Il tema del welfare aziendale (e dei premi di risultato) è uno dei più sconosciuti alla comunità degli odontoiatri. Eppure sia per il dentista tradizionale sia per le srl odontoiatriche ci sono opportunità importanti da cogliere per abbassare il livello di tassazione, anche se le seconde, come sempre, sono favorite dalla normativa.
Welfare aziendale e Premi di risultato sono strumenti interessanti di risparmio fiscale con i quali anche il dentista può ridurre il livello di tassazione dei compensi destinati al personale dipendente dello studio, in misura lievemente diversa a seconda del layout giuridico adottato.
Dobbiamo necessariamente trattare i due temi insieme, perché il cosiddetto welfare aziendale, anche conosciuto sotto il nome di welfare sostitutivo o di welfare di produttività può esistere solo come alternativa alla corresponsione dei premi di risultato in modalità diversa da quella abituale e cioè in denaro. Il dipendente, in altri termini, può scegliere di ottenere tali premi, oltre che in denaro, parzialmente o totalmente, in prestazioni di welfare, le stesse prestazioni – si specifica, non tutte ma la gran parte di esse – di cui abbiamo già parlato nei due post precedenti di cui ai link seguenti:
Con questi e con il presente articolo ci proponiamo quindi di descrivere il complesso e articolato universo del welfare per dipendenti e assimilati, ricordando al lettore che tutte queste misure sono sempre valide per i lavoratori che conseguono redditi appartenenti al regime fiscale del lavoro dipendente e in casi più limitati anche per coloro che conseguono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, quali collaboratori e amministratori di società.
Il complesso sistema di misure che vengono ricondotte sotto il cappello del cosiddetto welfare aziendale si contraddistingue (esattamente come la disciplina fiscale speciale dei fringe benefit) per il fatto di concedere un trattamento speciale e contributivo in capo al dipendente e, sia pur in misura meno sensibile, anche ai datori di lavoro; lo stesso sistema può essere almeno idealmente diviso in due sottoinsiemi:
Tutte le misure che stiamo trattando, quindi, sono applicabili sia alle imprese che ai professionisti come anche ad altri datori di lavoro nel settore privato, studi professionali individuali e associati in qualsiasi forma giuridica costituiti (comprese quindi le stp) quali enti pubblici economici, associazioni culturali, politiche e sindacali, associazioni di volontariato, consorzi di bonifica e industriali e altri. Sono escluse invece le Amministrazioni pubbliche.
E’ tuttavia evidente (e lo si capirà meglio entrando nei dettagli) che tale possibilità resta alquanto sconosciuta e non sempre praticabile per gli studi professionali e i professionisti in genere, in considerazione del fatto che sono proprio le imprese quelle che, per struttura organizzativa e approccio contabile, più si avvicinano alla situazione ideale per fruire appieno di tutti questi benefici.
Tra i professionisti si potrà dunque e sempre trovare applicazione per queste misure, ma saranno di fatto e con tutta probabilità solo gli studi più grandi e con una organizzazione di un certo tipo quelli che ne fruiranno concretamente.
Questo perché per gli studi professionali la costruzione di una organizzazione vicina a quella di un’impresa resta una scelta ancora opportuna ma non obbligatoria e sono tanti gli studi piccoli e medi che non la implementano, per i più diversi motivi.
Tornando al focus dell’articolo, si tratta, nel complesso, di misure che si sposano perfettamente, come già ricordato, con più o meno forti agevolazioni fiscali e contributive, con le esigenze di coinvolgere i lavoratori nella organizzazione e reddittività aziendale e quindi con quei modelli di leadership condivisa e di delega di cui spesso parliamo in queste pagine.
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Per quanto riguarda i premi di risultato, va subito detto che la Legge di Stabilità 2016 (Legge 208/2015), dopo lo stop del 2015, ha reintrodotto il regime fiscale agevolato per i citati premi, rendendo così strutturale la detassazione, prevista negli anni precedenti (dal 2008 al 2014) in via sperimentale.
L’obiettivo del Legislatore era e rimane quello di ridurre, con riferimento alle voci retributive premiali, l’onere fiscale gravante sui lavori subordinati e, contestualmente, di estendere il più possibile la platea dei lavoratori beneficiari del regime fiscale agevolato.
