La corretta gestione del marchio e del logo si inseriscono perfettamente all’interno delle strategie economiche e di marketing dell’attività odontoiatrica. Le opportunità fiscali derivanti dalla vendita o dalla concessione di diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale sono variamente articolate e in gran parte controverse. L’obiettivo di questo articolo è quello di avviare anche il dentista comune al corretto utilizzo del marchio e/o dei diritti d’autore anche ai fini di una migliore pianificazione fiscale.
Il tema del Marchio e dello sfruttamento della proprietà intellettuale è uno dei più controversi e dibattuti in ambito giuridico e fiscale.
La causa di ciò è da ricercare nell’incertezza delle norme attualmente in vigore, mentre la conseguenza è rappresentata da una certa confusione circa gli obblighi ed i diritti in capo ai diversi soggetti che a vario titolo ruotano intorno al marchio o al logo.
I potenziali vantaggi di natura fiscale derivanti dalla proprietà intellettuale (segnatamente il marchio), anche per un dentista, sono piuttosto consistenti. Il fatto che tali vantaggi possano essere messi in discussione a seconda della prospettiva adottata (tra le mille possibili) è una ragione sufficiente perchè ce ne occupiamo su questo blog.
Questo articolo si propone di fare chiarezza circa la possibilità per un dentista comune di:
Nel sentire comune Logo e Marchio sono la stessa cosa, ma sul piano giuridico e tecnico sono due cose distinte. Cominciamo a definire il Logo.
L’espressione Logo è l’abbreviazione di Logotipo che, secondo il vocabolario Treccani, sta ad indicare:
In tipografia, gruppo di due o più lettere fuse in un unico pezzo; nel linguaggio della pubblicità, il modo particolare con cui sono tracciati i segni grafici del nome di una azienda o di un prodotto, e che di solito ne costituisce anche il marchio.
In buona sostanza il Logo è un elemento grafico, costituito da disegni, parole, simboli, assemblati tra loro in modo artistico. In molti casi questo elemento grafico ed artistico va a costituire l’elemento rappresentativo di una azienda e quindi il cosiddetto Marchio aziendale. Ma questo secondo passaggio, ancorché molto frequente, non è sempre obbligatorio.
Tecnicamente possiamo dire che identificare il Logo con il Marchio significa operare una sineddoche, ovvero trattare una parte per il tutto.
Facciamo un esempio pratico di logo.
Quello che segue è un logo che un dentista molto tempo fa ha ideato graficamente di persona per indicare niente più che un concetto e per veicolare i contenuti che stai leggendo su questo Blog:
Nel tempo, questo elemento grafico è stato parzialmente rielaborato e si è arricchito anche di una descrizione verbale, ovvero un nome, sempre ad opera del dentista originale, che dunque assume la veste di “autore” del logo stesso. Il risultato è quello che segue:
Per molto tempo questo elemento grafico non ha fatto altro che accompagnare i contenuti del Blog ed il materiale didattico o promozionale dei corsi che facevano capo ad una Srl Odontoiatrica (che, peraltro, aveva un nome diverso). Possiamo dunque dire che quel logo non rappresentava l’azienda in alcun modo, ma solo un prodotto, tra i tanti, di quella azienda. Quindi, per quel periodo di tempo, il logo in questione non era il marchio di nessuna azienda. Le cose sono poi cambiate, ma facciamo un passo alla volta.
Per capire meglio andiamo a vedere cosa si intende per Marchio.
La definizione di Marchio è disciplinata dal D. Lgs. del 10/02/2005, n. 30 (c.d. Codice della proprietà industriale), come segue:
Viene definito “marchio” il segno distintivo del prodotto dell’impresa. Elemento essenziale del marchio è il suo carattere distintivo: lo stesso deve avere il carattere della novità, non dev’essere contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume e non dev’essere generico e non veritiero.
Tutti noi conosciamo il marchio della Coca Cola o della Ferrari e quindi sappiamo quale sia il segno distintivo di queste aziende rispetto a tutte le altre, ma implicitamente riconduciamo a tali marchi anche i prodotti e i servizi di quelle aziende.
Nel caso precedente, così familiare al lettore, c’è stato un momento in cui il semplice Logo di Dentista Manager è diventato il marchio vero e proprio di una società che si chiama, incidentalmente, proprio “Dentista Manager srl”.
