Il controllo di gestione e il bilancio di esercizio sono strumenti diversi che attengono a logiche contabili almeno in parte differenti. Tuttavia, il dentista conserva una piena convenienza nel conoscere entrambi gli approcci, sia al fondamentale fine di comprendere come si muovono le principali determinanti della gestione della propria struttura sanitaria che a quello di modificare quelle determinanti nella ricerca di migliori risultati gestionali. Dalla lettura di questo articolo appariranno evidenti i motivi per i quali, tra questi obbiettivi, deve essere guardato con particolare attenzione quello del risultato della gestione tipica dell’attività odontoiatrica. Si tratta proprio di quel risultato che spesso viene trascurato sulla base di motivazioni poco convincenti.
Con il termine contabilità direzionale intendiamo quel sistema contabile di rilevazione dei dati economici, risultanti dal controllo di gestione interno, che servono a tenere sotto controllo l’attività tipica della struttura sanitaria odontoiatrica.
Tale sistema, nella sua formulazione basica, ci permette di stimare i costi, differenziandoli tra fissi e variabili e di poter partire da una solida base concettuale al fine di fissare le tariffe delle prestazioni sanitarie in misura congrua alla copertura dei costi stessi e al raggiungimento di un margine positivo della gestione.
Tale margine può essere declinato in diversi modi, ognuno dei quali ci permette di indagare sulla salute dell’azienda odontoiatrica, in specifiche macro-aree gestionali e nel suo complesso; e di utilizzare le leve gestionali per porre in essere prassi gestionali congrue al raggiungimento dei vari obiettivi che l’Organo gestorio si è prefisso.
Ad esempio, l’EBIT, inteso come differenza tra i ricavi e i costi tipici, può essere declinato in senso generale come anche per singola prestazione e indica, perlomeno ex ante, quella redditività della gestione o della singola prestazione che deriva dalla fissazione, rispettivamente, di un ben preciso tariffario o di una specifica tariffa per la singola prestazione sanitaria.
Ragionamenti analoghi possono valere per il margine di contribuzione, il punto di pareggio (BEP) e altri margini.
Di questi temi ci siamo occupati a più riprese in articoli dedicati e non appare il caso di indugiare oltre nel descriverli. Si possono consultare per gli opportuni approfondimenti, i seguenti articoli scritti da Gabriele Vassura:
costi variabili dello studio dentistico, costi fissi nello studio dentistico costo orario nello studio dentistico
In questo articolo ci interessa evidenziare alcune relazioni ed esigenze che spesso vengono trascurati per pigrizia o più spesso per la mancanza di validi maestri in grado di renderli comprensibili e fruibili anche ai non addetti ai lavori.
La prima esigenza da segnalare è proprio quella della contabilità direzionale interna e quindi del Controllo di Gestione.
Tale implementazione risulta assolutamente necessaria, soprattutto in quelle strutture sanitarie che operano su diverse unità produttive e con una articolazione organizzativa più o meno rilevante. E la fonte da cui scaturisce questa fondamentale esigenza è legata alle caratteristiche precipue di questo metodo: quest’ultimo, infatti, è il solo in grado di aiutare il dentista – soggetto per definizione poco esperto di fatti economici – a gestire la sua azienda odontoiatrica partendo dal controllo e dal funzionamento delle sue singole unità basiche. Tale sistema infatti consente al dentista di partire dal particolare – la tariffa della singola prestazione odontoiatrica – e di arrivare all’universale – il tariffario e cioè il paniere completo della tariffe per tutte le prestazioni – in una modalità tutto sommato abbastanza comprensibile e intuitiva.
Conoscere e capire costituisce una buona base per gestire: una volta che si sarà impadronito del razionale, il dentista si sarà finalmente dotato di un metodo razionale e praticabile, utile a effettuare simulazioni e conseguenti modificazioni del paniere delle tariffe praticate dal proprio studio, al fine di raggiungere nuovi e migliorativi risultati economici (in primis, modificando le cause che spiegano le perdite su specifiche prestazioni). Ma sarà anche in grado di calcolare la convenienza di nuovi investimenti in risorse materiali ed umane come anche di stabilire a quali condizioni economiche è subordinata quella convenienza.