Le novità, rispetto alle detassazioni del passato, si sostanziano nell’assoggettamento fiscale ad aliquota agevolata del 10%, sostitutiva di IRPEF e addizionali regionali e comunali, dei soli premi di risultato e delle somme derivanti dalla partecipazione agli utili dell’impresa da parte dei lavoratori (questa seconda voce non è ovviamente applicabile ai professionisti). Rimangono così escluse, a differenza di quanto accadeva prima con le misure temporanee già accennate, tutte quelle voci retributive aggiuntive (straordinari, maggiorazioni, indennità varie) non qualificabili come premi di risultato collettivo ma individuale – anche se riconducibili a maggiore produttività -, o come partecipazioni agli utili.
La regola generale, infatti, come anche già ribadito nei precedenti articoli sul tema già citati in apertura, per quanto riguarda i redditi da lavoro dipendente è ben diversa e, salvo eccezioni prescritte da norme di Legge come quelle che stiamo esaminando e che abbiamo già esaminato, è scolpita dal comma 1 articolo 51 del TUIR:
Il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.
Uno dei principali motivi per il quale, nel regime ordinario descritto dall’art. 51 comma TUIR, la incentivazione dei lavoratori risulta poco conveniente sia per il datore di lavoro che per il lavoratore, risiede proprio nel dettato di quest’articolo: infatti, a fronte di un esborso più o meno importante effettuato da parte del datore di lavoro a favore del dipendente meritevole, sia pur deducibile per il datore stesso, corrisponde un’entrata netta per il dipendente assai minore, sia perché tale somma deve subire la tosatura da Parte del Fisco (IRPEF e addizionali), come anche quella a fini previdenziali in misura piena.
Ne deriva che all’atto pratico tali forme di premio sui risultati ordinari e legati alla singola partecipazione del dipendente al risultato aziendale, risultano molto poco incentivanti persino agli occhi del dipendente stesso e favoriscono spesso forme, ovviamente illegali, di remunerazione in nero.
Questa realtà non impatta solo sui i rapporti tra le parti, ma si ripercuote anche sul mancato efficientamento dell’intero sistema produttivo, ragion per cui il Legislatore ha ritenuto di dover escogitare regole speciali per queste forme di remunerazione legate ai risultati, anche al fine di incentivare la ricerca di una crescente produttività nel settore economico privato.
Non potendo farlo per i premi individuali legati all’apporto del singolo dipendente (anche al fine di non eludere il preciso dettato della norma e la sua ratio) il Legislatore ha deciso di coniare un regime speciale per la premialità legata ai risultati generali dell’azienda; una premialità cui possono e devono accedere tutti i lavoratori dell’azienda medesima.
Dobbiamo subito e meglio specificare cosa si intende con premialità dei risultati.
Benché la norma si applichi principalmente ai risultati collettivi dell’azienda e a regole premiali che devono riguardare tutti i dipendenti, l’Agenzia delle Entrate, con la sua Circolare n. 5/E/2018, ha chiarito che, fermo restando il conseguimento da parte dell’azienda (e non del singolo lavoratore) di un risultato incrementale in termini di maggiore produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione
il premio può anche essere differenziato per i dipendenti sulla base di criteri di valorizzazione della performance individuale; anche in tale ipotesi non viene meno la possibilità di assoggettare il relativo importo ad imposta sostitutiva del 10%.
Quando parliamo di premio di risultato soggetto ad imposta sostitutiva, non parliamo di un premio il cui importo è graduato in base all’entità dell’obiettivo raggiunto dal singolo dipendente (che resterà sempre praticabile come voce retributiva aggiuntiva ma comporterà anche l’applicazione piena di questo premio alla formazione del reddito di lavoro autonomo del dipendente), ma all’obiettivo raggiunto dall’azienda. Ciò non toglie che sarà possibile graduare questo premio ai singoli dipendenti, differenziando il premio in ragione:
Questa regola di erogazione almeno potenzialmente collettiva dei premi di risultato – pur ammettendo una certa gradualità dell’erogazione secondo i principi appena indicati – risulterà ancora più severa nel caso in cui tali premi – su richiesta del lavoratore – vengano erogati non in denaro ma sotto forma di prestazioni di welfare e in particolare per tutte quelle prestazioni per le quali l’art. 51 TUIR richiede come condizione l’erogazione alla generalità o a particolari categorie di dipendenti.
Torneremo su questi aspetti più avanti, nel paragrafo dedicato al welfare di produttività.
