Le spese di ristrutturazione dell’immobile adibito a struttura sanitaria costituiscono una nota dolente per il dentista. Non rileva infatti solo e semplicemente il loro costo ma anche il regime della deduzione dello stesso e le imposte indirette ad esse legate. Esiste tuttavia un modo di contenere l’esborso complessivo ad esse legato ma dipende dalla tipologia di immobile e da quella dello specifico intervento di ristrutturazione oltre che dalla forma giuridica di esercizio dell’attività. Dalla lettura di questo articolo il dentista potrà ottenere tutte le informazioni utili per contenere queste spese nella misura ottimale.
All’immobile strumentale per il dentista abbiamo dedicato un articolo L’immobile strumentale di proprietà per la struttura sanitaria odontoiatrica | Dentista Manager e appositi spazi nei nostri corsi.
E abbiamo anche detto che nella gran parte delle Regioni d’Italia non è possibile – salvo peculiari eccezioni – condurre uno studio professionale in un immobile con categoria catastale e destinazione urbanistica di tipo abitativo.
Quello che è invece importante sapere è che nessuna Regione permette di condurre in un immobile abitativo un ambulatorio odontoiatrico.
Ne deriva che la gran parte dei dentisti operanti in Italia ed intenzionati ad avviare una nuova attività farebbero meglio ad acquisire un immobile di destinazione catastale e urbanistica che appartenga alla categoria degli strumentali per natura (A/10 in primis). Discorso simile vale per tutti quei dentisti che hanno già raggiunto o che mostrano di poter presto raggiungere le soglie di convenienza per il passaggio alla veste imprenditoriale.
Un discorso a parte potrebbe riguardare tutti quei dentisti che hanno già acquisito un immobile di tipo abitativo e che oggi si apprestano a trasformare la propria attività in forma imprenditoriale, quasi sempre attraverso la costituzione di una s.r.l. di gestione di un ambulatorio. Costoro sono obbligati a modificare la destinazione d’uso dell’immobile.
Come vedremo questi aspetti si rivelano di fondamentale importanza per comprendere la modalità ottimale di sostenere le spese di ristrutturazione di questi immobili strumentali, sia sotto il profilo delle imposte dirette che di quelle indirette.
Le innovazioni legislative che hanno interessato la normativa urbanistica nel periodo 2015-2020 hanno in realtà permesso di attuare con relativa facilità cambi di destinazione d’uso “pesante” (da abitativo a direzionale, ad esempio).
Prima di queste innovazioni, il cambio di destinazione d’uso “pesante” tra categorie diverse ( da abitativo a direzionale o da abitativo a commerciale) richiedeva un titolo abilitativo quale il permesso a costruire, un atto quest’ultimo di natura discrezionale. Le competenti Autorità erano quindi libere di rifiutarlo, sulla base della pianificazione urbanistica attuata attraverso il singolo piano regolatore dello specifico comune preso in considerazione e nel rispetto della normativa urbanistica dettata dalla propria regione di appartenenza oltre che delle normative nazionali aventi stretta attinenza con la ristrutturazione edilizia.
Detta in parole semplici, ci potevano essere casi in cui quel Piano aveva già destinato alcuni immobili a specifici utilizzi e quindi ben avrebbero potuto i competenti uffici comunali non ravvisare alcuna necessità di aumentare il numero degli immobili strumentali per natura rispetto a quelli già previsti e realizzati in quella specifica zona. Esistevano ed esistono ancora, poi, alcune zone (centri storici o zone contigue agli stessi) in cui tale tipo di variazione veniva – e viene ancora osteggiata – con particolare enfasi, principalmente al fine di evitare interventi di ristrutturazione più o meno pesanti che in quel tipo di immobili è considerata di difficile – e comunque poco opportuna – realizzazione. Nella gran parte dei casi, infatti, in questo tipo di immobile occorre spesso porre mano ad interventi anche sulle parti comuni al fine di realizzare l’abbattimento delle barriere architettoniche – questione particolarmente vincolante soprattutto in relazione all’autorizzazione all’esercizio per gli ambulatori – il che spiegava – e continua a spiegare, come vedremo appresso – la speciale ritrosia nel concedere cambi di destinazione d’uso di tale genere.