Facciamo attenzione ad un punto fondamentale: il logo originale continua ad essere il risultato dell’opera intellettuale e artistica del suo autore (che nella fattispecie sono io), mentre il marchio identifica, de plano, l’azienda che ne ha preso il nome e che, grazie a quel nome, si distingue da tutte le altre aziende che operano sul mercato, anche e soprattutto i concorrenti.
Siamo arrivati ad un buon punto, che ci aiuterà a dirimere le questioni fiscali legate al Logo e al Marchio a seconda che consideriamo l’elemento grafico come il risultato dell’opera intellettuale di una persona o come l’elemento rappresentativo di una impresa.
Sarà utile, ora, sgomberare il campo da alcune inutili preoccupazioni che spesso attanagliano il medico e il dentista. Analizziamo sia logo che marchio.
Quando avviene il passaggio da semplice Logo, inteso come elemento grafico opera dell’ingegno, a Marchio, inteso come elemento distintivo di una attività di impresa?
Possiamo dire che questo passaggio può avvenire in due modi:
Questa dinamica di relazione tra Autore/Logo da una parte e Impresa/Marchio dall’altra rende ragione di molti aspetti fiscali conseguenti e soprattutto chiarisce la terzietà dei soggetti fisici o giuridici rispetto agli oggetti materiali o immateriali. Tuttavia, questo accoppiamento naturale deriva solamente da motivi di opportunità (come vedremo) e non da precisi disposizioni o limitazioni giuridiche. Non si può escludere infatti che l’autore di un Logo sia una impresa (pensiamo ad esempio ad una società di grafica pubblicitaria), né, di contro, che un marchio sia di proprietà di una persona fisica, per esempio un professionista o di uno studio associato.
Quello che veramente conta, per gli scopi di questo articolo, è avere sempre presente:
Proviamo a fare alcune combinazioni di nostro interesse in ambito odontoiatrico.
Non escludiamo che vi siano altre possibili combinazioni, ma queste sono certamente quelle di maggiore interesse per il dentista comune, perchè, a seconda dei casi, possono generare canali di reddito personale per il dentista a fiscalità più o meno agevolata.
I Marchi risultano registrati quando si provvede alla loro registrazione presso gli uffici pubblici deputati a questo scopo.
Oltre ai servizi attivati dalle Camere di Commercio locali segnaliamo, in particolare, l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) in seno al Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE) che raccoglie le richieste di registrazione di Marchio e Brevetti.
Per quanto riguarda i loghi invece, rientrando nelle opere d’ingegno come arti figurative ed immagini, essi possono essere registrati presso la Siae nella apposita sezione.
La registrazione di Marchi e Loghi non è strettamente obbligatoria affinché questi possano dare luogo al relativo impiego, diretto o indiretto. Tuttavia segnaliamo l’opportunità che le queste registrazioni vengano effettuate per almeno due buone ragioni:
Da tempo è emersa infatti la necessità di dimostrare che, per un dato soggetto (ad esempio il dentista), ricorrono i presupposti di diritto sulla proprietà, onde poterlo concedere in uso a terzi (o eventualmente venderlo) e conseguire i relativi benefici economici e fiscali.
Consigliamo di non effettuare le registrazioni in proprio ma di ricorrere a professionisti qualificati e specializzati in questo ambito.
Vedremo più avanti di cosa si tratta.
Un marchio è sostanzialmente un’idea tradotta in un simbolo grafico (il logo, come abbiamo visto).
Qualsiasi soggetto fisico o giuridico può rivendicare la paternità di una idea. lo stesso vale per l’arte grafica inserita nel Logo. Per questo motivo la domanda di registrazione del marchio e del logo può essere presentata da chiunque:
Possono essere titolari di un marchio anche più soggetti contemporaneamente.
Un dentista dunque può registrare marchio e logo di persona oppure per il tramite di una Srl odontoiatrica se questa ne vanta la proprietà. In questo senso è bene dire che il dentista può trarre alcuni tipi di vantaggi (economici e fiscali) se la registrazione del Marchio e/o del Logo vengono fatte a suo nome, ne potrà trarre altri quando invece la registrazione fosse fatta dalla eventuale società professionale che egli ha costituito.
Per un dentista possedere un marchio e/o logo registrati comporta la possibilità di cedere tale bene immateriale (vendita) oppure di concederlo in uso a terzi (royalty).