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A decorrere dal periodo di imposta 2017, il limite massimo agevolabile per i premi di risultato è stato fissato ad € 3.000, elevabile a 4.000 (tetto, quest’ultimo applicabile solo ai contratti collettivi aziendali e territoriali stipulati entro il 24 aprile 2017) nell’ipotesi di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro.
All’atto pratico, i nuovi contratti stipulati post 24 aprile 2017, conservano il predetto limite ad € 3.000 cui tuttavia si aggiunge un’agevolazione contributiva che consiste nella riduzione di 20 punti percentuali dell’aliquota contributiva (aliquota IVS) a carico del datore di lavoro, su un massimo imponibile di € 800 e nella totale decontribuzione a favore del lavoratore, ma sul medesimo massimo imponibile di € 800.
Specifico cosa si intende per coinvolgimento paritetico dei lavoratori, visto che l’abbiamo citato e anche se questa fattispecie appare difficilmente applicabile al professionista che esercita come tale e non come imprenditore.
In base a quanto sancito dal comma 189 dell’art. 1 della Legge 28 dicembre 2015, n. 208,
il coinvolgimento paritetico dei lavoratori è uno strumento realizzato mediante schemi organizzativi che permettono di coinvolgere in modo diretto e attivo i lavoratori, da un lato, nei processi di innovazione e di miglioramento delle prestazioni aziendali, con incrementi di efficienza e produttività, e dall’altro, nel miglioramento della qualità della vita e del lavoro.
In base alla normativa, il coinvolgimento paritetico dei lavoratori deve essere formalizzato a livello aziendale mediante un apposito Piano di Innovazione. Tale piano è elaborato dal datore di lavoro, secondo le indicazioni del contratto collettivo, oppure mediante comitati paritetici aziendali.
Il Piano di Innovazione deve riportare:
Inoltre, il Piano può contenere progetti di innovazione già avviati, dai quali si attendono ulteriori specifici incrementi di produttività, nonché progetti da avviare.
Quello che è importante sapere è che in presenza di tale citato modello di coinvolgimento paritetico, aumentano i vantaggi sia per il datore che per il prestatore in termini fiscali e contributivi.
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Tornando al tema principale, quello dei premi di risultato, è stato anche stabilito che a tale regime agevolato possano aderire solo lavoratori dipendenti del settore privato che, nell’anno precedente a quello di percezione del premio, siano stati titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore ad 80.000 € annui. Non tutti i dipendenti ma solo quelli che rispettano questo requisito possono accedere a questo requisito speciale. Si tratta comunque della stragrande maggioranza dei lavoratori in regime di dipendenza.
Inoltre, ai fini della detassazione, è altresì richiesto che la contrattazione collettiva nazionale e territoriale – condizione essenziale – facciano riferimento a tali premi di risultato (nel nostro ambito lo fa esplicitamente il Contratto collettivo per gli studi Professionali siglato dal SIASO e dal Sindacato di Odontoiatria Democratica, cui abbiamo già accennato e il contratto integrativo territoriale che ha dato attuazione a quello collettivo, integrandolo con la precisa indicazione delle modalità di calcolo degli incrementi di cui sopra) e subordinatamente al raggiungimento degli incrementi di produttività, reddittività, qualità, efficienza ed innovazione degli stessi prefissati.
E’ stato il DM 25 marzo 2016, attuativo della Legge 208/2015, al comma 187, a stabilire questa riserva per la contrattazione collettiva: l’erogazione delle somme in parola infatti deve avvenire
in esecuzione dei contratti aziendali o territoriali di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.
In altre parole, parliamo della contrattazione collettiva di secondo livello. Tale articolo 51 infatti stabilisce che i contratti aziendali o territoriali devono essere necessariamente stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero da una delle loro rappresentanze sindacali unitarie (RSA) o dalla loro rappresentanza sindacale unitaria (RSU).
Qui è necessario specificare meglio, a maggior ragione con stretta relazione al settore odontoiatrico.
L’accordo può essere sottoscritto anche da una sola associazione sindacale e non necessariamente da una pluralità di esse. E’ stato anche chiarito che in caso di assenza di rappresentanza sindacali aziendali (RSA, RSU), l’azienda potrà comunque recepire il contatto collettivo territoriale di settore e conseguentemente, se ricorrono le altre condizioni, applicare l’imposta sostitutiva ai premi di risultato erogati in funzione di tale contratto territoriale.
