Il Regolamento GDPR ha introdotto la figura del Data Protection Officer (DPO), spesso poco compresa in ambito odontoiatrico. In questo articolo offriamo una guida completa per lo studio dentistico: chi è il DPO, quando è obbligatorio nominarlo, quali compiti svolge, cosa significa “trattamento su larga scala” e perché la sua presenza può diventare un investimento strategico. Con esempi pratici, riferimenti normativi e criteri operativi, aiutiamo il professionista a prendere decisioni consapevoli.
Perché oggi si parla tanto di Data Protection Officer (DPO) anche nello studio dentistico?
Negli ultimi anni, il tema della protezione dei dati personali è entrato con forza anche nel mondo degli studi dentistici. La crescente digitalizzazione dei servizi, la raccolta di informazioni sensibili sulla salute dei pazienti e l’uso di strumenti come le firme elettroniche o le piattaforme di telemedicina rendono sempre più centrale la questione della compliance al GDPR.
In questo scenario si colloca la figura del Data Protection Officer (DPO), o Responsabile della Protezione dei Dati, una professionalità introdotta dal Regolamento Europeo 2016/679 che ha il compito di vigilare, consigliare e supportare le organizzazioni nel rispetto delle normative in materia di privacy. Non si tratta di un semplice consulente, né di un ruolo formale da assegnare per adempiere a un obbligo burocratico: il DPO è, a tutti gli effetti, un presidio strategico per la sicurezza giuridica e reputazionale dello studio.
Ma chi deve nominarlo? Quali compiti svolge? In quali casi è obbligatorio, e quando invece può essere una scelta volontaria ma vantaggiosa? E soprattutto: ha senso per uno studio dentistico dotarsi di questa figura, anche se non è obbligatorio?
Questo articolo nasce per rispondere in modo chiaro, pratico e completo a tutte queste domande, offrendo una guida operativa alla valutazione, alla scelta e all’eventuale integrazione del DPO nella governance dello studio odontoiatrico.
Il Data Protection Officer (DPO), o Responsabile della Protezione dei Dati, è una figura specializzata prevista dal GDPR, che agisce come garante interno del rispetto della normativa sulla privacy. Non appartiene né alla sfera amministrativa né a quella clinica, e non ha compiti operativi: il suo ruolo è principalmente di vigilanza e consulenza, con ampi margini di autonomia.
Una delle prime confusioni comuni è quella tra il DPO e il consulente privacy. Il secondo fornisce supporto tecnico o legale su richiesta, mentre il DPO – se nominato – diventa una figura formalmente riconosciuta, autonoma, e dotata di compiti specifici previsti dalla legge. Non può ricevere direttive dal titolare, non può essere rimosso per le sue valutazioni, e soprattutto non può trovarsi in conflitto di interessi.
Esempio pratico: se il titolare dello studio dentistico affida la gestione della privacy a un dipendente che è anche il responsabile IT interno, ciò potrebbe generare un conflitto di interessi. Questo perché chi configura i sistemi informatici e decide come trattare i dati non può allo stesso tempo vigilare in modo imparziale su se stesso.
Il DPO può essere una persona fisica o un’organizzazione (come uno studio associato o una società di consulenza), e può essere interna all’organico oppure esterna, purché dotata delle competenze adeguate.
Esempio pratico: uno studio dentistico con più sedi può decidere di nominare come DPO una società esterna specializzata in protezione dei dati, capace di coprire le esigenze di tutte le sedi con un servizio strutturato e documentato.
Il Regolamento non elenca titoli di studio o certificazioni obbligatorie, ma specifica che il DPO deve possedere:
conoscenze specialistiche della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati;
capacità di assolvere i compiti assegnati, anche in contesti complessi.
Nel settore sanitario, e ancor più in ambito odontoiatrico, è auspicabile che il DPO abbia anche una conoscenza di base dei flussi sanitari e delle piattaforme digitali in uso, come software gestionali, archiviazione cloud o servizi di teleodontoiatria.
Esempio pratico: un DPO che non conosce le logiche dei richiami automatici ai pazienti, delle comunicazioni via WhatsApp o dell’utilizzo di immagini cliniche per finalità promozionali, potrebbe non cogliere i reali rischi di trattamento illecito dei dati.