Il marchio, in particolare, è uno degli asset intangibili dell’attività e come tale ha un valore che è determinato dalla sua reputazione sul mercato. Gli anglosassoni identificano il significato del marchio con l’espressione più comune di Brand, che ricomprende sia il valore economico o monetario dell’asset sia quello più squisitamente figurativo, di immagine, credibilità e, appunto, reputazione.
Tornando all’esempio iniziale di Coca Cola o Ferrari, è del tutto evidente che un prodotto o un servizio che venga veicolato sotto questi brand, diventi immediatamente più appetibile dal potenziale compratore indipendentemente dal suo valore intrinseco (qualità dei materiali, durevolezza, efficienza, estetica, ecc.).
In questo senso il marchio conferisce plusvalore ai prodotti che veicola e dunque possiede un valore aggiunto che può essere stimato, come ogni altra cosa, sul mercato.
Questo tema è trattato all'interno del Corso Srl Odontoiatrica organizzato da Dentista Manager. Partecipa anche tu iscrivendoti online. Ti aspettiamo!
Con rare eccezioni, ogni logo e/o marchio hanno un proprio valore e un proprio mercato di potenziali acquirenti. Anche per questo motivo, come detto, vengono registrati.
Anche un brand apparentemente insignificante come quello che il dentista realizza per il proprio studio può risultare interessante nell’area di influenza dello studio stesso.
Pensiamo al caso di un dentista che in un piccolo paese utilizzi il nome (e magari anche il logo) di un suo concorrente più forte di lui per promuovere il proprio studio. Possiamo stare certi che il “proprietario” del proprio cognome rivendicherà i propri diritti in qualche modo.
Pensiamo anche al caso di un dentista che si costituisca in impresa, per esempio sotto forma di Srl odontoiatrica. Con ogni probabilità, se la sua reputazione è buona, deciderà di utilizzare lo stesso brand precedente (per esempio il proprio cognome) per comunicare alla clientela che il valore dello studio è rimasto invariato, nonostante il cambio di forma giuridica o perfino di ragione sociale (cambio di nome).
E’ così che il dott. Rossi, titolare dello Studio Rossi, utilizzerà il marchio “Studio Rossi” anche quando diventerà “Rossi srl”. In altre parole la Rossi srl veicolerà i propri servizi sotto il marchio “Rossi” o “Studio Rossi” anche quando la sua ragione sociale fosse (appunto) “Rossi srl”.
In modo del tutto analogo le considerazioni valgono anche per il logo, inteso come immagine grafica e artistica che rappresenta lo studio e che può essere affiancato al nome di cui sopra.
Dunque il proprietario di logo e/o marchio (meglio se registrati) può effettuare diverse tipologie di sfruttamento che tratteremo di seguito: la licenza d’uso e la vendita sia del logo che del marchio.
In questo caso il dentista, in quanto persona fisica o soggetto giuridico proprietario del bene immateriale, attraverso il Contratto cessione diritti sfruttamento marchio, ne trasferisce a terzi il mero godimento e non la proprietà.
La sua controparte, detta anche licenziatario, acquisisce semplicemente il diritto di sfruttare il marchio o il logo nei limiti delle clausole contrattuali.
Per usare le parole di Rebecca e Ceccon (2014):
Con il contratto di licenza del marchio, si ha la dissociazione tra la proprietà del bene immateriale e il suo utilizzo a fini commerciali. Il licenziatario può realizzare e mettere in commercio prodotti contraddistinti dal marchio in questione per un determinato periodo di tempo, mentre il cedente ne mantiene la proprietà.
Andranno dunque concordate le condizioni di sfruttamento, come ad esempio:
Il contratto deve anche prevedere il corrispettivo economico che il licenziatario paga al proprietario in ragione dei diritti acquisiti. Comunemente sono previste due tipologie di corrispettivi alternativi tra di loro:
Sono ovviamente aperte anche altre possibilità, meno frequenti, come ad esempio il pagamento di un fee annuo fisso oppure di una somma una tantum.
Una variabile estremamente importante del contratto di concessione in uso del marchio riguarda la condizione di esclusività oppure no di tale concessione. Poichè, come vedremo di seguito, la concessione in esclusiva porta a trattamento fiscale diverso e più vantaggioso rispetto a quello non esclusivo si raccomanda di fare una previsione specifica nel contratto in questo senso.
Con la cessione e quindi la vendita del logo e/o marchio si trasferiscono completamente tutti i diritti e quindi la proprietà stessa. Un nuovo soggetto ne diventerà titolare, dietro pagamento di un corrispettivo, e potrà sfruttarlo liberamente in futuro.