In mancanza di tale contratto territoriale nel proprio settore, l’azienda potrà adottare il contratto territoriale di un altro settore che ritiene più aderente alla propria realtà (anche di un’altra Regione), dandone comunicazione ai lavoratori. Quest’ultimo contratto poi sarà recepito anche per la regolamentazione di altri aspetti concernenti il rapporto di lavoro.
Una Circolare dell’Agenzia delle Entrate (n. 28/E/2016), successiva al DM 5 marzo 2016, ha stabilito ulteriori condizioni e chiarimenti utili a individuare le caratteristiche essenziali per usufruire della detassazione agevolata su questa tipologia di premi.
In mancanza del rispetto di queste condizioni, il premio di risultato conserva la sua validità ovviamente, ma non potrà essere detassabile.
E’ quindi di vitale importanza che questa normativa di primo e secondo livello sia bene tenuta presente dalle controparti sindacali nel momento in cui vanno a concepire e a stilare la contrattazione collettiva territoriale. In mancanza di indicazioni precise, infatti, mancano i presupposti per l’applicazione di tale opportunità o in alternativa un consistente rischio di perdita di centralità dei sindacati stessi, potendo il ddl – come già rilevato – utilizzare contrattualistica esterna al settore e raggiungere gli stessi risultati facendo a meno di loro. Ovviamente, lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale anche per i datori di lavoro nel momento in cui vanno a redigere e stipulare i contratti aziendali tra le parti.
Il comma 1, art. 2 del DM 25 marzo 2016 precisa poi che:
per premi di risultato si intendono le somme di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione.
Nella citata Circolare 28/2016, l’AdE ha specificato che tale variabilità non richiede necessariamente la gradualità dell’erogazione del premio in funzione del grado di raggiungimento dell’obiettivo. Obiettivo che deve essere misurabile, misurato nel concreto ed effettivamente conseguito ai fini dell’erogazione del premio. Ovviamente, l’AdE specifica anche che è sufficiente il raggiungimento di tale obbiettivo con riguardo anche solo ad uno dei criteri (efficienza, redditività, etc.).
Tutto quanto detto finora è pienamente applicabile anche ai datori di lavoro che esercitano l’attività in qualità di professionisti. E quindi, è applicabile, in ultima analisi da tutti i dentisti titolari di studio professionale o associato o di stp costituita in qualunque forma societaria ammessa dal codice civile e persino da coloro che si limitano a collaborare in strutture sanitarie altrui, sempreché lo facciano con l’ausilio di dipendenti in rapporto di subordinazione. Ovviamente, la stessa disciplina è pienamente applicabile anche a tutti quei professionisti odontoiatri che hanno deciso di trasformare la propria attività da professionale ad imprenditoriale, sotto forma di impresa individuale o con qualunque forma societaria.
Si specifica che nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, ai fini della applicabilità della normativa in parola, rientrano sia i lavoratori a tempo indeterminato come anche quelli a tempo determinato.
Rimangono esclusi dalla normativa tutti coloro che sono titolari di redditi assimilati al lavoro dipendente (collaboratori coordinati e continuativi, tirocinanti, stagisti, amministratori di società, etc.) di cui all’art. 50, comma 1, lettera c-bis del TUIR. Stesse considerazioni devono valere ovviamente per tutto il welfare di produttività conseguente alla trasformazione della modalità di corresponsione dei citati premi (prestazioni di welfare contro premi in denaro).
Ai fini dell’applicazione del beneficio fiscale al premio di risultato è necessario che, nell’arco di tempo congruo e definito nell’accordo, siano stati realizzati tali incrementi stabiliti nel contratto di secondo livello e che tali incrementi possano essere verificati attraverso indicatori numerici o di altro genere definiti dallo stesso. Tali incrementi, quindi devono essere realizzati, verificabili e misurabili per poter dar luogo alla detassazione. La definizione di tali criteri di misurazione e verifica dei citati incrementi è demandata alla contrattazione collettiva di secondo livello.
Il DM 25 marzo 2016 individua una serie di indici che possono essere utilizzati ai già menzionati fini, quali: volume della produzione/numero dei dipendenti; fatturato/numero di dipendenti; indici di soddisfazione del cliente; lavoro agile (smart working); modifiche ai regimi di orario; rapporto costi effettivi/costi previsti; riduzione assenteismo; riduzione dei consumi energetici e altri.