Nel linguaggio comune si tende spesso a sovrapporre le figure del DPO e del consulente privacy, ma in realtà si tratta di due ruoli distinti per natura, funzioni e posizionamento organizzativo.
Il consulente privacy è un soggetto scelto liberamente dal titolare per ricevere supporto su questioni operative: aggiornare le informative, redigere il registro dei trattamenti, predisporre policy e modulistica. Non ha vincoli di autonomia, non è nominato formalmente e può ricevere istruzioni e obiettivi specifici.
Il DPO, invece, è una figura formalmente designata ai sensi del GDPR, dotata di indipendenza funzionale e incaricata di svolgere attività di sorveglianza, consulenza e raccordo con l’autorità di controllo. Non può essere subordinato, né può assumere ruoli che comportino un conflitto di interessi.
Per questo motivo, la stessa persona non può essere contemporaneamente DPO e consulente privacy dello stesso studio, né tantomeno incaricata di attività operative (es. responsabile della sicurezza informatica, gestione dei dati, amministratore di sistema, ecc.).
Esempio pratico: Se un consulente esterno redige policy privacy per conto dello studio, stipula contratti con i fornitori e gestisce la sicurezza dei dati, non potrà essere anche nominato come DPO. Il rischio è che si ritrovi a dover vigilare sul proprio operato, compromettendo l’imparzialità richiesta dal Regolamento.
In linea generale, no. Il titolare del trattamento (ovvero il professionista o il rappresentante legale della società) non può ricoprire il ruolo di DPO per lo stesso soggetto giuridico. Il motivo è chiaro: si troverebbe a vigilare su se stesso, in palese violazione del principio di indipendenza.
Il Garante per la protezione dei dati personali e il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) hanno confermato che l’assenza di conflitto di interessi è condizione essenziale per la validità della nomina. Il titolare può eventualmente ricoprire questo ruolo in un’altra organizzazione, purché indipendente dalla propria.
Esempio pratico: Un dentista titolare dello Studio Alfa non può essere nominato DPO dello Studio Alfa. Tuttavia, se ha le competenze adeguate, potrebbe essere nominato DPO di una rete di studi di cui non è socio o amministratore, a condizione di piena indipendenza.
Negli studi mono-professionali o di dimensioni ridotte, dove i ruoli sono concentrati, è preferibile optare per:
l’assenza di nomina, se non sussistono i requisiti di obbligatorietà;
la nomina volontaria di un DPO esterno, con competenze certificate e autonomia riconosciuta;
la distinzione chiara dei ruoli tra chi cura l’operatività privacy (es. un consulente) e chi ha compiti di sorveglianza (es. il DPO), evitando sovrapposizioni.
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Il Regolamento UE 2016/679 (GDPR) dedica l’articolo 39 alla definizione dei compiti minimi del data protection officer. Si tratta di un elenco non esaustivo, che può essere ampliato in base alle esigenze organizzative dello studio, ma che rappresenta la base giuridica inderogabile del suo ruolo. Il DPO non è un esecutore, bensì un consulente interno con funzione di presidio, e la sua efficacia dipende dalla possibilità di agire con indipendenza, continuità e competenza.
Il DPO ha il compito di fornire indicazioni chiare e aggiornate su tutti gli obblighi previsti dal GDPR e dalla normativa nazionale in materia di protezione dei dati. Questo include sia le attività ordinarie (informative, registri, nomine) sia le situazioni complesse (trasferimento di dati all’estero, trattamenti automatizzati, videosorveglianza).
Esempio pratico: Un titolare vuole inserire una webcam in sala d’attesa per motivi di sicurezza. Il DPO deve segnalare l’obbligo di informativa specifica, la necessità di valutare l’impatto sui diritti dei pazienti, e le misure tecniche da adottare (registrazione, conservazione, accessi autorizzati).
Il DPO verifica che lo studio rispetti i principi fondamentali della normativa: minimizzazione, finalità, liceità del trattamento, integrità e riservatezza dei dati. Non svolge audit ispettivi, ma deve essere in grado di segnalare anomalie, criticità o mancanze documentali.