Ovviamente, non vogliamo certo affermare che il controllo di gestione basti ad esaurire il complesso universo del management dello studio dentistico; intendiamo dire, semmai, che lo stesso metodo rappresenta un necessario punto di partenza. Per quanto indispensabile, tale metodo, per sua natura unidimensionale, dovrà essere accompagnato da altre implementazioni quali, ad es., una razionale organizzazione per processi, una prassi gestionale che esattamente come la prima deve essere continuamente implementata e migliorata.
Si deve sempre tenere presente che l’azienda odontoiatrica, esattamente come qualunque altra azienda, costituisce una realtà viva e pulsante che non può essere validamente gestita se non si possiede la consapevolezza della sua mutevolezza e questo vale a fortiori in aziende di così piccola dimensione, le quali sono, per loro natura, estremamente dipendenti dal contesto organizzativo, dalle risorse umane che vi operano, dalla fase del ciclo di vita in cui ciascuna di queste risorse umane si trova nel momento dato e dalle pressioni esterne, sia quelle di natura competitiva che di quelle sociali, scientifiche, tecnologiche e normative.
Per questi motivi, i processi vanno continuamente migliorati e adattati al mutevole contesto aziendale, esattamente come i costi vanno sempre re-stimati, a cadenze regolari e lo stesso dicasi, per diretta conseguenza, per la fissazione delle tariffe.
La contabilità direzionale, infatti, non si propone di misurare i costi con la precisione richiesta in altri ambiti scientifici, ma di stimarli con una certa approssimazione accettabile. Il controller esperto conosce benissimo i limiti del metodo e proprio perché li conosce insegue continuamente una realtà che si modifica continuamente, rifacendo i conti e apportando tutte le modifiche necessarie alla determinazione dei costi e dei margini di gestione. Tuttavia, è altrettanto consapevole del fatto che tale imprecisione costituisce un male necessario, abbondantemente controbilanciato dai vantaggi che la sistematica applicazione di quel metodo è in grado di ingenerare.
Il lavoro del controller, tuttavia, presenta i limiti di tutti i metodi che si prefiggono di fissare le misure di redditività ex ante e ci vuole poco per modificare quelle misure teoriche nella pratica della gestione: basta praticare una politica pervasiva degli sconti ai pazienti per modificare la redditività reale rispetto a quella teorica; mentre i costi reali possono discostarsi in misura sensibile rispetto a quelli stimati modificando i protocolli con cui vengono effettuate alcune prestazioni.
Per sua natura tale metodo è anche l’unico che possa permetterci di misurare anche i costi figurativi e cioè quelli che non si sono visti accompagnare da alcuna manifestazione numeraria: con quest’ultimo termine intendiamo riferirci ai movimenti di cassa.
La stima dei costi figurativi si rivela prassi necessaria, in particolare, nel controllo di gestione degli studi professionali: e viene praticata operando sull’imponibile del professionista che ricomprende – o che, meglio, dovrebbe sempre ricomprendere –, al proprio interno, sia la remunerazione del lavoro prestato dal titolare nel momento in cui lo stesso opera in quanto professionista che la remunerazione del capitale investito e del rischio corso.
La remunerazione del lavoro prestato deve essere comunque determinata in base al volume di prestazioni effettuate direttamente dal titolare e ad una percentuale ipotetica di remunerazione, opportunamente scelta ex ante. Il risultato di questa moltiplicazione deve essere sommato agli altri costi variabili per la corretta determinazione dei costi stessi.
Non esiste altro metodo utile ad effettuare questa importante distinzione perchè la stessa non viene certo esternato in nessuna forma dalla contabilità analitica e dal bilancio, di cui ci occuperemo nelle righe seguenti, proprio perché la relativa voce di costo non si è accompagnata ad alcun movimento di cassa che possa essere considerato ad esso strettamente legato.
Il riferimento ai compensi figurativi del titolare potrebbe apparire un riferimento debole sotto il profilo logico, nell’economia del discorso che stiamo portando avanti; in realtà si tratta di una delle questioni più importanti che spiegano fatti non facilmente spiegabili in altro modo. Si pensi, ad esempio, ai giudizi frettolosi in merito alla qualità della gestione che spesso vengono restituiti, persino ad opera di addetti ai lavori, con riguardo all’analisi del bilancio di alcuni studi professionali.
Spesso tale giudizio viene subordinato ai crudi numeri di bilancio e in particolare all’utile del professionista che appare come tale in quel documento contabile. Il professionista si reca dal proprio commercialista e quest’ultimo lo rassicura perché quel numero è positivo e magari lo è persino sensibilmente. Peccato che un giudizio del genere sia del tutto incongruo in mancanza di un incrocio con alcuni fondamentali dati restituiti dal controllo di gestione interno e cioè dalla contabilità direzionale.
