispecie, a seconda di quale sia la forma della struttura sanitaria di partenza: studio, stp, impresa individuale e societaria di gestione di un ambulatorio e/o altre forme societarie utili all’esercizio dell’attività odontoiatrica.
Significa anche parlare delle condizioni al cui ricorrere è subordinata la riuscita di tale passaggio generazionale. Ed è appunto quello che ci proponiamo di fare in questo articolo.
In senso stretto, per passaggio generazionale intendiamo la trasmissione della struttura o dell’attività odontoiatrica agli eredi del dentista e in particolare a quelli diretti (coniuge e figli). In senso lato, il passaggio generazionale può riguardare qualunque beneficiario, sia esso o meno appartenente al nucleo familiare o meno.
Appare evidente che nelle discussioni di settore prevale il secondo modo di parlare del passaggio rispetto al primo. Ne deriva la stretta necessità di prendere in considerazione diverse tipologie di passaggio, che derivano tutte da una tripartizione di partenza di questo genere:
Una ulteriore classificazione potrebbe ben essere dettata in funzione della situazione di partenza:
In questo caso la suddivisione origina la sua importanza dai risvolti di natura giuridica e fiscale che sono relativi alle diverse situazioni di partenza.
Un’ultima classificazione è certamente quella relativa al genere di questa trasmissione:
Nel seguito ci occuperemo dei vari casi e sotto casi possibili partendo da quest’ultima classificazione, salvo poi dedicarci all’esame delle condizioni attraverso cui realizzare effettivamente una trasmissione generazionale di successo.
Prima di proseguire nell’esame dei vari casi possibili ci preme premettere che il caso della società è per noi limitato a quello delle srl per motivazioni che chi ci legge da tempo conosce ormai perfettamente.
Un ambulatorio potrebbe ovviamente essere costituito in qualunque forma giuridica, di natura imprenditoriale o cooperativa; e in particolare, in quella di impresa individuale o societaria e persino in quella di società cooperativa, così come una società tra professionisti potrebbe essere costituita in qualunque forma societaria ammessa dal nostro Codice Civile; e cioè in quelle appartenenti alla famiglia delle società di persone o a quella delle società di capitale.
Tuttavia, noi limitiamo l’analisi alla forma della srl per il semplice motivo che la consideriamo l’unica forma possibile per ottenere una piena e reale convenienza per il dentista che la adotta in luogo dello studio tradizionale. Peraltro, non in qualunque caso ma solo in quello in cui a quel determinato dentista possa convenire.
L’analisi di tale passaggio presenta caratteristiche diverse, a seconda di quale sia la forma giuridica di partenza della struttura sanitaria e in funzione della tipologia di eredi.
Il primo caso è appunto quello dello studio monocratico o di quello associato, con soci che appartengono al medesimo gruppo familiare.
La trasmissione dello studio può quindi avvenire per successione mortis causa o per donazione, nel caso in cui il dentista intenda trasmettere, al contempo, la struttura e la relativa parte del suo patrimonio agli eredi.
Con la cessione in cambio di un corrispettivo in denaro quando vuole trasmettere agli stessi solo la struttura ma non la relativa parte del proprio patrimonio. Talvolta, è proprio quest’ultima la forma preferita, non foss’altro perché la liquidazione in denaro del valore del proprio studio costituisce una necessità utile a finanziare il tenore di vita del dentista nel periodo della pensione e anche al fine di evitare questioni legate alla possibile violazione delle quote di legittima degli altri eredi. In questi casi, spesso gli eredi ricorrono all’indebitamento per procurarsi la provvista utile a soddisfare il dentista che gli trasmette lo studio, attraverso finanziamenti o mutui a medio lungo termine. Ovviamente, non potrà che trattarsi di eredi che sono anche professionisti, non potendo certo gli stessi gestire uno studio professionale nel caso contrario.