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Passiamo ora ad esaminare una ulteriore tipologia di agevolazione che si affianca a quella speciale dei premi di risultato ma che è applicabile solo alle imprese e non ai professionisti: quindi alle già citate somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa. Anche per queste, similmente a quanto prescritto per i premi di risultato, è applicabile a favore del dipendente la tassazione sostitutiva IRPEF + addizionali con aliquota al 10%.
L’art. 3 del DM 25 marzo 2016 specifica che:
per somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili si intendono gli utili distribuiti ai sensi dell’art. 2102 del codice civile.
L’Agenzia delle Entrate, nella già citata Circolare 28/E/2016, ha specificato che non deve intendersi come tale l’attribuzione di quote di partecipazione al capitale sociale, ma unicamente una diversa modalità di erogazione della retribuzione, prevista dal titolo V del Cod. Civ. nell’ambito della disciplina del rapporto di lavoro, secondo la quale il prestatore di lavoro ben può essere retribuito in tutto o in parte anche con partecipazione agli utili (netti di impresa risultanti da bilancio regolarmente approvato e, se richiesto, pubblicato).
SI tratta di una misura distinta e separata rispetto ai premi di risultato, che può quindi coesistere con essi – alle condizioni indicate dalla Legge – o vivere di vita propria. Ovviamente, la principale differenza risiede nel fatto che i premi di risultato – a fronte di effettivi e misurati incrementi di produttività, reddittività etc – possono essere distribuiti anche se l’impresa fosse in perdita.
La condizione richiesta di inserimento nei contratti collettivi nazionali e territoriali permane tuttavia anche per questa partecipazione agli utili.
Dopo aver effettuata questa disamina sul premio di risultato e assimilati, ci interessa ora addentrarci in altre misure che a rigore configurano il vero e proprio welfare aziendale.
Con il termine welfare aziendale si intende l’insieme di beni, servizi e prestazioni che l’azienda decide di erogare al fine di migliorare la qualità della vita e il benessere dei dipendenti e dei loro familiari.
Circostanza comune a tutte queste misure è quella di ricomprendere tutti quei trattamenti che la normativa fiscale (art. 51 del TUIR) consente di escludere dalla determinazione del reddito imponibile del lavoratore e per i quali stabilisce, ai predetti fini, regole agevolative.
Quindi, ancora una volta abbiamo una normativa che si prefigge di rendere più forti i citati incentivi per il fatto di renderli pieni e non decurtati da una tassazione piena nei confronti dei lavoratori.
Ovviamente, tali misure restano pienamente deducibili dai redditi di impresa del datore di lavoro, ma la novità sta nel fatto che risultano maggiormente incentivanti e comunque più incisivi nell’ambito reddituale del lavoratore.
Diamo una semplice definizione di welfare aziendale:
Con il termine welfare aziendale si intende l’insieme di beni, servizi e prestazioni che l’azienda decide di erogare al fine di migliorare la qualità della vita e il benessere dei dipendenti e dei loro familiari.
Circostanza comune a tutte queste misure è quella di ricomprendere tutti quei trattamenti che la normativa fiscale (art. 51 del TUIR) consente di escludere dalla determinazione del reddito imponibile del lavoratore e per i quali stabilisce, ai già menzionati fini, regole agevolative.
Quindi, ancora una volta abbiamo una normativa che si prefigge di rendere più forti i citati incentivi per il fatto di renderli pieni e non decurtati da una tassazione piena nei confronti dei lavoratori.
Ovviamente, tali misure restano pienamente deducibili dai redditi di impresa del datore di lavoro, ma la novità sta nel fatto che risultano maggiormente incentivanti e comunque più incisivi nell’ambito reddituale del lavoratore.
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Una trattazione abbastanza esaustiva di queste prestazioni è contenuta nel nostro articolo sui Fringe Benefit .
Possiamo qui per brevità ricordare che si considerano prestazioni di welfare aziendale i contributi versati dal datore di lavoro a favore del lavoratore per:
La concreta e precisa composizione del paniere di detti servizi messo a disposizione dei lavoratori è deciso a piena discrezione dell’azienda ed eventualmente delle organizzazioni sindacali dei lavoratori laddove fossero coinvolte.
Spesso questa tipologia di servizi viene messo a disposizione dai cosiddetti Enti Bilaterali, e cioè quelle particolari istituzioni cui partecipano i sindacati dei lavoratori e quelli della parte datoriale, fondati allo scopo di fornire concreta attuazione a specifiche pattuizioni contrattuali incluse nei contratti collettivi nazionali, che prevedono appunto la connessione ai servizi erogati da questi Enti.