Dopo le innovazioni legislative del periodo 2015-2020, le pratiche per il cambio di destinazione d’uso degli immobili e in particolare di quelli da adibire ad uso sanitario sono state modificate in melius, almeno dal punto di vista del potenziale beneficiario e in particolare del dentista; nel senso che è stato permesso di attuare questi cambi di destinazione d’uso non più attraverso il permesso a costruire, ma anche tramite SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). La questione non è di poco conto, in quanto la SCIA assume la natura di una autocertificazione che non può essere rifiutata, perlomeno se il richiedente ha presentato tutta la documentazione richiesta e un esperto abilitato ha certificato che saranno comunque rispettate tutte le normative che hanno diretta attinenza al progetto in questione.
Il permesso a costruire, quale atto discrezionale e quindi anche rifiutabile, dal canto suo, ha subito una relativa semplificazione ma è comunque sopravvissuto per i cambi di destinazione d’uso attuati su immobili abitativi situati nei centri storici o nelle cosiddette zone omogenee A, e cioè quelle limitrofe a detti centri storici. Le quali ultime sono chiaramente individuate all’interno di ciascun piano regolatore comunale.
La scelta migliore – e lo abbiamo ripetuto in diverse occasioni – per il dentista che si appresta a fondare una nuova struttura sanitaria – e poco importa se si tratti di studio o di ambulatorio – è sempre quella di scegliere immobili che nascono come strumentali per natura, anche perché questa scelta facilita enormemente le cose quando si dovesse decidere di passare da studio ad ambulatorio.
Una volta stabilito quale sia l’immobile più adatto da scegliere, resta da decidere con quale forma acquisirlo. Sappiamo già, per averne parlato a più riprese, che la forma migliore è sempre quella dell’impresa sanitaria gestita da una società di capitali e in particolare della s.r.l.
Il dentista che opera in forma professionale non ha altra strada per poter dedurre il costo dell’immobile che quella di acquisirlo in locazione o tramite leasing immobiliare (procedura non proprio semplice e veloce da attuare). Se lo acquista in qualità di professionista o di privato, in qualsiasi forma, non solo non può dedurne il costo ma deve persino pagarci le imposte. Non potendo dedurre il costo del bene principale, non potrà nemmeno dedurre le imposte indirette legate all’acquisto e tantomeno le spese di ristrutturazione effettuata sullo stesso immobile e tantomeno e le relative imposte indirette.
Tutto quello che non potrà fare in qualità di professionista, lo potrà fare se invece acquisisce lo stesso immobile tramite un’impresa sanitaria. In particolare, se utilizza una s.r.l. o una s.r.l.-s.t.p.
Per comprendere quale impatto abbia sui conti del dentista questa indeducibilità allargata è appena il caso di quantificare, per quanto possibile, quell’impatto.
Intanto è appena il caso di specificare che ben difficilmente la ristrutturazione di un immobile a fini sanitari e in particolare odontoiatrici può costare meno di 1000 € al metro quadro. Un immobile di 120 mq comporterà un investimento per ristrutturazione almeno pari a 120.000 €. Cui vanno aggiunte le imposte indirette, di cui ci occuperemo più avanti. Possiamo anticipare già ora che l’aliquota IVA cui saranno sottoposte potrà essere, a seconda della tipologia di intervento effettuato, quella ordinaria al 22% oppure quella ridotta al 10%.
Quanto ai costi dell’acquisto dell’immobile, non è ovviamente possibile indicare una cifra precisa, perché la stessa dipende da troppe variabili. Il range di spesa per un immobile di 120 o più metri quadri è dunque molto ampio, potendo andare da 250.000 € ad 1.000.000 €. Cui vanno aggiunte, anche in questo caso, le imposte indirette.