Vediamo di spiegare l’apparente arcano con un esempio: ipotizziamo che il dentista si ritrovi in bilancio un utile lordo pari ad euro 250.000 e che questo risultato venga considerato ottimale. Quale potrebbe essere l’errore di fondo di tale impostazione?
Intanto non è affatto indifferente stabilire quale sia il fatturato da cui è scaturito un margine di questa misura. Appare evidente che tale giudizio potrebbe essere fortemente ridimensionato se quell’utile fosse relativo ad un fatturato pari a 2,5 milioni di euro, rispetto al caso di un fatturato pari ad un milione di euro.
Nel primo caso avremmo una reddittività pari al 10%, nel secondo pari al 25%.
Ma questo sarebbe ancora il meno.
Poiché nell’utile del professionista sono compresi anche i compensi professionali, prima di poter emettere un giudizio sulla qualità di quel risultato numerico occorre verificare quale percentuale di produzione lo stesso professionista ha effettuato rispetto a quella totale.
Ipotizziamo, a mero titolo di esempio, che il citato professionista abbia realizzato prestazioni per euro 800.000 su una produzione totale di studio pari a 1.000.000 di euro, che la percentuale rispetto al pagato paziente dei suoi collaboratori (medici e igienisti) sia pari al 35% e che anche la percentuale figurativa dello stesso sia fissata alla stessa percentuale.
Avremo che:
800.000 x 35% = 280.000.
Ipotizziamo ora che il professionista effettui non l’80% della produzione globale, ma appena il 40%:
400.000 x 35% = 140.000
Appare evidente che a fronte di una o dell’altra situazione, il giudizio sull’utile di bilancio sarebbe ben diverso e persino opposto.
Nel primo caso, l’utile dello studio non sarebbe in grado nemmeno di remunerare i compensi professionali del suo titolare e lo studio starebbe producendo in realtà una perdita. L’unico motivo per cui lo studio potrebbe restare in piedi e perché il suo titolare lo andrebbe a finanziare con parte dei propri compensi professionali.
Ovviamente, una tale situazione sarebbe alquanto pericolosa a livello prospettico.
Il titolare avrebbe sostanzialmente condannato sé stesso a continuare ad effettuare la gran parte della produzione anche negli anni a venire, per la semplice ragione che qualora si comportasse diversamente, quel precario equilibrio che tiene a stento in piedi la sua struttura rischierebbe di saltare.
Nel secondo caso, il giudizio sulla qualità della gestione sarebbe ben diverso, cambiando radicalmente segno: la struttura consegue un margine rilevante dopo aver remunerato i compensi professionali del titolare e il suo utile reale (250.000-140.000)= 110.000 sarebbe pari al 10% del fatturato.
Un valore positivo anche se non ottimale, ma che comunque, se pure si presta ad essere ulteriormente migliorato, non è tale da ingenerare eccessive preoccupazioni.
Giunti a questo punto della trattazione, il lettore non tecnico potrebbe essere tentato di concludere che la contabilità analitica e il bilancio di esercizio possono essere considerati strumenti inutili o quantomeno ridondanti rispetto alla contabilità direzionale interna. Il Nostro lettore potrebbe convincersi che tutto quanto gli occorre è già stato ottenuto attraverso il controllo di gestione interno. Nel caso, si tratterebbe di una conclusione alquanto affrettata e per nulla corretta e, nel prosieguo, ne spiegheremo le ragioni.
In realtà, la contabilità analitica e il bilancio sono strumenti utili ad evidenziare altri aspetti della gestione che la contabilità direzionale non è minimamente in grado di misurare.
L’integrazione tra i due sistemi costituisce quindi l’unico obiettivo desiderabile in questo senso, purché il contabile conservi l’accortezza di costruire il piano dei conti di contabilità analitica coerentemente allo specifico modello di business.
Cosa significa costruire un piano di conti corretto e coerente con lo specifico modello di business ?
Significa intanto fare in modo che i singoli conti mastro che costituiscono le unità basiche della contabilità analitica costruita secondo le regole della partita doppia siano generati separando anzitutto i costi fissi da quelli variabili e poi raggruppando i costi per conti in una modalità coerente con la specifica area di attività.