Sotto il profilo contrattuale, è anche possibile che il genitore ceda lo studio ai propri eredi con strumenti quali la cessione con patto di riservato dominio, in tutti quei casi in cui non necessita di un pagamento immediato e integrale del prezzo pattuito ma possa accontentarsi di un pagamento rateale. Naturalmente, come è nella natura del contratto, la cessione vera e propria dello studio si realizzerà compiutamente solo con l’integrale compimento del piano dei pagamenti pattuito.
In entrambi i casi, sotto il profilo autorizzativo, si rende necessario ovviamente richiedere l’autorizzazione a nome del dentista erede, il che potrà avvenire in un tempo compreso tra la stipula del contratto e il completamento del pagamento. Il dentista erede, nel frattempo, potrebbe continuare a lavorare nello studio nel ruolo di collaboratore.
In merito al valore di cessione, che dipende dalla valorizzazione dello studio e alla relativa fiscalità del passaggio torneremo a parlare con maggior grado di dettaglio nel paragrafo dedicato alla trasmissione a terzi.
In questa sede, preferiamo soffermarci sulla trasmissione tramite gli strumenti del diritto successorio e cioè la successione mortis causa e la donazione inter vivos.
Quest’ultima è alquanto infrequente in quanto il titolare dello studio decide raramente di passare la mano in vita e se lo fa preferisce di certo cedere piuttosto che donare la propria fonte di reddito e l’attività che ha riempito anche la gran parte della sua vita.
La donazione, quasi non bastasse, costituisce sempre uno strumento pericoloso ai fini successori, in particolare quando applicata a attività suscettibili di forti variazioni di valore nel tempo, come è il caso dello studio professionale. I rischi sono quelli relativi agli effetti della riunione fittizia o della collazione al momento della successione, che rende sempre possibili sopravvenute violazioni delle quote di legittima degli altri eredi. Il valore dell’asse ereditario viene infatti determinato al momento dell’apertura della successione e questo vale anche per il valore dello studio che di quell’asse costituisce una parte più o meno rilevante. Tale valore potrebbe essere molto distante e in particolare anche molto superiore a quello che aveva al momento della donazione. Questo è il principale motivo per cui si evita tale strumento di trasmissione, esattamente come avviene per gli immobili e per le quote delle società.
Più facile è che quindi lo studio passi agli eredi per il tramite di una successione mortis causa e ovviamente le implicazioni potranno essere ben diverse a seconda delle condizioni concrete in cui quest’ultima si realizza.
In particolare ci riferiamo a quei casi in cui:
In particolare, il caso più critico pare essere proprio quello di una successione in assenza di testamento su eredi non professionisti e per una duplice ordine di ragioni.
In primis, perché la successione ex lege comporta un effetto nefasto, quale quello della indivisibilità del patrimonio, che si riverbera anche sulle quote ereditarie: in altre parole, ogni erede riceve in successione una porzione indivisa dell’intero patrimonio del de cuius, con tutti i pericoli di mancato accordo tra gli eredi che ne conseguono e che spesso si tramutano in realtà.
In secondo luogo, per la mancanza di una quota disponibile che può servire anche al fine di dividere il patrimonio in parti diseguali, circostanza quest’ultima spesso legata alla concreta impossibilità di realizzare una divisione perfettamente eguale delle quote quando si trasmettono beni materiali e corposi quali immobili, aziende e studi professionali.
Infine, c’è un terzo profilo che rende ancora più critico il quadro.
Come vedremo meglio più avanti, per la cessione dello studio è possibile concepire quest’ultimo come un complesso organico di beni materiali ed immateriali suscettibile di una valutazione economica, dando per scontato che la parte più cospicua di quel valore complessivo è costituita dalla componente immateriale e cioè dalla relazione di pazientela. Si tratta di una innovazione di conio puramente giurisprudenziale che forza la natura dello studio (rectius, del complesso organizzativo più o meno articolato e rilevante ad esso sotteso) per renderlo all’atto pratico simile a quello sotteso all’impresa (l’azienda); e quindi per permettere al professionista di vederselo trattare come tale a livello contrattuale ed, entro certi limiti, persino fiscale.