Ovviamente andrebbero calcolate anche le spese per l’allestimento della struttura sanitaria (attrezzature odontoiatriche, mobilia, hardware e software, magazzino, etc.). Non ci occuperemo di questo tema perché non rientra nell’oggetto dell’articolo.
Tornando all’acquisto dell’immobile, si fa presente che le imposte indirette variano a seconda della tipologia di immobile e di soggetto venditore. Chi compra da privati immobili strumentali per natura sconta imposte di registro proporzionali all’aliquota pari al 9%, calcolata sul valore venale dell’immobile stesso.
Chi compra da soggetti obbligati ad applicare l’IVA o che optano per l’applicazione della stessa può arrivare a pagare imposte pari ad un’aliquota complessiva vicina al 26%, da calcolare sempre sul valore venale dell’immobile.
Con la s.r.l. sia le spese di acquisto che quelle per imposte indirette legate a quest’ultimo come anche le spese di ristrutturazione e le relative imposte indirette saranno ammortizzabili secondo le regole valide per il bene principale e cioè l’immobile. Quindi in 33 anni.
A questo punto, possiamo entrare nel vivo dell’oggetto di questo articolo. Quale sarà l’aliquota IVA applicabile alla ristrutturazione dell’immobile stesso?
Tale aliquota dipende strettamente dalla tipologia di intervento attuato su quello specifico immobile e, ovviamente, sarà fissata in misura del tutto indipendente dalla forma giuridica utilizzata dal dentista per l’esercizio della propria attività.
Sia che si tratti di professione come di impresa, l’aliquota rimane la stessa. Quello che semmai cambia è il regime fiscale applicabile, che in un caso prevede la deducibilità e nell’altro l’indeducibilità (salvo eccezioni già ricordate e altre che riguardano coloro che hanno acquistato l’immobile in anni precedenti al 2010).
La normativa fiscale è strettamente legata a quella urbanistica – e in particolare alla definizione delle diverse tipologie di interventi che in senso lato rientrano nel concetto generale di ristrutturazione – prevista dal Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) , come novellato da successivi interventi normativi).
L’art. 3 del citato DPR prevede sei categorie di queste, di cui almeno quattro di nostro più diretto interesse: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, interventi di nuova costruzione, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica.
Vediamole una per una:
Concentriamoci su alcune differenze importanti nell’ambito del novero di interventi previsti dalla normativa urbanistica.
Ci interessa in particolare evidenziare come alcuni interventi di ristrutturazione di un immobile di stretta pertinenza per il dentista potrebbero benissimo rientrare in quelli di manutenzione straordinaria.
Senza entrare in dettagli tecnici che è meglio definire caso per caso con l’aiuto di un ingegnere esperto della materia, figura professionale che per competenze e approccio mentale costituisce normalmente il referente ideale in questo contesto, appare chiaro che, se si prende un immobile e lo si sottopone a modifiche marginali rispetto alla dislocazione degli spazi preesistenti, si potrebbe benissimo realizzare tali opere rimanendo in quest’ultima categoria di intervento, senza poter far rientrare tali interventi nel campo di applicazione del restauro e risanamento conservativo vero e proprio. Tantomeno in quello della ristrutturazione urbanistica.
Questa palmare evidenza deve spingere il dentista nel verificare con l’aiuto del tecnico del ramo la possibilità di andare oltre l’ambito della manutenzione ordinaria, magari al solo fine di guadagnare il diritto all’applicazione dell’aliquota agevolata. A volte, a fronte di un aggravio di spese certo, può bastare anche un relativamente basso incremento dello stesso per causare un risparmio sull’IVA applicata e quindi un risparmio complessivo sulla spesa globale, per la semplice ragione che una volta guadagnata l’applicazione dell’aliquota agevolata, quest’ultima potrà applicarsi all’intero intervento effettuato sull’immobile. L’aggravio di costo per la ristrutturazione potrebbe benissimo essere più che compensato dal risparmio in termini di imposta.