E’ importante sapere quanto prescrive l’art. 23 comma 1 del Codice Italiano sulla Proprietà Industriale (che come detto sopra è il testo normativo di riferimento su questa materia). In esso si scrive che:
Il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato.
Questo significa che se un dentista (proprietario di marchio registrato) intende vendere il proprio marchio a terzi (ad esempio la propria Srl odontoiatrica) avrà facoltà di decidere se nella vendita di tale brand ricomprende solo quest’unico asset, oppure un ramo d’azienda oppure l’intero complesso aziendale.
Anche in questo caso, poichè le ricadute in termini fiscali per il professionista sono interessanti (anche alla luce delle ultime sentenze) è bene che questo aspetto sia ben chiarito e, soprattutto, strategicamente pianificato.
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Esaminiamo prima il caso in cui il proprietario del Logo sia una persona fisica e poi quello dell’impresa.
Se un dentista riceve redditi dalla cessione dei diritti di sfruttamento di un logo si danno diversi casi che descriviamo di seguito e che hanno tutti un comune denominatore: sul piano giuridico e contrattuale si tratta sempre dello sfruttamento dei diritti d’autore.
In questo caso i compensi derivanti dallo sfruttamento dei diritti d’autore si qualificano come reddito di lavoro autonomo, ai sensi del comma 2 dell’art. 53 del TUIR. Quindi non sono redditi da attività professionale anche se redditi di lavoro autonomo.
L’art. 2575 del Codice Civile definisce nel modo seguente le opere dell’ingegno in relazione al diritto d’autore:
Formano oggetto del diritto di autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione.
Non credo esista alcun dubbio sul fatto che la realizzazione di un logo rientri perfettamente nelle arti figurative, indipendentemente dalla fama o dalla notorietà, in quel momento specifico, di chi lo realizza.
Può essere anche utile la definizione che il Brocardi dà delle opere di ingegno:
L’espressione indica quei beni immateriali che consistono in creazioni dell’intelletto umano che presentino le seguenti caratteristiche: creatività, concretezza di espressione e appartenenza ad uno dei settori della produzione intellettuale espressamente considerati dalla legge (opere musicali, cinematografiche, software, …).
Le opere dell’ingegno sono tutelate dal diritto d’autore, regolato a livello nazionale principalmente dalla legge 22 aprile 1941 n. 633.
Ora, perchè questa lettura è interessante?
E’ interessante perchè la disciplina fiscale dei redditi derivanti dallo sfruttamento delle opere dell’ingegno e dei diritti d’autore è molto ben descritta. In questo senso si raccomanda l’attenta lettura della pubblicazione di Enrico Ferra su ECNews del 2016, laddove si dice che, in questa disciplina, è molto delicata l’individuazione dei presupposti giuridici ai fini del corretto inquadramento tributario dei corrispettivi derivanti dallo sfruttamento economico dei diritti in oggetto.
Presupposti che risultano dirimenti, come è ovvio, anche ai fini della determinazione della base imponibile, in quanto in alcuni casi la determinazione del reddito avviene in via forfetaria e in altri in via analitica.
In particolare l’articolo 53, comma 2, lett. b) prevede che i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali, siano da considerarsi redditi da lavoro autonomo.
E’ del tutto evidente il vantaggio che questa tipologia di redditi comporta rispetto ad altre forme di compenso che abbiamo descritto in dettaglio in un apposito articolo. In questo senso la costituzione di una Srl Odontoiatrica costituisce i presupposti per una eventuale concessione a terzi dei diritti d’autore sul logo o su altre forme di proprietà intellettuale (processi, modelli organizzativi, pubblicazioni scientifiche, libri, immagini, ecc.).
In regime ordinario tale compenso è soggetto a Ritenuta d’acconto del 20% e poi ad Irpef con aliquota marginale corrispondente
In questi casi, tuttavia, si applica per legge un abbattimento forfettario dell’imponibile a titolo di costi. Rispetto a quanto effettivamente percepito risulterà dunque imponibile solamente:
E’ interessante notare che l’intero importo è invece deducibile interamente ai fini Ires (o Irpef) per l’impresa che sostiene il costo.
Sotto un profilo strettamente tecnico il dentista dovrà dichiarare tale reddito nel quadro RL (altri redditi), sez. III (altri redditi di lavoro autonomo). Nel rigo RL25, si rileva l’importo lordo del compenso e, nel rigo RL29, l’importo della deduzione forfettaria per spese.