Tale innovazione, tuttavia, non viene spinta fino al punto da renderla applicabile anche in ambito successorio: la componente immateriale, in questo caso, non rileva e tutto quello che può essere calcolato è il valore dei singoli beni materiali che costituiscono lo studio.
Ora, per venire al punto, se gli eredi fossero stati anche professionisti, ciò avrebbe potuto giovargli perché il rapporto di pazientela, pur non essendo valorizzato, poteva continuare ad esistere in capo a loro una volta preso in carico lo studio e continuata l’attività. Diversamente, nel caso degli eredi laici, tale valore potrebbe certamente essere riconosciuto da un terzo acquirente in grado di trarne concretamente frutto – e cioè da un altro professionista; tuttavia, nella migliore delle ipotesi, ciò potrà verosimilmente avvenire in parte molto limitata.
Da tutto ciò deriva che lo studio vale meno del suo reale valore per il solo fatto che è stato ereditato da un erede non professionista e per di più attraverso una successione ex lege.
Si aggiunga che persino in questo caso (e non solo quando gli eredi siano anche professionisti), se gli eredi hanno accettato l’eredità, sono subentrati non solo nel patrimonio attivo e passivo del de cuius ma anche in molti dei suoi obblighi e diritti in qualità di professionista, in alcuni adempimenti e persino in taluni rischi.
Quindi potranno riscuotere per suo conto i compensi per prestazioni sanitarie già effettuate dallo stesso, incassare, se del caso, la pensione di reversibilità, pagare le spese inerenti l’attività del professionista fino alla data del decesso dello stesso; pagare lo stipendio dei dipendenti del professionista oltre al TFR.
Dovranno poi anche occuparsi di presentare la dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi, potendo dedurre tutte le spese di lavoro autonomo sopportate anche dopo la morte del de cuius (persino se professionisti non sono), pagare le relative imposte, cancellare il de cuius dall’albo di appartenenza a propria iniziativa, provvedere alla chiusura della partita iva, etc.
Quasi non bastasse, potranno essere chiamati a rispondere di eventuali richieste di risarcimento legate a contenziosi relativi a fatti antecedenti alla morte del de cuius che riguardano la sua attività professionale. Sempreché quest’ultimo non avesse provveduto a stipulare garanzie accessorie nella propria polizza professionale utili ad evitare circostanze di questo genere (la cd. garanzia ereditaria o la postuma per le polizze stipulate post DDL Gelli).
Da ultimo, è opportuno rilevare i rischi legati alla successione necessaria di diversi eredi, tra i quali potrebbe ben esserci qualcuno totalmente inadeguato alla gestione di queste problematiche. E’ anche per questi motivi che il professionista dovrebbe sempre occuparsi di definire il proprio profilo successorio tramite un testamento. Non solo per evitare tali circostanze e i rischi legati all’indivisibilità del patrimonio che sono correlati alla successione ex lege; quanto e soprattutto perché solo il testamento permette di riservare una quota disponibile del proprio patrimonio utile a far sì che lo stesso possa essere diviso in porzioni quantitativamente adeguate ma qualitativamente diverse. Un professionista che avesse due figli di cui uno solo è dentista potrà quindi decidere solo attraverso un testamento di assegnare al figlio odontoiatra lo studio e all’altro figlio una porzione equivalente (o quasi) del patrimonio in altra forma.
Inutile specificare che il caso ideale è quello opposto a quello fino ad ora esaminato: e cioè quello della successione testamentaria su eredi che sono anche professionisti. Costoro avranno ovviamente gli stessi diritti ed obblighi di cui sopra ma almeno avranno la possibilità di valorizzare nella misura massima possibile il patrimonio professionale ricevuto in successione dal de cuius, minimizzando le possibilità di dissidio tra di loro.
Il secondo caso che ci interessa esaminare è quello dello studio associato con soci che non appartengono allo stesso nucleo familiare.