Ovviamente, nel caso in cui tale operazione venisse effettuata nel corso di una trasformazione della forma di esercizio dell’attività, la s.r.l. dovrebbe essere costituita prima di iniziare i lavori di ristrutturazione, in modo tale da poter sostenere tutti i costi della ristrutturazione e le relative imposte indirette tramite la stessa.
A volte capita che si ritardi la costituzione della s.r.l. e che si inizi ad effettuare i lavori pagandoli come privato o come professionista. Non esiste alcun bisogno di complicarsi la vita in questo senso, per la semplice ragione che la s.r.l., non appena costituita e anche se ancora in attesa di ricevere le previste autorizzazioni ad operare in qualità di ambulatorio odontoiatrico, può benissimo sostenere i costi legati agli investimenti anche prima di poter conseguire i ricavi rinvenienti dalla effettuazione e relativa fatturazione delle prestazioni sanitarie.
Un’altra delle possibili situazioni di frequente accadimento per il dentista è quella di un nuovo immobile, strettamente adiacente a quello già in esercizio, che viene acquistato al fine di espandere lo spazio dedicato all’attività abbattendo i muri che separano i due immobili e creando un unico ambiente condiviso. Capita spesso che si proceda prima ad effettuare il grosso dei lavori di ristrutturazione dell’immobile nuovo e che lo stesso abbia una categoria abitativa. Salvo poi unire i due immobili abbattendo le pareti divisorie e completando i lavori.
Il fatto che i lavori siano suddivisi in due fasi è abbastanza frequente, per la semplice ragione che il dentista continua a lavorare nella vecchia struttura fino a che non è completata la nuova e così operando può limitarsi a fermare la propria attività solo per il tempo ristretto che occorre per effettuare il completamento dell’unione tra i due immobili. Tuttavia, questo non deve minimamente impattare sulla unicità della pratica, onde evitare complicazioni di vario genere legate all’applicazione dell’aliquota ordinaria sui lavori di ristrutturazione, che riguardano peraltro un immobile che resta a tutti gli effetti di natura abitativa. Il rischio è che l’Amministrazione Finanziaria contesti anche la tipologia di interventi effettuata su un immobile che non è quello indicato per la costruzione di una struttura sanitaria (perlomeno nella gran parte delle Regioni d’Italia).
Possiamo ora concentrarci sul regime IVA previsto per gli interventi di ristrutturazione su immobili diversi da quelli abitativi. Prima che il lettore possa essere tentato di giungere a facili conclusioni, deve essere chiaro che detti interventi riguardano esclusivamente la struttura sanitaria che normalmente richiede un immobile strumentale per natura. E’ chiaro che il regime previsto per le ristrutturazioni edilizie su immobili abitativi costituisce una fattispecie ben diversa da questa. Chi utilizza immobili abitativi e vi pone in essere interventi di ristrutturazione, magari al solo fine di poter beneficiare dei crediti di imposta per ristrutturazione edilizia abitativa, quando quegli interventi servono in realtà ad adeguare l’immobile stesso a fini sanitari, non può certo pensare che tale prassi non possa esporlo, magari ex post, a rischi di censure da parte dell’Amministrazione Finanziaria.
Parliamo quindi di ristrutturazione in senso lato, eseguita su un immobile idoneo a ricevere questo specifico carico urbanistico. Un immobile che normalmente non è e non può essere un abitativo. Fanno eccezione le Regioni Sicilia e Basilicata, peraltro solo nell’ambito degli studi professionali e non certo degli ambulatori.
Ebbene la materia è disciplinata dal numero 127 duodecis della Tabella A Parte Terza allegata al Decreto 633/72 : la disciplina degli immobili strumentali per natura si evince dalla lettura della stesso.
Quest’ultimo rende applicabile l’aliquota agevolata al 10% per le prestazioni di servizi che hanno ad oggetto la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria, se realizzati su edifici di edilizia residenziale pubblica, peraltro su immobili particolari e non su tutti gli immobili abitativi.