Si tratta del cosiddetto welfare aggiuntivo perché le relative prestazioni – regolate nella contrattazione collettiva nazionale in genere – vanno ad aggiungersi – spesso per espressa riserva di legge, come abbiamo già spiegato in precedenti articoli, a quelle stabilite dalla Legge stessa.
La definizione degli importi da destinare a welfare, invece, può essere collegata alla performance aziendale e persino individuale del singolo lavoratore come anche può essere stabilita da disposizioni contrattuali (contratti collettivi nazionali, territoriali, aziendali e regolamenti interni).
Tuttavia, va subito specificato che ai fini di usufruire della tassazione agevolata di cui si dirà appresso, un requisito trasversale richiesto è che le stesse misure siano rivolte alla generalità dei dipendenti ovvero a categorie di dipendenti.
Il Ministero delle Finanze ha chiarito infatti nella Sua Circolare 326/1997 che per generalità di dipendenti o categorie di dipendenti si deve intendere che tale prassi aziendale deve essere riferita, se non a tutti i dipendenti, comunque a gruppi omogenei di questi (tutti i dirigenti, tutti quelli che hanno un certo livello ed una certa qualifica, ecc.).
E’ quindi evidente che la detassazione non può favorire un welfare aziendale ad personam. Siamo ancora e quindi nell’ambito di un welfare aziendale aggiuntivo.
Esiste però una ulteriore forma di welfare che potremmo definire sostitutivo ma che è legato a scelte discrezionali operate non dal datore di lavoro ma dal lavoratore stesso.
In quest’ultimo caso, che è quello che ai fini del presente articolo più interessa, infatti, è il lavoratore che decide di “scambiare” il proprio premio di risultato detassabile– nel caso in cui lo abbia meritato, che lo stesso premio sia configurabile come tale e che ne abbia infine maturato il diritto – con una prestazione di tipo welfare aziendale.
Potremmo quindi avere casi in cui al welfare aggiuntivo deciso dal datore vada ad aggiungersi (magari per gli stessi servizi come per altri) un welfare sostitutivo o di produttività deciso dal lavoratore.
Tuttavia, per permettere al lavoratore di usufruire di questa possibilità, è anche richiesto il rispetto congiunto di queste ulteriori condizioni:
Se questo è caso, il Legislatore ha deciso per questa opzione un regime fiscale ancor più agevolato di quello applicabile per i premi di risultato riscossi in denaro per una rosa ristretta di servizi di welfare e in particolare ha stabilito che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente e non sono neanche assoggettati all’imposta sostitutiva del 10% (comma 184-bis, art. 1, Legge n. 208/2015, inserito ex novo dalla Legge 232/2016 ):
qualora costituiscano uno scambio, per scelta del lavoratore, con un premio in denaro detassabile.
Va ancora specificato che non tutte le misure di welfare previste dall’art. 51 TUIR comportano la tassazione agevolata quando prescelte per la trasformazione di un premio di risultato: in particolare è opportuno precisare che le somme e i valori di cui al comma 4 dell’art. 51 TUIR concorrono a formare interamente il reddito del dipendente e non accedono quindi ad alcuna tassazione agevolata. Quindi non è possibile trasformare il premio di risultato in concessione ad uso promiscuo o personale dell’auto aziendale, o in concessione di prestiti da parte del datore di lavoro o nella messa a disposizione al dipendente di un alloggio, perlomeno se lo si fa contando sull’imposta sostitutiva.
Oltre alle forme già illustrate, nel welfare possono rientrare anche altre forme, quali:
Si tratta di un complesso molto corposo di casi la cui analisi particolare risulta esorbitante agli scopi di quest’articolo. Quello che più conta in questa sede è l’intento di aprire una finestra su una ulteriore possibilità di fruire di detassazioni e decontribuzioni, che risultano persino utili a incentivare l’efficientamento e la riorganizzazione per risultati di cui tutte le aziende e tutti gli studi professionali hanno sempre più bisogno e per di più in una modalità molto potente, perché spinta dalla base e cioè dal quadro dipendente.
Al fine di chiarire eventuali dubbi che possono cogliere il lettore dopo la lettura del presente articolo e di quelli precedenti e ad esso correlati, già citati in apertura, è appena il caso di chiarire come il welfare di produttività o aggiuntivo si inserisce e differenzia rispetto alle altre forme di welfare di cui ci siamo già occupati.