Esempio pratico: Durante un controllo, il DPO si accorge che alcune informative consegnate ai pazienti sono datate e non riportano la base giuridica del trattamento. Avvisa il titolare e propone l’adeguamento del modello.
Uno dei compiti chiave del DPO è quello di educare il personale a una corretta gestione dei dati personali, soprattutto in uno studio in cui circolano dati sensibili sulla salute. La formazione può essere svolta in presenza, online, o tramite materiali distribuiti internamente, ma deve essere costante e documentabile.
Esempio pratico: Il DPO redige un breve vademecum per gli assistenti di studio su come gestire le richieste dei pazienti riguardanti il consenso, i diritti di accesso e le modalità di consegna della documentazione sanitaria.
Quando lo studio introduce nuovi trattamenti potenzialmente rischiosi, come l’uso di nuove piattaforme digitali o l’integrazione con servizi esterni, potrebbe essere necessario redigere una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (DPIA). In questi casi, il DPO fornisce un parere formale, anche se non vincolante, sulla necessità, la correttezza e la completezza della valutazione.
Esempio pratico: Lo studio inizia a usare un sistema di intelligenza artificiale per analizzare radiografie. Il DPO valuta la tipologia dei dati trattati, le misure di sicurezza previste e la trasparenza nei confronti dei pazienti.
Il DPO funge da referente diretto per il Garante per la protezione dei dati personali, in caso di ispezioni, quesiti, violazioni. Allo stesso modo, è il punto di contatto per i pazienti che vogliano esercitare i propri diritti (accesso, rettifica, opposizione, cancellazione).
Esempio pratico: Un paziente chiede la cancellazione del proprio nominativo dal database marketing dello studio. Il DPO interviene per verificare se ci sono le condizioni e garantire la corretta risposta entro i termini previsti.
Il DPO deve riferire direttamente al titolare dello studio o agli amministratori della società, senza filtri o deleghe, e senza subire pressioni o limitazioni. Il confronto periodico con la direzione è essenziale per aggiornare le strategie e le priorità in materia di privacy.
Esempio pratico: Il DPO partecipa alla riunione annuale di revisione organizzativa e propone l’adozione di un nuovo protocollo per la gestione delle richieste di accesso ai dati sanitari, con tracciabilità e tempi certi.
Uno dei fraintendimenti più comuni riguarda la responsabilità del DPO in caso di violazioni della normativa sulla privacy. Molti titolari temono di “scaricare” le responsabilità sul DPO o, al contrario, si aspettano che questo assuma un ruolo operativo e decisionale. Entrambe le visioni sono errate.
Il GDPR chiarisce che la responsabilità del rispetto della normativa ricade sempre sul titolare del trattamento, cioè sul professionista o sulla società che decide finalità e modalità del trattamento. Il DPO ha un ruolo di sorveglianza e consulenza, ma non può essere ritenuto responsabile per eventuali violazioni commesse dallo studio, a meno che non agisca con dolo o colpa grave.
Esempio pratico: Se un paziente riceve per errore via email i referti di un altro soggetto, e l’incidente viene segnalato al Garante, la responsabilità è del titolare del trattamento, non del DPO. Spetta al titolare dimostrare di aver adottato misure adeguate (formazione del personale, strumenti di controllo), anche su suggerimento del DPO.
Il principio dell’accountability richiede che il titolare possa documentare le scelte fatte in materia di protezione dei dati. Questo implica che le indicazioni del DPO debbano essere formalizzate, tracciate e valutate. Ignorare sistematicamente i suoi pareri, senza giustificazione, espone lo studio a maggiori rischi in caso di accertamenti.
Esempio pratico: Il DPO raccomanda l’adozione di un registro dei trattamenti aggiornato, ma lo studio lo considera superfluo. In caso di ispezione, il mancato aggiornamento sarà contestato al titolare, che dovrà giustificare perché non ha seguito il suggerimento di un professionista formalmente nominato.
Perché il DPO sia efficace e il titolare possa beneficiarne realmente, occorre:
assicurargli libero accesso alle informazioni e ai documenti;
garantirgli risorse adeguate (tempo, budget, supporto);
tutelarne l’indipendenza, evitando interferenze o pressioni.