Il che significa che gli immobili strumentali per natura vedono l’applicazione dell’aliquota ordinaria al 22% per gli interventi di manutenzione straordinaria (e ovviamente ordinaria).
Sempre lo stesso numero 127, nella seconda parte, prevedeva l’applicazione dell’aliquota agevolata al 10% per gli interventi di recupero che rientrano nelle categorie di restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica, a prescindere dalla tipologia dell’immobile.
E’ stato attraverso la Legge n. 488/1999 che i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria eseguiti su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata sono stati ammessi definitivamente a beneficiare dell’aliquota IVA del 10%.
Tali fabbricati sono da intendere quali:
La norma che stiamo analizzando fa riferimento a prestazioni di servizi aventi ad oggetto la realizzazione degli interventi di manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria, con espressa esclusione:
La Circolare Circolare AdE n. 71/E del 2000 ha poi chiarito che
“in considerazione della ratio dell’agevolazione, deve ritenersi che l’aliquota IVA ridotta competa anche nell’ipotesi in cui l’intervento di recupero si realizzi mediante cessione con posa in opera di un bene, poiché l’apporto della manodopera assume un particolare rilievo ai fini della qualificazione dell’operazione. L’oggetto della norma agevolativa è infatti costituito dalla realizzazione dell’intervento di recupero, a prescindere dalle modalità utilizzate per raggiungere tale risultato”.
Appare quindi chiaro che per l’AdE l’aliquota agevolata è concessa anche per le cessioni con posa in opera di beni.
L’AdE non è tuttavia disponibile a concedere oltre, perché subito si premura di specificare che l’aliquota ridotta
“non si rende applicabile se i beni, anche se finalizzati ad essere impiegati in un intervento di manutenzione ordinaria e straordinaria, vengono forniti da un soggetto diverso da quello che esegue la prestazione oppure vengono acquistati direttamente dal committente dei lavori”.
Una ulteriore specificazione utile da porre in risalto concerne il fatto che l’applicazione dell’aliquota ridotta al 10% non è preclusa dalla circostanza che la fornitura del bene assuma un valore prevalente rispetto a quella della prestazione di servizi.
L’unica eccezione a questa regola è quella dei cosiddetti beni finiti significativi, su cui ritorneremo appresso. Nell’ambito degli interventi di manutenzione su edifici a prevalente destinazione abitativa privata, infatti, l’aliquota ridotta è applicabile ai beni finiti solo fino a concorrenza del valore della prestazione.
La Legge di Stabilità 2018 (n. 205/2017) prescrive poi l’obbligo di indicare analiticamente in fattura oltre al servizio anche i beni finiti significativi che vengono forniti nell’ambito dell’intervento stesso a far data dall’entrata in vigore della stessa.
Con diretto riferimento a quanto di nostro più diretto interesse, la norma conferma quanto già affermato in merito all’applicabilità dell’aliquota agevolata al 10% per tutti gli interventi di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia ed urbanistica per tutti gli immobili e in particolare per quelli che a noi più interessano e cioè quelli strumentali per natura: proprio quelli che deve utilizzare il dentista (sempre se esercita in forma imprenditoriale e in particolare tramite una s.r.l. e quasi sempre se esercita in forma professionale con studio professionale proprio).
In realtà, tuttavia, la norma prevede regole ancor più favorevoli di quelle che concernono l’applicazione dell’aliquota ridotta a questa tipologia di interventi “maggiori” che vengono confermati dalla interpretazione autentica dell’AdE nella Circolare 14/E del 2018.
In questi casi, infatti, a prescindere dalla tipologia di immobile preso in considerazione (abitativo come strumentale per natura), l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta al 10% si estende all’intera prestazione nonché all’intero importo dei beni finiti e si applica persino “a prescindere dalle modalità contrattuali utilizzate per realizzare tali interventi, vale a dire contratto di appalto ovvero fornitura di beni con posa d’opera”. In questi casi, i beni utili a realizzare l’intervento, possono essere acquistati anche direttamente dal committente. Sono tutte differenze significative rispetto alla disciplina dettata per le manutenzioni ordinarie e straordinarie su edifici a prevalente destinazione abitativa.