Nella gran parte dei casi, il problema della morte del socio in situazioni come queste si risolve da solo applicando la regola di cui all’art. 2284 del Cod. Civ. , dettato in realtà per le società di persone ma ben applicabile anche allo studio associato, che così dispone:
“Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che non preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi”
Tenuto conto del carattere personale del rapporto nello studio associato, nonché dei requisiti soggettivi di professionalità e onorabilità richiesti per svolgere le professioni cosiddette protette, la possibilità di continuare con gli eredi sembra da escludere, salvo diverso accordo.
Agli eredi spetta la liquidazione della quota dello studio del de cuius, formata da due componenti:
La quota di utili può essere costituita da due addendi:
La quota di patrimonio può essere composta da:
Relativamente agli obblighi fiscali cui sono tenuti gli eredi del socio premorto, l’articolo 5 comma 3 del TUIR, alla lettera c), prevede che, ai fini della tassazione sui redditi, le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.
L’art 7 comma 3 del TUIR stabilisce che, in caso di morte dell’avente diritto, i redditi che secondo le disposizioni relative alla categoria di appartenenza sono imputabili al periodo di imposta in cui sono percepiti devono essere determinati a norma delle stesse disposizioni e sono tassati separatamente nei confronti degli eredi e legatari che li hanno percepiti secondo le disposizioni degli articoli 19 e 21.
L’art 17 comma 1 TUIR, alla lettera l) stabilisce che possono essere soggetti a tassazione separata i redditi compresi nelle somme attribuite o nel valore normale dei beni assegnati ai soci delle società indicate nell’articolo 5 del TUIR nei casi di recesso , esclusione e riduzione del capitale e agli eredi in caso di morte del socio , e i redditi imputati ai soci in dipendenza di liquidazione , anche concorsuale , delle società stesse, se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della società e la comunicazione di recesso o dell’esclusione , la delibera di riduzione del capitale, la morte del socio o l’inizio della liquidazione è superiore a cinque anni.
É il caso di sottolineare che il conteggio del lasso temporale quinquennale si calcola dalla costituzione dello studio associato fino al decesso del professionista e non dal momento in cui il professionista deceduto è diventato socio.
Agli eredi è data la facoltà (salvo loro diversa opzione) di tassare separatamente tutti i redditi prodotti dal defunto e da loro riscossi, se rilevanti ai fini fiscali, nel momento della percezione.
Sotto il profilo dell’imposta di successione e donazione, gli eredi vedranno applicare le regole e le franchigie ordinarie. Quindi, nel caso in cui si tratti, ad esempio, di eredi diretti (coniuge e figli), al superamento della franchigia individuale (1.000.000 di euro o 1.500.000 di euro per figli con disabilità grave), vedranno applicare l’aliquota del 4%. Questa disciplina è ovviamente applicabile sia al caso dello studio monocratico che a quello dello studio associato.
Il terzo caso è quello della stp-srl e si presenta alla nostra analisi in maniera ben diversa a seconda della qualità degli eredi.
Qui, infatti, a complicare il quadro, si aggiunge la regola che impone la maggioranza dei due terzi dei diritti di voto in capo ai soci professionisti. Una regola la cui interpretazione nel nostro ambito è stato imposta in misura particolarmente restrittiva dagli Ordini professionali, richiedendo la stessa maggioranza anche per teste e per quote.
Con questa ulteriore qualificazione, la cessione, la donazione o la successione in capo a eredi non professionisti presenta in misura rafforzata le stesse problematiche già esaminate nel caso dello studio monocratico e associato. L’erede non avrebbe altra strada che quella di vendere – o per meglio dire svendere – le quote di maggioranza qualificata ad un socio professionista in tempi molto ristretti, onde fugare il rischio di una completa perdita di valore del patrimonio aziendale ricevuto in eredità. Potrebbero tuttavia beneficiare di condizioni di maggior favore in termini di imposte di donazione e successione.
Sarebbe infatti pienamente applicabile, perlomeno per la donazione o successione delle quote della stp, l’art. 3, comma 4 – ter del Testo Unico delle Successioni, il quale recita testualmente:
«I trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia di cui agli articoli 768 bis e seguenti del Codice Civile a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta. In caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile. Il beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso. Il mancato rispetto della condizione di cui al periodo precedente comporta la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata».