L’operazione inoltre è esente IVA ex art. 3 DPR 633/72.
Non trattandosi di reddito professionale (che si dichiara nel quadro RE) tale compenso non forma oggetto di contribuzione obbligatoria né Enpam né Inps.
Questo reddito è compatibile con il regime forfettario contribuendone a determinare le soglie previste fino a 85.000 € e, facendo cumulo con gli altri redditi di lavoro autonomo (esempio quelli professionali), gode della doppia agevolazione, ovvero:
A questo proposito si legga il parere della stessa Agenzia delle Entrate contenuto a pag. 5 della risposta-n-517-del-2019. In particolare vi si legge:
i proventi a titolo di diritti d’autore, ai sensi dell’articolo 53, comma 2, lettera b), del TUIR, conseguiti da un contribuente che applica il regime forfetario, se effettivamente correlati con l’attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo soggetto, saranno ridotti del 25 per cento (o del 40 per cento se sono percepiti da soggetti di età inferiore ai 35 anni), ai sensi del comma 8 dell’articolo 54 del TUIR, e tale importo sarà cumulato con gli altri compensi percepiti dal professionista soggetti alle ordinarie aliquote di abbattimento forfetario di cui all’allegato 4 della legge n. 190 del 2014, al fine di applicare all’ammontare complessivo l’imposta sostitutiva di cui ai commi 64 o 65 dell’articolo 1 dalla legge n. 190 del 2014.
Si raccomanda la sottoscrizione Contratto tra Società e soggetto titolare per sfruttamento dei diritti d’autore, anche in forma di scrittura privata avente data certa. Questo documento avrà valore probatorio in caso di contestazioni da parte di terzi, soprattutto in ordine al valore dell’importo corrisposto ed alle modalità di pagamento.
Il documento fiscale adottato dal dentista per richiedere e documentare il pagamento del corrispettivo non è rappresentato, in questi casi, dalla tipica fattura professionale emessa con la propria partita iva, ma da una ricevuta per diritti d’autore, una semplice emessa con il proprio codice fiscale.
Come noto, i diritti d’autore passano in capo agli eredi in caso di scomparsa dell’Autore stesso.
In questo caso la qualificazione del reddito derivante dallo sfruttamento ed il relativo trattamento fiscale mutano radicalmente. Di seguito una sinossi utile per comprendere:
E’ possibile che il dentista non sia l’autore stesso del logo, quanto piuttosto che egli abbia acquisito tali diritti da terzi per poi sfruttarli producendo reddito.
Si configura qui uno scenario diverso dai due precedenti in quanto il reddito si qualifica come «redditi diversi» ai sensi dell’art. 67 TUIR, ma l’imponibile è abbattuto forfettariamente del 75% ai sensi dell’ art. 71 TUIR.
In dichiarazione dei redditi si utilizza il Quadro RL (altri redditi), sez. II-A (redditi diversi). Nel rigo RL13 si rileva l’importo del compenso.
Per il resto vale quanto già detto a proposito del dentista autore, compresa l’ipotesi della doppia agevolazione in caso di regime forfettario.
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Esaurito il tema del Logo ora esaminiamo come vengono tassati i ricavi derivanti dalla cessione di marchio o dalla sua concessione in uso.
L’art. 2573 del c.c. al comma 1 disciplina la possibilità di vendere la proprietà del marchio o concederlo in uso:
Il marchio può essere trasferito o concesso in licenza per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato, purché in ogni caso dal trasferimento o dalla licenza non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico.
Quando il marchio è costituito da un segno figurativo, da una denominazione di fantasia o da una ditta derivata, si presume che il diritto all’uso esclusivo di esso sia trasferito insieme con l’azienda.
Come scrive Giuseppe Rebecca per il Sole 24 Ore:
Dal 1992 (D.Lgs. 480/92) è stato abolito il vincolo con l’azienda; il marchio è quindi ora liberamente trasferibile, indipendentemente dall’azienda o da un suo ramo particolare, per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato. A queste variazioni civilistiche non ha corrisposto alcuna variazione della normativa fiscale.
