I professionisti e gli imprenditori sanitari devono sapere che uno dei rischi che spesso corrono è quello di vedersi contestate alcune fatture a causa della loro genericità. L’Ade e la Giurisprudenza Tributaria hanno più volte negato la deducibilità del relativo costo per difetto di inerenza. Ha poca importanza se si tratta di un difetto solo formale e non anche sostanziale. Le fatture devono essere dettagliate e contenere informazioni chiare e per quanto possibile esaustive in relazione al tipo di servizio che intendono regolare. E tali informazioni devono essere fornite ab origine e non dopo la contestazione delle fatture al cui interno avrebbero dovuto essere contenute.
I professionisti e gli imprenditori sanitari devono sapere che uno dei rischi che spesso corrono è quello di vedersi contestate alcune fatture a causa della loro genericità. L'Ade e la Giurisprudenza Tributaria hanno più volte negato la deducibilità del relativo costo per difetto di inerenza. Ha poca importanza se si tratta di un difetto solo formale e non anche sostanziale. Le fatture devono essere dettagliate e contenere informazioni chiare e per quanto possibile esaustive in relazione al tipo di servizio che intendono regolare. E tali informazioni devono essere fornite ab origine e non dopo la contestazione delle fatture al cui interno avrebbero dovuto essere contenute.
La Suprema Corte, con l’Ordinanza 7284 del 2025, ha ribadito un principio tanto noto quanto, troppo spesso, ignorato: non è possibile dedurre fiscalmente un costo se la fattura che lo documenta è talmente generica da non permettere di capire a quale attività d’impresa si riferisca.
Nel caso in esame, una società si è vista contestare l’inerenza di una serie di costi riportati in fatture prive di dettagli concreti. Nessuna indicazione precisa sulla natura della prestazione, né sull’ambito progettuale in cui essa si sarebbe inserita. Risultato? Accertamento fiscale per IRES, IRAP e IVA, e conferma della legittimità dell’operato dell’Agenzia delle Entrate da parte dei giudici di merito e di legittimità
Non è una novità, ma ogni tanto serve ricordarlo: se la fattura è generica, il costo non si deduce. Punto. E non si tratta di una sottigliezza da ragionieri pignoli: è un principio cardine della fiscalità d’impresa, capace di far saltare bilanci, innescare accertamenti e mettere in crisi le difese processuali. Le fatture non sono semplici pezzi di carta: sono documenti giuridici che devono parlare chiaro, perché nella chiarezza sta la loro forza. Una fattura scritta male è, per il fisco, il primo campanello d’allarme.
“Servizi di consulenza”, “intervento tecnico”, “spese varie”, “supporto organizzativo”: frasi come queste affollano quotidianamente la contabilità di tante imprese e studi professionali. Per chi le registra sembrano innocue, persino comode. Ma per chi controlla – Agenzia delle Entrate in primis – sono segnali di allarme. In assenza di dettagli, date, riferimenti progettuali o contrattuali, il costo non è riconducibile a un’attività specifica dell’impresa. E se il collegamento logico tra spesa e attività manca, il costo si considera non inerente. Il che significa una cosa sola: non si deduce. Né ai fini delle imposte dirette, né per l’IVA.
Il risultato? Il contribuente si ritrova con un recupero a tassazione, una contestazione formale che si trasforma rapidamente in un problema sostanziale. E a quel punto, lo sappiamo bene, difendersi è molto più difficile.
L’inerenza è uno di quei concetti che si danno spesso per scontati, salvo poi accorgersi che – in sede di accertamento – nessuno l’ha realmente dimostrata. Non basta che un costo sia vero, pagato, persino giustificato da un intento imprenditoriale. Serve che sia dimostrabile il nesso funzionale tra quel costo e l’attività svolta.
Questo legame deve essere oggettivo, logico, documentale. Se una fattura non descrive l’oggetto della prestazione, non spiega cosa è stato fatto, in che tempi, con quali finalità e in che contesto, allora quel legame si rompe. E con esso cade anche la deducibilità.
L’inerenza non si dichiara, si prova. E per provarla serve molto più che una fattura timbrata.
Quando una fattura è contestata per genericità, non spetta al fisco dimostrare l’inesistenza della prestazione: è il contribuente a dover dimostrare che quella spesa è reale, pertinente, funzionale e documentata. E qui casca l’asino.
La difesa non può essere improvvisata. Il contribuente deve disporre di:
contratti scritti, registrati o con data certa;
relazioni tecniche sulle attività svolte;
documentazione operativa, come report di avanzamento, schede ore, elenchi di attività eseguite;
coerenza temporale, perché documenti prodotti dopo la verifica – o peggio ancora, creati ad hoc – valgono quanto una dichiarazione d’intenti.
La logica è semplice: non basta “dire” che il lavoro è stato fatto, bisogna poterlo dimostrare nei dettagli. E più la prestazione è intangibile (consulenza, supporto strategico, formazione, ecc.), più serve precisione.
Ci sono situazioni in cui la documentazione integrativa può salvare il contribuente. Ad esempio, se la fattura è stringata ma accompagnata da contratti dettagliati, rendiconti periodici, relazioni tecniche o schede di lavorazione, allora il costo può essere recuperato. Ma deve trattarsi di elementi coerenti tra loro, formalizzati, credibili.
Al contrario, non bastano le solite “pezze giustificative” dell’ultimo minuto: un contratto privo di data certa, una dichiarazione dell’emittente scritta anni dopo, un documento di parte privo di valore probatorio. Peggio ancora se tutto questo viene prodotto solo dopo l’inizio della verifica. Il principio è chiaro: se il costo è vero, la sua prova deve esistere già prima. Ricostruire la narrazione a posteriori serve solo a complicare la posizione difensiva.
Molti imprenditori sottovalutano la cosa: credono che basti pagare per ottenere la deduzione. Invece no. La deduzione è un diritto condizionato alla prova, e la fattura è il primo – e spesso unico – strumento per esercitarlo. Non è un documento accessorio, ma l’architrave della prova documentale. Deve essere scritta bene, con cura, con attenzione al dettaglio. Deve raccontare qualcosa che abbia senso, che sia verificabile, che sia coerente con le altre voci di bilancio e con l’attività dell’impresa.
Una fattura, in sostanza, deve spiegare tutto ciò che serve per capire chi ha fatto cosa, per chi, quando, come e perché. Se non lo fa, rischia di essere solo un pezzo di carta. E il fisco i pezzi di carta li guarda con diffidenza.
La superficialità, in ambito fiscale, ha sempre un prezzo. E quel prezzo può essere altissimo: imposte non dedotte, IVA non detraibile, sanzioni, interessi, contenzioso. Ma oltre al danno economico, c’è un danno reputazionale: la percezione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, che si stia giocando d’astuzia. E quella percezione può condizionare tutte le verifiche successive.
È per questo che la cultura della documentazione deve diventare un presidio aziendale, non un obbligo formale. Le fatture vanno scritte bene. I rapporti professionali vanno tracciati. I documenti vanno prodotti quando servono, non quando ormai è troppo tardi.
E allora, la prossima volta che ti trovi davanti a una fattura che dice solo “prestazioni professionali”, chiediti: davvero voglio correre questo rischio?
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