Un esempio emblematico di mancanza di questo affinamento contabile è rappresentato dalla presenza in alcuni bilanci – che pure ci è capitato di esaminare nel nostro lavoro consulenziale – di conti quali “acquisti per materiale”, “compensi per consulenze professionali” et similia. Appare evidente che questi impropri raggruppamenti si sono tradotti nella ben poco desiderabile prassi di accoppiare all’interno dello stesso conto mastro costi di ben diversa natura e in particolare costi fissi e costi variabili. Nell’un caso accostando i costi per l’acquisto di materiale odontoiatrico a quelli relativi all’acquisto di altro materiale (ad es. cancelleria, materiale di pulizia, etc.); e, nell’altro, accomunando costi per compensi professionali di natura odontoiatrica a costi relativi alle parcelle del commercialista, del consulente del lavoro o di altri consulenti diversi da quelli strettamente legati all’attività odontoiatrica.
Che dire poi della sporadica presenza di mastri quali “altri costi” dove viene fatto confluire un aggregato di costi per volumi complessivi tali da far presagire, icto oculi, l’adozione di un piano di conti tipico di attività economiche molto distanti da quella odontoiatrica ?
Ci è capitato persino di vedere bilanci in cui, a fronte di un totale costi pari ad euro 300.000, ben 120.000 euro erano allocati in quella voce specifica.
Appurata quindi l’esigenza di raccordare i due sistemi di rilevazione contabile attraverso l’adozione di un piano dei conti di contabilità analitica coerente con lo specifico modello di business, appare opportuno indagare l’utilità per il dentista di familiarizzare anche con il secondo.
La trattazione completa del tema richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello concesso da questo articolo: ce ne occupiamo direttamente nel nostro libro “Economia e controllo di gestione dello studio dentistico” e nell’omonimo corso di fine marzo prossimo, ai quali rimandiamo per gli opportuni approfondimenti.
Quello che invece è opportuno sottolineare che è solo attraverso il bilancio e in particolare attraverso uno dei due rendiconti di cui lo stesso è composto che è possibile guardare ai risultati di gestione da un punto di vista diverso rispetto a quello restituito dalla contabilità direzionale.
Il conto economico, infatti, può aiutare il dentista a verificare i risultati della gestione in una visuale generale una volta che lo stesso si sarà impadronito del suo razionale.
In particolare è nella sua versione riclassificata che il conto economico permette di individuare agevolmente anzitutto il margine della gestione caratteristica e cioè il MOL (Margine operativo lordo). Quest’ultimo restituisce il risultato economico come differenza tra i ricavi e i tutti i costi sostenuti per l’esercizio dell’attività tipica (e cioè quella sanitaria odontoiatrica).
Si tratta di un risultato dall’importanza fondamentale poiché individua la capacità dell’azienda odontoiatrica di restituire un congruo margine attraverso l’esercizio dell’attività tipica considerando come rilevanti solo i costi sostenuti per la gestione ordinaria dell’attività. Non sono considerati tali i costi per investimenti nei beni strumentali materiali e immateriali, gli oneri finanziari o quelli derivanti da eventi straordinari.
Si tenga ben presente il fatto che tale margine non coincide con quello generale calcolato con gli strumenti della contabilità direzionale; quest’ultima ricomprende tra i costi fissi anche quelli che nella determinazione del MOL non sono contemplati. La differenza tra i due margini è pienamente giustificata dal diverso fine che i due metodi contabili si prefiggono. Nel primo caso si deve tenere conto di tutti i costi sostenuti per arrivare alla fissazione di un tariffario congruo alla loro copertura e alla creazione di un margine positivo. Nel secondo, si deve aiutare il gestore a capire se l’attività tipica produce o meno un margine positivo e quale sia quel margine in valore assoluto. Se quel margine non esiste o se non è comunque significativo quell’attività va abbandonata all’istante perché significa che la stessa non è neanche in grado di coprire i costi necessari per quella produzione di beni o di servizi che costituisce l’oggetto dell’attività. Conseguentemente, non sarà possibile coprire i costi degli investimenti sostenuti per metterla in opera, gli eventuali oneri finanziari, quelli straordinarie e le imposte sul reddito.
Tornando all’esame del conto economico, va ricordato che nella sua versione riclassificata lo stesso presenta diverse misure di redditività che individuano valori sempre più contenuti: dal risultato della gestione caratteristica si arriva a quello che si determina includendo anche gli elementi di reddito tipici della gestione extra-caratteristica e che per sua natura dovrà essere minore o eguale rispetto al MOL: in particolare, verranno sottratti a quest’ultimo tutti gli oneri di natura finanziaria così come altri oneri che vengono sostenuti per gli investimenti e che vengono ammortizzati su più esercizi.