Lo stesso articolo, e questa volta in misura piena, sarebbe poi applicabile al quarto caso che ci interessa.
Ci riferiamo, in particolare, al caso della srl ordinaria che gestisce un ambulatorio, così come a qualunque altra srl coinvolta a vario titolo nell’attività odontoiatrica (srl di mezzi e di consulenza).
In questo caso sono infatti pienamente applicabili le nozioni di azienda e di ramo d’azienda (applicabilità invece discussa e discutibile nel caso delle stp). E sarà anche pienamente applicabile la disciplina di cui all’art. 68, comma 6 del TUIR.
Ne deriva che:
Quindi, Il grande vantaggio per chi eredita quote, aziende e rami d’azienda è in tutti i casi quello di ricevere un patrimonio il cui valore viene completamente sterilizzato da qualunque obbligo tributario, in termini di imposte sulla plusvalenza, dovuto dal donante o dal de cuius fino al momento in cui è avvenuto il trasferimento. Nel caso in cui il trasferimento dell’azienda e delle quote consenta il controllo della società agli eredi, alle condizioni già esaminate, a questo vantaggio si aggiunge anche l’esenzione dall’imposta di successione e donazione.
Uno dei motivi per i quali i dentisti provvedono a trasformare il proprio studio in impresa individuale o societaria e in società tra professionisti è strettamente legato ai vantaggi appena descritti in termini di imposta di successione e di plusvalenza, che va ad aggiungersi a tutti gli altri vantaggi di cui ci siamo occupati in altri articoli e in nostre opere monografiche dedicate alla srl, alla holding e alla stp.
In altri termini, il solo fatto di dover preparare la strada ad una migliore pianificazione del passaggio generazionale ai propri eredi, specie se questi non sono professionisti, spinge il dentista nella preliminare trasformazione del proprio studio professionale in srl ordinaria, al fine di riservare ai propri eredi, oltre che a sé stesso, minori oneri economici e maggiori possibilità di manovra.
Solo nel caso in cui gli eredi possano essere professionisti potrà optare per la soluzione stp per raggiungere questo specifico fine.
Ovviamente, il passaggio comporta tutta una serie di operazioni che almeno in parte sono esattamente le stesse che vengono intraprese nel momento in cui si cede lo studio a terzi estranei al nucleo familiare. Di questi casi ci siamo occupati già nell’articolo sul nostro blog di cui al seguente link https://www.dentistamanager.it/trasformazione-cessione-e-conferimento-da-studio-dentistico-a-srl-odontoiatrica/ cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti, ricordando che quando detto per la srl vale anche per la stp-srl.
Prendiamo ora in considerazione i passaggi esterni, che si sostanziano nella trasmissione dell’azienda e dell’attività sanitaria a terzi.
I principali casi possibili sono quelli della trasmissione dello studio, della srl-stp e della srl ordinaria.
Con riferimento al primo caso, va subito sottolineato che il complesso organizzativo dello studio non è assimilabile all’azienda e quindi non potrebbe essere venduto come un complesso unitario di elementi materiali ed immateriali suscettibile di una complessiva valutazione economica. Trattandosi di cosa diversa da un’azienda, non dovrebbe poter ricomprendere alcun avviamento né alcuna relazione di clientela e tantomeno potrebbe essere pagato come controprestazione della cessione a valori di quel genere. Lo studio dovrebbe in altri termini essere venduto come un insieme di beni materiali e di valori monetari, ognuno dei quali suscettibile di una valutazione economica. Il corrispettivo della cessione dovrebbe quindi risultare come una semplice somma algebrica di questi valori.
Che questa sia la concezione corretta per una attività professionale semplice sembra essere del tutto logico e coerente; in fondo, il professionista crea una relazione con i propri clienti basata espressamente sull’intuitu personae. Quello stretto rapporto fiduciario caratterizza – o dovrebbe caratterizzare – un rapporto unico e per certi versi persino irripetibile con altri professionisti, una qualità in fondo ben lontana da quel concetto di avviamento aziendale che in qualche modo rende quel rapporto molto più standardizzato e fungibile, quasi che la persona di colui che eroga il servizio si ponesse in secondo piano rispetto alla struttura organizzativa e imprenditoriale di cui la stessa persona fa parte.