In particolare, la suddivisione del trattamento dei beni finiti si spezza quindi in due tronconi:
Appare evidente che nel caso che a noi più interessa, quello degli interventi maggiori su immobili strumentali per natura, i beni finiti non sono più quelli “significativi” e cioè quelli il cui valore non deve superare quello della prestazione per servizi legata all’intervento.
E’ giunto quindi il momento di analizzare meglio la disciplina dei beni finiti, per comprendere il motivo per il quale tale disciplina può avere un impatto notevole sui lavori di ristrutturazione di una struttura sanitaria.
Il n. 127-terdecies della Tabella A, Parte III, allegata al Decreto IVA prevede l’applicazione dell’aliquota IVA del 10 per cento alla cessione dei “beni, escluse le materie prime e semilavorate, forniti per la realizzazione degli interventi di recupero di cui all’articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, esclusi quelli di cui alle lettere a) e b) del primo comma dello stesso articolo”.
La prassi amministrativa ha chiarito che il n. 127-terdieces della Tabella A, parte III, si riferisce anche alle cessioni di “beni finiti” forniti per la realizzazione delle opere rientranti tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia” di cui alla lettera d) della Legge n. 457/1978. Dall’esposizione delle previsioni sopra richiamate discende, in sostanza, che alla cessione dei “beni finiti”, diversi, quindi, dalle materie prime e semilavorate, è applicabile l’aliquota IVA del 10 per cento, quando, fra l’altro, gli stessi sono forniti per la realizzazione di specifici interventi di recupero.
Secondo quanto chiarito dalla Ciorcolare n. 1/E del 2 marzo 1994, paragrafo 14 (cfr. anche risoluzione 22/E del 30 marzo 1998), per “beni finiti” cui si applicano le aliquote IVA agevolate
“si intendono quelli che anche successivamente al loro impiego nella costruzione o nell’intervento di recupero non perdono la loro individualità, pur incorporandosi nell’immobile. […]. Sono da considerare beni finiti, a titolo esemplificativo, gli ascensori, i montacarichi, gli infissi, i sanitari, i prodotti per gli impianti idrici, elettrici, a gas eccetera […]”. Non esiste, dunque, un’elencazione tassativa dei beni finiti”.
La Risoluzione n. 39 del 9 marzo 1996 ad esempio, ha chiarito che le scale a chiocciola, a giorno o retrattili in legno o altro materiale possono essere annoverate trai “beni finiti” sia da un punto di vista funzionale che strutturale, trattandosi di “beni aventi caratteristiche tali da poter essere sostituiti in modo assolutamente autonomo dalla struttura della quale fanno parte e che conservano, quindi, la propria individualità”.
Con la Risoluzione n. 353485 del 18 ottobre 1982 è stato specificato che anche i caminetti possono essere considerati “beni finiti” in quanto, anche se devono incorporarsi nel fabbricato per divenire funzionali, tuttavia non perdono la loro individualità né si trasformano in beni diversi.
A titolo esemplificativo, sono stati considerati “beni finiti” altresì “le porte, gli ascensori, i lavandini ecc., in quanto, anche se devono incorporarsi nel fabbricato per divenire funzionali, tuttavia non perdono la loro individualità né si trasformano in beni diversi. Viceversa “sono da considerare materie prime e semilavorate, le tegole, le maioliche, i mattoni, in quanto, unitamente ad altri beni, concorrono a formare il tetto, i pavimenti, i muri”.
Dall’analisi della normativa e della prassi emerge che, seppur non esista una elencazione categorica tassativa di “bene finito”, è possibile comunque individuare le caratteristiche necessarie affinché un bene possa essere definito tale; devono, in particolare, ricorrere le seguenti condizioni:
Si ponga particolare attenzione al fatto che la qualifica di bene finito in ambito strettamente sanitario può essere attribuita non solo ai beni che rientrano normalmente nel progetto di ristrutturazione dell’immobile ma anche ad alcuni di quei beni che fanno parte del suo successivo allestimento.