Viviamo in un Paese fatto di regole ed eccezioni, leggi e sentenze, circolari ed interpretazioni delle circolari più o meno autentiche. Il punto che dobbiamo ricordare è che non sempre è possibile individuare i comportamenti che siano certamente corretti o certamente scorretti, soprattutto in ambito fiscale. Quando la dottrina è equivoca, non sempre la giurisprudenza è dirimente. Questo è proprio uno dei casi in questione.
Sul trattamento fiscale dei proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale è stato scritto, in un senso o nell’altro, molto di più di quanto sia fisiologico in un Paese normale. Probabilmente è venuto il tempo in cui il legislatore metterà di nuovo le mani sull’argomento, nella speranza che non faccia ancora più confusione di quella che già c’è.
Partiamo, come sempre, dalla legge e poi vediamo cosa sta a valle di essa, avendo ben presente che, in questo caso, non vi è certezza del diritto tributario.
All’art. 53, comma 2, lettera b, relativo ai redditi da lavoro autonomo, si dice letteralmente che vanno in essi ricompresi:
i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali.
In questa definizione non compare la parola “marchio” che invece era presente nella formulazione precedente di questo articolo (riformato nel 1986). L’art. 53 del T.U.I.R. non menziona più, tra i redditi di lavoro autonomo, quelli derivanti “dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio” . Pertanto, come dice sempre G. Rebecca:
qualsiasi corrispettivo derivante dallo sfruttamento economico del marchio, tramite cessione o concessione, sembrerebbe aver perso i requisiti necessari per essere qualificato come reddito di lavoro autonomo.
Questa mancanza è comunemente riconosciuta ed ammessa senza riserve da tutti. Si tratta di una lacuna normativa: in nessuna parte del TUIR si trova traccia dei redditi derivanti dalla cessione del marchio, quando questa avviene al di fuori dell’attività d’impresa.
La discussione che ne segue risponde sostanzialmente a questo tipo di domanda sottesa:
“Se è vero, come è vero, che i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non sono redditi di lavoro autonomo, non sono redditi di lavoro dipendente e non sono redditi di impresa (posto che stiamo parlando del dentista in quanto persona fisica), allora, a quale tipologia di reddito appartengono?”
La domanda è rilevante perchè, se non si riesce a stabilire a quale tipologia di reddito appartengano, non si riuscirà neppure a stabilire quale sia il corretto regime di imposte cui assoggettare tale reddito.
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La formulazione normativa antecedente al TUIR, [cfr. art. 49, comma 3, lett. b) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597], stabiliva che:
i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell’ ingegno, invenzioni industriali e simili, quando non sono conseguiti nell’ esercizio di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice.
Ora, quali che siano stati i motivi che hanno spinto il legislatore a riformulare l’articolo 49 nell’art. 53, quando avrebbe potuto lasciarlo identico, non ci sarà mai dato sapere. Limitiamoci a registrare i fatti e le loro conseguenze.
Le conseguenze sono che tali redditi non trovano più una collocazione esplicita in tutto il testo, se non con forzature analogiche che vengono così stigmatizzate dalla giurisprudenza più recente (vd. ctr-lombardia-n.2123.2021):
Equiparare il marchio alle opere di ingegno rappresenta il frutto di una interpretazione analogica (non semplicemente estensiva del dato letterale contenuto nell’art. 53, lett. b TUIR) che, in quanto tale, non è consentita nel diritto tributario quando l’operazione ermeneutica investe, come nel caso di specie, il presupposto dell’imposta.
Per questo motivo la CTR Lombardia nella stessa sentenza riteneva corretto il comportamento del contribuente che a seguito di cessione del Marchio non aveva assoggettato ad alcuna imposta il relativo ricavo in quanto non costituiva reddito imponibile.
Questa interpretazione è dunque interessante poichè porta alla conclusione, confermata dal Tribunale, che i redditi derivanti dalla vendita o concessione del marchio non costituiscono affatto reddito imponibile per il percipiente.
In altre parole il Dentista potrebbe concedere in licenza d’uso il proprio brand ad una Srl Odontoiatrica ricevendone un compenso che non genera reddito per lui mentre costituisce un costo deducibile per la società. Allo stesso modo potrebbe addirittura cedere il marchio, comprensivo di tutti gli asset aziendali, ad ipotetici compratori esterni, senza generare alcun reddito imponibile.