Tuttavia, l’evoluzione dei settori e dei mercati e soprattutto la concreta articolazione di taluni ambiti professionali pone in forte tensione le naturali distinzioni del Diritto, creando delle situazioni che si pongono oggettivamente su un piano intermedio rispetto alle stesse.
E’ questo è proprio il caso degli odontoiatri, i quali spesso sono costretti a costruire una articolazione organizzativa che pone la propria pazientela in una situazione diversa da quella che caratterizza il classico rapporto tra un ben determinato medico e i propri pazienti.
La presenza all’interno di certi studi odontoiatrici di equipe di collaboratori specializzati nelle varie branche odontoiatriche e persino di ausiliari e dipendenti con specifica preparazione per l’assistenza all’odontoiatra cambia almeno parzialmente quel quadro già descritto.
D’altra parte, gli usi di mercato avevano di fatto già trovato soluzioni “clandestine” al problema: gli odontoiatri che cedevano i propri studi ad altri colleghi spesso si facevano pagare una parte in nero oppure sopravvalutavano il valore dei beni materiali allo scopo di farsi in qualche modo remunerare il valore della propria clientela.
A fronte di queste evoluzioni del Diritto Materiale, sempre più rapido rispetto a quello delle norme, la Cassazione, già a partire dal 2010, aveva coniato due nuove alternative concezioni relative alla cessione dello studio professionale, ammettendo che fosse concepibile una cessione ad un valore unitario dello studio, inteso come complesso di beni materiali e immateriali, in due specifici e alternativi casi:
La Cassazione, insomma, mostra molto bene di aver colto il punto dirimente della questione.
Se il professionista vuole cedere la clientela come se fosse un valore trasmissibile ad un altro professionista, deve rimuovere le condizioni che renderebbero quella clientela non cedibile perché indissolubilmente a lui legata. Il che non può avvenire che attraverso le due strade appena indicate dalla Stessa.
Questo è anche lo stesso motivo per cui un professionista che non sia in grado di realizzare queste condizioni non può pensare di riuscire a vendere lo studio: cosa che, ben lungi dall’essere legata all’astratto universo del Diritto, è esattamente quanto si verifica nella pratica. Di studi invendibili ed eterni invenduti ce ne sono diversi e sono tutti quelli appartenenti a quei professionisti puri che hanno legato le sorti e le fortune del proprio studio unicamente alla propria persona e alla propria professionalità.
Tornando al valore unitario dello studio e alla sua valorizzazione, gli elementi suscettibili di rientrare in tale valore sono:
La quantificazione dei valori relativi alle singole poste appena individuate forma oggetto di apposite perizie tecniche che rientrano nelle competenze di commercialisti e revisori contabili, sulle quali non è il caso di soffermarci in questa sede.
Più utile è indagare sotto il profilo fiscale il trattamento delle stesse.
Può aiutarci in questa senso l’analisi dell’art. 54 del TUIR ed in particolare di alcuni suoi commi.
“Concorrono a formare il reddito le plusvalenze (e le minusvalenze) dei beni strumentali, esclusi gli immobili e gli oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione, se:
- sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso;
- sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita e il danneggiamento dei beni;
- i beni vengono destinati al consumo personale o familiare dell’esercente l’arte o la professione o a finalità estranee all’arte o professione.
Le minusvalenze dei beni strumentali di cui al comma 1-bis sono deducibili se sono realizzate ai sensi delle lettere a) e b) del medesimo comma 1-bis.
Si considerano plusvalenza o minusvalenza la differenza, positiva o negativa, tra il corrispettivo o l’indennità percepiti e il costo non ammortizzato ovvero, in assenza di corrispettivo, la differenza tra il valore normale del bene e il costo non ammortizzato”.