Esempio pratico: Uno studio nomina come data protection officer un consulente esterno, ma poi non lo coinvolge nelle decisioni sulla gestione dei dati, né lo informa su modifiche ai flussi interni. In questo caso, il DPO non può esercitare correttamente le sue funzioni, e la nomina rischia di essere solo formale.
Un DPO privo di autonomia, risorse e contatti effettivi con lo studio non è solo inefficace, ma può addirittura aggravare la posizione del titolare. Il Garante può ritenere che si tratti di una nomina apparente, fatta solo per adempiere a un obbligo formale, ma priva di reale contenuto operativo.
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Uno dei nodi più discussi tra i professionisti sanitari riguarda proprio la natura obbligatoria o facoltativa della nomina del DPO. Il GDPR, all’art. 37, individua tre casi specifici in cui la nomina è obbligatoria. Al di fuori di questi casi, la nomina resta una scelta libera, sebbene raccomandata in diverse situazioni.
Secondo il Regolamento europeo, il DPO è obbligatorio quando:
Il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o un organismo pubblico (con l’eccezione delle autorità giudiziarie nell’esercizio delle loro funzioni).
Le attività principali del titolare o del responsabile consistono nel monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala.
Le attività principali consistono nel trattamento su larga scala di categorie particolari di dati personali, come quelli sanitari, oppure dati relativi a condanne penali e reati.
Nel contesto degli studi dentistici, il primo punto non è rilevante (non si tratta di autorità pubbliche). I dubbi sorgono sugli altri due criteri.
Il monitoraggio regolare e sistematico su larga scala si riferisce ad attività come profilazione, geolocalizzazione, tracciamento continuo degli utenti. Uno studio dentistico, anche se informatizzato, difficilmente rientra in questo caso, a meno che non gestisca reti molto ampie con sorveglianza continua dei pazienti.
Il trattamento su larga scala di dati sanitari è invece un tema più delicato. Il GDPR non definisce precisamente cosa si intenda per “larga scala”, ma il Garante ha chiarito che non si considera “larga scala” l’attività di singoli professionisti o piccole realtà, anche se trattano dati sensibili.
Esempio pratico: Uno studio dentistico con tre poltrone, che tratta dati sanitari solo dei propri pazienti e li conserva nel gestionale interno, non è obbligato a nominare un data protection officer. Diverso il caso di un centro odontoiatrico con più sedi, centinaia di pazienti al giorno, servizi di odontoiatria digitale, telemedicina e software cloud condivisi tra operatori: qui la nomina potrebbe essere obbligatoria.
Anche quando non vi è obbligo formale, il titolare può nominare un DPO su base volontaria, come suggerito dalle linee guida europee. Si tratta di una scelta strategica per:
tutelarsi in caso di ispezioni;
strutturare meglio la gestione della privacy;
garantire maggiore trasparenza verso i pazienti;
alleggerire il carico di lavoro interno su tematiche complesse.
Esempio pratico: Una SRL odontoiatrica che opera con più soci, impiega diversi collaboratori e utilizza servizi digitali per il follow-up dei pazienti (come il dental monitoring o l’invio di notifiche via app), pur non essendo obbligata, potrebbe trarre grande vantaggio dalla presenza di un DPO, sia per gestire la complessità normativa, sia per prevenire errori e contenziosi.
Il Regolamento UE 2016/679 prevede la nomina obbligatoria del data protection officer nei casi in cui le attività principali del titolare comportino un trattamento su larga scala di dati sanitari. Ma cosa si intende esattamente per “larga scala”?
Il legislatore non fornisce un numero preciso di pazienti o di volumi di dati. Tuttavia, le linee guida del Gruppo di lavoro ex art. 29 indicano quattro parametri da considerare per valutare se un trattamento può definirsi “su larga scala”:
Numero degli interessati coinvolti: anche se non definito in termini assoluti, un trattamento che coinvolge migliaia di persone è più facilmente considerato su larga scala rispetto a uno rivolto a poche centinaia.
Durata o persistenza del trattamento: trattamenti continuativi o ricorrenti (es. follow-up periodici, telemonitoraggi) hanno maggiore rilevanza rispetto a quelli sporadici.
Estensione geografica del trattamento: la diffusione su più territori o sedi aumenta la scala del trattamento.