Noi non abbiamo nel nostro ordinamento giuridico una nozione legislativa di welfare aziendale ma una prassi consolidata che si sostanzia nelle iniziative attuate dalle aziende e dai ddl in genere a favore dei propri dipendenti. Tali iniziative, come abbiamo già visto, possono essere implementate sulla base di accordi collettivi ovvero per decisione unilaterale e si prefiggono sempre come ultimo scopo quello di accrescere il benessere personale degli stessi lavoratori e dei loro familiari.
Nella pratica abbiamo un welfare tradizionale e aggiuntivo che prevede l’integrazione di beni e servizi che vanno ad aggiungersi alla retribuzione ordinaria del lavoratore e un welfare di produttività o sostitutivo che si caratterizza per il fatto di essere erogato ai lavoratori per scelta degli stessi in sostituzione di un premio di produttività detassabile.
Nel primo caso quindi la scelta di erogare i fringe benefit è sempre e comunque del Datore di Lavoro, mentre nel secondo è del lavoratore.
Tra le due forme esistono comunque dei requisiti in comune.
Entrambi devono per forza rivolgersi alla generalità dei dipendenti o a loro particolari categorie. Possono essere erogati mediante documenti di legittimazione, in formato cartaceo ed elettronico, indicanti un valore nominale e possono anche essere gestiti dall’azienda per il tramite di piattaforme digitali.
Nel caso del welfare di produttività ovviamente non bisogna confondere la natura con l’applicazione. E’ chiaro che alcuni tra i dipendenti potranno avere un premio di ammontare diverso e quindi anche una prestazione di welfare dal valore normale diverso, in funzione di quella gradazione dei premi di risultato a condizioni particolari che riguardano ciascuno di essi. Ciò non toglie che a tutti o ad almeno a particolari categorie degli stessi deve essere data la possibilità di concorrere ad armi pari per i miglioramenti delle caratteristiche aziendali richiesti dalla Legge e per la massimizzazione dei premi stessi.
Come ulteriore elemento di distinzione tra le due forme di welfare possiamo poi anche ricordare il fatto che il primo non prevede altra possibilità che quella di usufruire delle prestazioni in natura e mai di forme di remunerazione in denaro, mentre il secondo permette di trasformare una prestazione in denaro in una in natura.
Ancora, dobbiamo ricordare che se la fonte istitutiva del welfare tradizionale o aggiuntivo non è un obbligo contrattuale assunto in sede negoziale da parte del datore di lavoro ma un atto unilaterale dello stesso, non esiste alcuna possibilità di dedurre il valore normale di tali prestazioni dal reddito di impresa e da quello di lavoro autonomo del ddl stesso, se non in percentuale minima.
E’ la natura negoziale dell’atto istitutivo di questa forma di retribuzione quella che lo rende deducibile per il ddl.
Come abbiamo già visto, tale atto negoziale può essere incarnato sia in un contratto collettivo nazionale come anche territoriale; e tuttavia può essere anche legato alla concreta attuazione di un regolamento aziendale che obblighi il ddl a tenere ferme le condizioni di erogazione di queste forme di retribuzione per un periodo di tempo ben preciso e definito e a non poterle modificare a proprio piacimento, come invece potrebbe capitare in un atto unilaterale puro.
Nel caso del welfare di produttività e quindi del secondo tipo rispetto alla dicotomia in discorso, valgono poi considerazioni altrettanto importanti, che tengono conto anche della recente prassi amministrativa dell’AdE.
In particolare, nella risposta ad interpello n. 904-791/2017, fornita dalla Direzione Regionale Entrate della Lombardia a commento di un piano di welfare aziendale a carattere premiale ed incentivante, la cui erogazione era subordinata al raggiungimento di determinati obiettivi di performance aziendale ed individuale, così come era commisurato agli stessi obiettivi l’entità del credito welfare di ciascun lavoratore coinvolto, la DRE riconosce la piena legittimità del piano, affermando che:
sussistono, in capo alla società istante, i presupposti per escludere da imposizione sul reddito di lavoro dipendente il valore dei servizi offerti alla generalità dei propri dipendenti rientranti, astrattamente, nelle fattispecie esentative di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 51 del TUIR.
A complicare un quadro che sembrava chiarissimo, ci si è messa l’Agenzia delle Entrate che, nella Risoluzione n. 55/2020 ammette le fattispecie esentative di cui sopra, sempreché la ripartizione del credito welfare non trovi giustificazione nella valutazione dell’attività lavorativa del dipendente, sia singolarmente che in gruppo.