E’ facile arrivare a questa conclusione se solo si pensa a quei beni strumentali che abbisognano per divenire funzionanti e operativi di interventi di installazione che coinvolgono anche parti strutturali dell’immobile: i riuniti odontoiatrici ad esempio, come le lampade scialitiche installate a soffitto, gli apparecchi radiologici ancorati al muro posseggono tutte le caratteristiche per rientrare pienamente tra i beni finiti e potranno anch’essi beneficiare dell’aliquota IVA ridotta, perlomeno all’interno di un intervento di ristrutturazione “pesante”.
A darci conferma di quanto appena affermato è la stessa Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad Interpello n. 636 del 2021
Rispondendo ad un Istante rappresentato da una società attiva in ambito sanitario, l’AdE afferma quanto segue:
“Le apparecchiature che la Società intende fornire ai propri potenziali clienti (Mammografi digitali, Tavoli radiologici per esami scheletrici e Tavoli Telecomandati Polifunzionali con pannello digitale dinamico per radiografia e radioscopia) possono essere considerate affini a quelle citate nella Risoluzione n.550439 del 6 dicembre 1989, sopra menzionata”.
Alla luce del quadro sopra delineato si può concludere che alle operazioni di fornitura delle apparecchiature oggetto dell’istanza potrà applicarsi l’aliquota IVA nella misura del 10 per cento, ai sensi del n. 127-terdecies, Tabella A, parte terza, DPR 26 ottobre 1972, n. 633 purché:
– tali apparecchiature siano incorporate strutturalmente e funzionalmente negli edifici in cui sono installati, ossia siano qualificabili come “beni finiti” nel senso e nei termini descritti dalla prassi citata;
– l’installazione richieda l’esecuzione sugli immobili di lavori edili qualificabili come interventi di restauro e di risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia, ristrutturazione urbanistica”.
A ben vedere, tale disciplina agevolata risulterebbe poco premiante solo in relazione ad una particolare casistica: quella delle apparecchiature radiologiche TAC-cone beam. La legislazione speciale COVID ha infatti ammesso la cessione in ogni caso di tali apparecchiature all’aliquota ridotta del 5%.
Tale normativa è ancora in vigore e lo resterà fino a quando il Legislatore non si pronuncerà altrimenti con apposita disposizione normativa. Il dentista deve tuttavia ricordare che tale evenienza potrebbe riportare anche tali apparecchiature nell’ambito della disciplina agevolata dei beni finiti, perlomeno se all’interno di interventi qualificabili come restauro e risanamento conservativo e/o ristrutturazione edilizia o urbanistica.
Nell’ambito degli interventi previsti dal Testo Unico dell’Edilizia, gli interventi che al dentista conviene maggiormente porre in essere a fini fiscali sono quelli che permettono di rientrare nelle categorie di intervento pesante, perché solo in questi casi sarà possibile beneficiare dell’aliquota IVA ridotta al 10% in un ambito di applicazione peraltro molto vasto.
Sotto il profilo della deducibilità del costo per immobili di proprietà appena acquisita o ancora da acquisire, la forma giuridica più indicata per l’esercizio dell’attività odontoiatrica resta sempre quella imprenditoriale. Solo in questa forma infatti il dentista avrà modo di poter dedurre tutte le spese relative all’acquisizione, alla ristrutturazione e all’allestimento dell’immobile stesso, al fine di renderlo adatto alla conduzione di una struttura sanitaria.
Al dentista che opera in forma professionale non resterà altra soluzione che quella del leasing immobiliare o della locazione dell’immobile stesso onde evitare l’indeducibilità di tutte le spese di acquisizione e ristrutturazione dell’immobile oltre che delle relative imposte indirette.
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