Ma l’esempio citato della CTR Lombardia del 2021 non è l’unico. Ci risulta esserci almeno un altro precedente importante per opera della Commissione Tributaria Regionale del Veneto con sentenza 524/2019, nella quale si afferma testualmente:
L’assoggettamento ad imposizione fiscale dell’incremento di ricchezza derivante, come nella fattispecie, dalla cessione o utilizzazione economica dei marchi concessi da privati, non appare, dopo le innovazioni introdotte dal D.lgs. 480/92, espressamente disciplinato dal legislatore.
Se tale fattispecie non è disciplinata dal legislatore significa che non esiste una legge che stabilisca cosa fare in questo specifico caso. Questo richiama l’art. 23 della Costituzione, nel quale si sancisce che:
Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Quindi è pacifico che “senza legge di riferimento niente imposte”: se manca la disposizione di riferimento per una determinata fattispecie, significa che il legislatore non ha inteso attribuirle rilevanza ai fini della tassazione.
Ma non è tutto. Sulla questione si esprime anche la Relazione Ministeriale di accompagnamento allo stesso TUIR del 1986, nella quale si afferma letteralmente quanto segue:
Ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa.
Registriamo così che per tutto il periodo il legislatore è esplicito e chiaro sulla non imponibilità dei redditi da marchio né come reddito da lavoro autonomo, né come reddito diverso. Al limite potrebbe essere ricondotto al reddito di impresa se fosse conseguito nell’ambito di questo tipo di attività, la qual cosa non avviene nel caso di un dentista che ceda o conceda il proprio marchio a terzi.
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Secondo questa interpretazione i proventi derivanti dalla concessione del marchio può essere ricondotta alla categoria dei redditi diversi, in ragione delle “ipotesi marginali per le quali potrà, eventualmente, soccorrere l’ampia previsione dell’art. 67, n.11,” sopra richiamate tra parentesi.
A cosa fanno riferimento tali ipotesi marginali? Fanno riferimento ad un elenco tassativo di redditi che non trovano collocazione in altro luogo e che quindi sono ricomprese ora nei cosiddetti rediti diversi.
Il problema è che nell’elenco (tassativo) redatto dal legislatore, ancora una volta non figurano i proventi da vendita o concessione del marchio e l’unica fattispecie in qualche modo compatibile e sommariamente riconducibile al caso in questione sembra essere rappresentata dalla lettera l, comma 1, art. 67:
i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere
e in particolare gli obblighi di permettere verrebbero chiamati in causa per ricondurre la cessione del marchio all’interno dei redditi diversi.
Su questa interpretazione convergono gli interessi della Agenzia delle Entrate che nella risoluzione del 16 febbraio 2006 n. 30/E, afferma che i proventi derivanti dalla cessione del marchio
assumono rilevanza anche ai fini della determinazione dei redditi di tale soggetto. Tali importi vengono, infatti, corrisposti a fronte dell’assunzione di obblighi ben precisi che consistono nel permettere ad un altro soggetto l’utilizzo del proprio marchio. […] L’importo percepito a fronte di tale obbligo deve quindi essere assoggettato a tassazione in capo al soggetto percipiente in applicazione della disposizione dettata dall’articolo 67, comma 1, lettera l), del Tuir.
La risoluzione n. 81/E dell’11 marzo 2002 però affermava un distinguo importante;
nella locuzione utilizzata dal legislatore dell’articolo 67, in verità assai generica, rientrano le cessioni o le concessioni in uso di marchi di fabbrica e di commercio non effettuate da imprenditori
Da ciò si evince chiaramente che qualora il dentista fosse un imprenditore (ed il dentista socio di Srl Odontoiatrica è a tutti gli effetti un imprenditore) verrebbero meno i presupposti per l’attribuzione ai redditi da sfruttamento del marchio della qualifica di redditi diversi.
E siamo daccapo.
Tra le varie, eterogenee e molteplici forme di percezione del reddito da parte del dentista riveste un certo peso anche quello che potrebbe derivare dalla cessione o concessione in uso a terzi del proprio marchio inteso come brand aziendale oppure del proprio logo inteso come opera dell’ingegno personale.
Nel primo caso la tassazione del reddito è controversa ed allo stato attuale non ancora chiarita dal legislatore. Nel secondo caso, invece, essa è ben definita e discretamente vantaggiosa (ancorché non raggiunga i benefici dell’esenzione totale d’imposta che si potrebbe invocare nel caso precedente).
Sposando, tra le quattro linee interpretative descritte, a conti fatti e tenendo conto di rischi e benefici correlati a ciascuna posizione, sembra evidente che la strada dei diritti d’autore sia quella più ragionevole.
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