Quantità e varietà dei dati trattati: l’insieme di dati sanitari, immagini, referti, tracciamenti, uniti a dati identificativi e comportamentali, costituisce un trattamento più “massivo”.
A questi criteri si può aggiungere una valutazione di tipo relativo, che aiuta a contestualizzare meglio il concetto di “scala”. Ad esempio, un numero come 1.000 pazienti, in termini assoluti, può sembrare modesto, ma in un piccolo comune con 2.500 abitanti rappresenta una fetta significativa della popolazione locale. Al contrario, lo stesso volume in una città come Milano, con oltre un milione di residenti, ha un impatto molto più limitato. Questo mostra come la valutazione della “larga scala” debba sempre tenere conto del contesto territoriale e demografico in cui opera lo studio.
Esempio pratico (non su larga scala): Uno studio dentistico con due poltrone, che tratta mediamente 400 pazienti all’anno, conserva i dati nel gestionale locale e non svolge attività di profilazione o tele monitoraggio, non rientra di norma tra i soggetti obbligati alla nomina del data protection officer.
Esempio pratico (potenzialmente su larga scala): Una rete di ambulatori odontoiatrici con cinque sedi, 50 dipendenti e oltre 10.000 pazienti attivi, che utilizza sistemi cloud per monitorare l’andamento delle terapie ortodontiche tramite dispositivi personali dei pazienti, potrebbe rientrare nei criteri di “larga scala” e quindi essere obbligata alla nomina del DPO.
Il Garante italiano, nelle proprie FAQ e nei provvedimenti interpretativi, ha più volte chiarito che le attività dei liberi professionisti o delle microimprese, anche se trattano dati sanitari, di norma non rientrano nella definizione di “larga scala”, salvo specifiche eccezioni legate all’uso di tecnologie pervasive o alla presenza di soggetti vulnerabili.
In assenza di un criterio numerico oggettivo, è compito del titolare valutare con senso di proporzione i parametri sopra elencati, tenendo conto anche della rilevanza del trattamento nel proprio contesto locale, e documentare la decisione con una breve analisi interna, utile anche in caso di controlli da parte dell’autorità.
Anche in assenza di un obbligo normativo, molti studi odontoiatrici si interrogano sulla convenienza strategica della nomina di un data protection officer. La normativa europea e le linee guida del Garante non forniscono una definizione quantitativa di “larga scala” o “monitoraggio sistematico”, ma indicano una serie di parametri qualitativi utili a orientare la scelta.
Vediamoli uno per uno, con esempi specifici del contesto odontoiatrico. Il concetto di “larga scala” verrà approfondito più avanti.
Il primo elemento da considerare è la natura dei dati: quelli relativi alla salute sono considerati “categorie particolari” ai sensi del GDPR, e richiedono una tutela rafforzata. Anche l’eventuale trattamento di dati genetici, fotografie intraorali, immagini TAC o orto panoramiche può aumentare il livello di rischio.
Esempio pratico: Uno studio che conserva referti e immagini cliniche digitali su server cloud, accessibili anche da remoto da più operatori, dovrebbe dotarsi di un DPO per garantire che siano presenti tutte le misure tecniche e organizzative adeguate.
La presenza tra i pazienti di minori, persone fragili, anziani o soggetti affetti da patologie croniche aumenta il livello di responsabilità dello studio e può rendere utile la supervisione di un DPO.
Esempio pratico: Un centro odontoiatrico specializzato in ortodonzia pediatrica e in trattamenti complessi su pazienti disabili tratta dati sensibili e di soggetti vulnerabili: anche in assenza di obbligo, la nomina di un DPO rafforza la protezione e la trasparenza nei confronti delle famiglie.
L’uso di tecnologie avanzate o di strumenti digitali che comportano l’elaborazione automatica dei dati richiede attenzione. La firma grafometrica, le prenotazioni online, l’uso di intelligenza artificiale nella diagnosi, i richiami automatici via app o l’analisi predittiva dei comportamenti sanitari sono tutti elementi che fanno crescere la complessità del trattamento.