In altre parole, la cessione a terzi di elementi materiali riconducibili allo studio non comporta il pagamento di alcuna imposta diversa da quella relativa alle eventuali plusvalenze. Nel caso dei dentisti, tale regola resta la stessa anche nell’ambito delle imposte indirette. Il medico e l’odontoiatra, infatti, emettono fatture in esenzione iva per le proprie prestazioni sanitarie eseguite sul paziente e quindi non hanno la possibilità di detrarre ma solo di dedurre l’iva che pagano per l’acquisto dei beni e servizi utili all’attività. Ciò comporta che la vendita dei beni usati non sconta l’iva per esplicita disposizione di legge e in particolare in base all’art. art 10, n. 27-quinques, del D.P.R. n. 633/72.
Diverso il discorso per quanto riguarda i beni immateriali. In quest’ultimo, caso risulta applicabile la regola dettata dal comma 1-quater dell’art. 54 TUIR:
“…concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica e professionale”.
In altre parole, l’avviamento che normalmente contribuisce ad innalzare il valore complessivo dello studio, fino al punto da costituire la parte preponderante del suo valore, comporta il pagamento dell’IRPEF più addizionali in ogni caso. E nella sua valorizzazione rientrano anche i compensi figurativi del titolare che normalmente dovrebbero costituire una parte corposa dell’imponibile ai fini fiscali.
Quasi non bastasse, l’Agenzia delle Entrate ha tenuto a precisare che la cessione dello studio per la parte immateriale è imponibile iva ad aliquota ordinaria.
Sul fatto che i compensi del titolare dovrebbero costituire una parte corposa abbiamo usato il condizionale non a caso perché nella realtà degli studi odontoiatrici in Italia si assiste spesso alla realizzazione di ben altre situazioni.
Prima di entrare nella loro disamina, si deve ricordare che nello studio professionale i compensi del titolare non vengono valorizzati come costi operativi dello studio ma sono confusi con l’imponibile (o se si preferisce con l’utile dello studio). La contabilità analitica da cui scaturisce il bilancio non è in grado di cogliere grandezze economiche figurative che siano prive di correlati movimenti di cassa. Per comprendere quale peso abbiano queste grandezze occorre necessariamente ricorrere ad una contabilità interna di tipo direzionale che costituisce il principale strumento del controllo di gestione. Questa contabilità è in grado di cogliere anche il peso di questo elemento figurativo e di permettere un’analisi reale della situazione economica dello studio.
Si guardi al seguente schema ove sono valorizzate non sole le principali voci di sintesi del bilancio (fatturato e utile) ma anche la produzione dei servizi sanitari realmente effettuata a prezzi di pagato paziente e in particolare quella eseguita dal titolare; oltre che i compensi figurativi del titolare, calcolati alla stessa percentuale sul pagato paziente che viene riconosciuta dallo stesso ai propri collaboratori.
Appare evidente che a parità di dati di bilancio, il giudizio sulla salute economica del due studi è diametralmente opposto.
Questa banale osservazione, troppo spesso trascurata da molti dentisti italiani (e persino dai loro commercialisti, in non pochi casi) ci permette di individuare un’altra specifica condizione cui è subordinato il successo del passaggio generazionale a terzi estranei al nucleo familiare del titolare.
E cioè quella per la quale risultano vendibili solo quegli studi che conseguono un utile sufficiente a remunerare il titolare per le proprie prestazioni professionali in misura almeno uguale a quella in base alla quale vengono pagati i collaboratori di quest’ultimo e a remunerare anche il capitale investito e il rischio corso.
Di questi temi ci siamo occupati a più riprese in altri articoli e in particolare in quello di cui al link Sulla redditività della struttura odontoiatrica | Dentista Manager.
Che le cose si pongano esattamente in questi termini è confermato da una serie di circostanze di mercato:
Ovviamente, chi compra gli studi valuta gli stessi in un’ottica più generale sotto diversi profili ed è molto esigente. Tende a previlegiare strutture attente al rispetto dei tanti obblighi ed adempimenti previsti dall’Ordinamento e dalle autorità di vigilanza. Così come al rigore contabile e al controllo di gestione. Giudica anche in base alla presenza di un’organizzazione per processi e di strategie di marketing, alla capacità della struttura di procurare sempre nuovi pazienti e prime visite, alla dotazione strumentale, alla preparazione delle risorse umane e dei collaboratori coinvolti etc.