Il che costituisce una interpretazione alquanto singolare, che rischia di vanificare gli intenti reali del legislatore. Perché seguendo questa linea di pensiero dovrebbero essere esclusi dall’ambito di welfare di produttività tutte quelle premialità che si prefiggono di incentivare le performance del singolo lavoratore e persino di gruppi tra questi attraverso quella gradazione dei premi di risultato cui si è fatto cenno in precedenza.
Ovviamente, considerazioni analoghe non possono valere per i premi di risultato in denaro, stante le formulazioni di legge in merito, ma il fatto stesso che l’AdE ponga tali limitazioni quando quelle prestazioni vadano ad essere convertite in prestazioni di welfare toglie inevitabilmente forza anche alla disciplina dei premi di risultato e obbliga il ddl a porre particolare attenzione alla costruzione di piani di welfare premiale, al fine di evitare che i benefit assegnati ai lavoratori possano interamente concorrere alla formazione del reddito di lavoro dipendente degli stessi. Se la convertibilità dei premi in prestazioni di welfare è ab origine una possibilità ammessa nell’accordo, appare evidente che sarà più prudente evitare tutte quelle forme di gradazione del premio alla peculiare situazione del singolo dipendente che pure l’AdE ha ammesso come pratiche lecite ai fini della disciplina speciale di imposizione dei redditi in capo ai dipendenti nel caso di premi in denaro.
In altri termini, per essere interamente deducibili per il datore di lavoro e soggetti ad imposta sostituiva per il dipendente (o addirittura, per non produrre reddito di lavoro dipendente in capo allo stesso nei tre casi particolari per cui è la legge a stabilirlo e che abbiamo già illustrato in precedenza) le prestazioni sostitutive di welfare erogate per scelta del dipendente in sostituzione dei premi di risultato devono avere origine negoziale e non essere agganciate al lavoro di particolari dipendenti o gruppi di essi. Devono poi rientrare nell’elenco più ristretto rispetto a quello previsto dall’art. 51 per cui è prevista l’imposta sostitutiva (o l’esenzione) in capo al dipendente.
I piani di welfare aziendale implementati in diretta attuazione dell’art. 51 TUIR o del CCNL o territoriale, che consentono l’integrale deduzione dal reddito di impresa o di lavoro autonomo per il ddl e che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente del lavoratore né ai fini fiscali e nemmeno a quelli previdenziali debbono invece rispettare le seguenti condizioni:
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Ci sia permesso concludere con una considerazione di prospettiva generale che in qualche modo riguarda direttamente, almeno sotto il profilo concorrenziale, il settore odontoiatrico e sanitario in genere.
Il fatto che alcune prestazioni di welfare di produttività, quali i fondi pensione complementari e i contributi a casse di assistenza sanitaria integrativa del SSN, in particolare per questi ultimi, è un elemento di novità che non può non farci riflettere sulle probabili conseguenze di questa potente leva fiscale messa a disposizione delle aziende e dei propri dipendenti.
Di fatto si è aperta la strada per uno sviluppo della pazientela direttamente assicurata con quelli che noi conosciamo come Terzi Paganti, i quali hanno e continueranno ad avere un rapporto più stretto e diretto con i Gruppi che gestiscono Casa di Cura Private e grandi poli sanitari polispecialistici in genere. Al momento, questi Terzi paganti che si convenzionano con questi Grandi Gruppi Sanitari ammettono spesso come unica modalità quella della convenzione diretta (anche se non mancano iniziative parlamentari tese a vietare questa forma di convenzionamento come unica scelta).
Non pare quindi affatto arbitrario prevedere che nei prossimi anni e decenni il numero di pazienti convenzionati con questi Terzi Paganti tenderà inevitabilmente a crescere in misura considerevole e questa è una realtà di cui gli odontoiatri in particolare non possono non tenere conto.
E’ assai probabile, per essere ancora più espliciti, che ogni odontoiatra veda salire nel tempo la quota di propri pazienti che ha una convenzione con uno di questi Terzi Paganti e che non è quindi disposto a pagare le sue prestazioni in regime di privato puro.
Si tratta di una realtà di cui non si può non tenere conto anche nel momento in cui si decide di accettare o meno un numero più o meno corposo di convenzioni con gli stessi.
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