Esempio pratico: Uno studio che utilizza una piattaforma cloud per gestire appuntamenti, inviare promemoria, raccogliere feedback e foto da parte del paziente tramite smartphone, crea un flusso continuo di dati digitali e personali. Un data protection officer può intervenire per verificare che siano adottate le corrette basi giuridiche, informative, consensi e tempi di conservazione.
La dimensione dello studio, il numero di professionisti coinvolti, la presenza di più sedi, collaboratori esterni e fornitori con accesso ai dati sono tutti fattori che aumentano il rischio di errori o violazioni.
Esempio pratico: Una società odontoiatrica con più sedi regionali, 20 dipendenti, fornitori esterni per l’assistenza IT e per il marketing, gestisce un volume di dati elevato e distribuito: un DPO in questo contesto può fungere da snodo di controllo e coordinamento essenziale.
Servizi come teleodontoiatria, follow-up a distanza, teleconsulti, archiviazione online di immagini e referti non solo aumentano il volume di dati, ma lo rendono più esposto a rischi di perdita, accessi indebiti o errata gestione.
Esempio pratico: Uno studio che offre ai pazienti la possibilità di consultare online il proprio piano di trattamento, scaricare le fatture e inviare fotografie per monitorare il decorso post-operatorio dovrebbe valutare la nomina di un DPO per garantire che tali servizi siano conformi alla normativa e non espongano a violazioni involontarie.
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In molti studi dentistici, la protezione dei dati personali è vissuta ancora come un adempimento burocratico, spesso percepito come un costo inevitabile. Ma adottare un approccio strategico alla privacy – e dotarsi di un DPO competente e operativo – può trasformare un obbligo in una leva di valore.
Il DPO non è solo un “controllore”, ma può diventare un vero consulente interno della sicurezza giuridica. Se coinvolto attivamente, è in grado di prevenire errori, migliorare le procedure, suggerire soluzioni organizzative e contribuire alla gestione del rischio.
Esempio pratico: Uno studio implementa un nuovo sistema gestionale cloud per accedere ai dati dei pazienti da più postazioni. Il data protection officer analizza la conformità del fornitore, suggerisce modifiche al contratto e revisiona le informative per evitare lacune. Il risultato è una maggiore sicurezza e una riduzione concreta del rischio di contestazioni.
L’assenza di un DPO non esclude la possibilità di subire sanzioni da parte del Garante. Al contrario, un’organizzazione priva di strumenti strutturati per il rispetto del GDPR è più esposta a errori formali e sostanziali.
Esempio pratico: In uno studio privo di DPO, un dipendente invia per errore un’email massiva con dati personali visibili a tutti i destinatari. Il DPO avrebbe potuto prevedere questo rischio e definire regole chiare per l’uso della posta elettronica, oltre a formare il personale.
Un paziente che percepisce attenzione e rispetto per i propri dati tende a sviluppare maggiore fiducia nello studio, soprattutto in ambito sanitario. Il rispetto della privacy non è solo un obbligo di legge, ma una forma di tutela del rapporto professionale, che contribuisce alla reputazione e alla fidelizzazione.
Esempio pratico: Uno studio che informa correttamente il paziente su come vengono trattate le sue immagini radiologiche, sui tempi di conservazione dei dati, e sui suoi diritti, dimostra attenzione e trasparenza. Questo rafforza la relazione e riduce il rischio di conflitti.
Nominare un DPO “di facciata”, scegliere una figura senza competenze specifiche, oppure assegnare informalmente il ruolo a un collaboratore già oberato, può essere controproducente. La protezione dei dati richiede una presenza attiva e competente, non una casella riempita per forma.
Esempio pratico: Uno studio nomina come data protection officer un igienista dentale interno, senza fornirgli alcuna formazione, strumenti o supporto. In caso di violazione, il Garante può contestare la natura solo formale della nomina, aggravando la posizione del titolare.
Il costo di un DPO – soprattutto se condiviso in outsourcing tra più studi o scelto come servizio esterno – può essere contenuto e rapportato alla complessità effettiva. In cambio, offre un beneficio organizzativo stabile, migliora la qualità del trattamento dei dati e riduce il rischio reputazionale.