Per dirla in breve, ciò che rende vendibile uno studio sono esattamente le stesse condizioni che lo rendono profittevole ed efficiente sul mercato e cioè quello di cui noi parliamo sotto diversi profili da diversi anni a questa parte.
Da ultimo, va ricordato che soprattutto gli imprenditori del Grande Capitale finanziario, quando e se trovano uno studio interessante sotto tutti questi profili, non procedono all’acquisto se prima lo stesso non ha provveduto a trasformarsi in società di gestione di un ambulatorio.
In merito al secondo e terzo caso non ci sarebbe molto da aggiungere alle considerazioni già effettuate precedentemente.
Appare abbastanza chiaro che la situazione di partenza che rende più facile la cessione è quella della srl ordinaria. In quest’ultimo caso, infatti, sono possibili diverse forme di cessione e in particolare la cessione d’azienda (e in qualche caso anche del ramo d’azienda) e delle quote.
Sotto il profilo fiscale, va sottolineato anzitutto che la cessione d’azienda e delle quote non è soggetta ad iva ma ad imposta di registro. Nel primo caso si applica l’imposta di registro proporzionale (al 3%) e nel secondo quella in misura fissa (pari ad € 200). Il che segna un punto di notevole favore rispetto allo studio professionale.
Va sottolineato che nel caso della cessione totale delle quote c’è stato in passato qualche tentativo da parte dell’Amministrazione Finanziaria di considerare tale cessione come assimilata a quella d’azienda, all’evidente scopo di imporre innaturalmente il pagamento dell’imposta di registro proporzionale. Tuttavia, sono stati tutti tentativi rigettati dalla Giurisprudenza tributaria. Quindi ad oggi appare scontato che in ogni caso è la cessione delle quote l’operazione da porre in essere per ottimizzare la variabile fiscale.
Sotto il profilo delle imposte dirette, invece, la cessione sconta solo imposte sulle eventuali plusvalenze e cioè sulla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita. Chi subisce il carico fiscale è unicamente il cedente, il quale può essere una persona fisica (il professionista cedente) o una sua società (che magari agisce nel ruolo di holding, detenendo il pacchetto di controllo o la partecipazione totalitaria nella srl odontoiatrica). Nel primo caso si applicherà quindi l’IRPEF, nel secondo l’IRES. Ovviamente, in questo secondo caso sarà anche possibile l’applicazione del Regime PEX con imposta ridotta, al ricorrere di determinate condizioni.
Lo stesso trattamento fiscale potrà almeno in parte riguardare il caso della stp-srl, con la sola differenza che in quest’ultimo caso non sembra applicabile la cessione di azienda (e tantomeno quella di ramo d’azienda) ma solo quella delle quote. Sappiamo già, tuttavia, che almeno ai nostri fini si tratta di una distinzione puramente accademica.
Il tema del passaggio generazionale presenta una complessità elevata e una casistica molto articolata, spingendo il consulente ad una analisi attenta della situazione di partenza al fine di cercare la soluzione meno onerosa e più performante per il dentista.
Ancora una volta sono le forme societarie ad essere previlegiate. Le stesse permettono al dentista di pianificare al meglio il passaggio generazionale sopportando gli oneri fiscali più contenuti e potendo contare su una flessibilità di strumenti che sono totalmente impraticabili per lo studio.
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2 Commenti
[…] Questo gap in termini di competitività fiscale tra professione e impresa è particolarmente avvertito nei processi di riorganizzazione e passaggio generazionale. […]
[…] Riforma di favorire l’utilizzo dello strumento soprattutto quale componente principale nel passaggio generazionale appare del tutto evidente e sarebbe veramente un delitto non approfittarne ogniqualvolta se ne […]