Dopo aver analizzato il quadro normativo, i compiti, i vantaggi e i parametri di valutazione, è il momento di tirare le somme. Nominare un Data Protection Officer non è sempre obbligatorio, ma può essere altamente consigliato in molti contesti sanitari, anche per realtà medio-piccole. Serve però farlo in modo consapevole, motivato e strutturato, evitando improvvisazioni o formalismi vuoti.
Per aiutare lo studio a decidere, ecco una serie di domande guida:
Tratto dati sanitari su larga scala (centinaia o migliaia di pazienti all’anno)?
Ho più sedi, più soci o una struttura organizzativa complessa?
Uso strumenti digitali evoluti per comunicare con i pazienti o per archiviare immagini, referti, video?
Eseguo monitoraggi continui, teleassistenza, controlli a distanza dei trattamenti?
Tratto categorie particolari di interessati, come minori, disabili o pazienti vulnerabili?
Ho bisogno di una figura che mi aiuti a interpretare correttamente il GDPR nei processi quotidiani?
Voglio prevenire sanzioni e rafforzare la fiducia dei miei pazienti?
Se hai risposto sì anche solo a due o tre di queste domande, vale la pena valutare seriamente la nomina di un DPO.
Una volta presa la decisione, il passo successivo è selezionare una figura competente. Ecco alcuni criteri utili:
Possiede una conoscenza approfondita del GDPR e delle normative italiane?
Conosce il contesto sanitario e odontoiatrico, anche senza essere un operatore clinico?
È autonomo, indipendente e libero da conflitti di interesse?
Ha la capacità di formare il personale, redigere documentazione, collaborare con i consulenti IT?
Può dialogare direttamente con il titolare e con eventuali autorità (come il Garante)?
È disponibile a formalizzare il proprio operato con report, verbali, note scritte?
Molti studi odontoiatrici optano per una nomina esterna a professionisti o società specializzate, che offrono il servizio in outsourcing. Questo consente di contenere i costi e accedere a competenze trasversali, senza appesantire l’organizzazione interna. Altri studi più strutturati possono valutare l’inserimento del DPO all’interno del proprio organico, purché sia assicurata l’indipendenza del ruolo.
Non serve sempre, ma serve sempre farlo bene
La nomina del DPO non è un obbligo per tutti, ma laddove venga fatta – per dovere o per scelta – deve essere efficace, coerente e documentata. Solo così il DPO potrà contribuire concretamente alla sicurezza giuridica e all’equilibrio tra innovazione e tutela nel trattamento dei dati.
L’intera disciplina del Data Protection Officer (DPO) è contenuta nel Regolamento (UE) 2016/679, noto come GDPR – General Data Protection Regulation, entrato in vigore il 25 maggio 2018 e direttamente applicabile in tutti gli Stati membri.
Ecco i principali riferimenti normativi e interpretativi utili per comprendere e applicare correttamente le regole in materia:
Regolamento (UE) 2016/679, articoli:
Art. 37 – Designazione del DPO: quando è obbligatoria la nomina.
Art. 38 – Posizione del DPO: requisiti di indipendenza e risorse.
Art. 39 – Compiti del DPO: sorveglianza, consulenza, cooperazione.
Linee guida sul Data Protection Officer (WP243 rev.01)
Redatte dal Gruppo di lavoro ex art. 29 (WP29), oggi confluito nel Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB).
Forniscono chiarimenti su:
requisiti professionali del DPO;
criteri per definire la “larga scala”;
incompatibilità e conflitti di interesse;
relazioni tra DPO e titolare.
Disponibili in italiano sul sito del Garante.
FAQ sulla nomina del DPO
Offrono indicazioni pratiche sulla nomina obbligatoria o facoltativa per soggetti pubblici e privati, con esempi settoriali (anche sanitari).
Pareri e provvedimenti specifici del Garante
Su casi concreti di nomine invalide, conflitti di interesse, ruoli incompatibili e requisiti minimi di professionalità.
Linee guida EDPB (ex WP29) su Valutazione d’Impatto (DPIA) – WP248 rev.01
Utili per comprendere il ruolo del DPO nel processo di valutazione dei trattamenti ad alto rischio.
Codice in materia di protezione dei dati personali (D.lgs. 196/2003), come modificato dal D.lgs. 101/2018
Rilevante per gli aspetti non coperti direttamente dal GDPR e per l’organizzazione delle autorità italiane.
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