Con particolare riferimento agli ammortamenti dei beni materiali, si deve evidenziare il fatto che i costi sostenuti per costruire la struttura odontoiatrica e implementarla hanno una natura diversa da quelli sostenuti per il suo funzionamento ed è giusto che in un’ottica olistica quale quella del bilancio, tali costi vengano collocati in diverse aree del conto economico. Resta il fatto che i margini della gestione dovranno comunque essere in grado di assicurarne, sia pure in un’ottica pluriennale, la copertura (attraverso il ben noto meccanismo contabile dell’ammortamento). Non rileva il fatto che i capitali necessari siano stati interamente messi a disposizione dal dentista. I capitali investiti devono comunque assicurare un ritorno in una logica economica e tale ritorno non può essere altro che quello assicurato dalla gestione dell’attività per l’effettuazione della quale quei capitali sono stati investiti. I capitali investiti dal dentista avrebbero potuto essere allocati in un’altra forma di investimento (magari di natura immobiliare o finanziaria) e produrre comunque una redditività positiva a fronte di un rischio ben più basso rispetto a quello che il dentista corre effettuando un’attività rischiosa per definizione. E’ questo il concetto che in Economia viene definito costo opportunità. Il dentista non può quindi difendersi sostenendo che i soldi investiti nell’attività possono anche non trovare copertura nella sua attività perché questa prassi comporta comunque il sostenimento di un costo opportunità che non appare giustificata in un’ottica di sana e prudente gestione.
Una volta sottratti anche questi oneri, il risultato economico si assottiglierà e verrà determinato come reddito operativo (RO) al lordo delle imposte.
Questa è la forma di utile che viene sempre utilizzata per confrontare aziende appartenenti al medesimo settore al fine di verificare se la redditività conseguita è più o meno vicina alla media di settore o ai migliori o peggiori dello stesso. Per effettuare tale confronto, in particolare, si utilizza un indice di bilancio che è il ROS (Return on sales). Tale indice pone a rapporto il Reddito Operativo rispetto al fatturato. Un RO di settore viene considerato molto buono se è vicino al 25%.
In particolare, il confronto tra MOL e reddito operativo, laddove il primo è normalmente superiore al secondo, costituisce un riferimento molto importante per giudicare la bontà della gestione. Se infatti la gestione caratteristica non è in grado di restituire un margine sensibilmente positivo, non ci sarà facilmente modo di coprire anche gli oneri finanziari o gli ammortamenti dei beni materiali o immateriali e tantomeno ci sarà modo di coprire i costi straordinari e le imposte sul reddito.
In questa chiave, tutto il discorso che abbiamo affrontato partendo dalla contabilità direzionale fino ad arrivare all’analisi di bilancio trova finalmente un credibile filo conduttore. Proviamo a ricapitolare le tappe essenziali di questo discorso.
Partendo dalla stima dei costi per ciascuna prestazione e da quella dei costi generali di esercizio, siamo arrivati a definire un tariffario congruo e utile al conseguimento di un margine di gestione. In questa chiave, il compenso del titolare veniva sempre incluso nei costi operativi, direttamente quando si tratta di impresa odontoiatrica e figurativamente quando si tratta di studio professionale. Il tariffario deve appunto permettere di coprire i citati costi, compresi i compensi del titolare, e di garantire il conseguimento di un margine.
Tale margine non è importante e non va valutato solo in quanto tale e con diretto riferimento ai desiderata del dentista, ma perché deve permettere di ammortizzare i costi dei beni materiali e immateriali necessari per l’esercizio dell’attività odontoiatrica; e nel caso in cui tali beni siano stati acquisiti attraverso il ricorso ad debito bancario e finanziario, deve anche permettere il pagamento delle rate, per capitale ed interessi, dei vari finanziamenti contratti.
In mancanza di tale margine positivo (e diremmo persino sensibilmente positivo) non si potrà arrivare a conseguire un margine sufficiente a coprire i costi tipici (MOL) e quelli della gestione caratteristica (RO) e tantomeno di pagare le imposte sul reddito (RN), lasciando comunque all’azienda un margine ancora positivo da conservare come riserva patrimoniale.
Se non si hanno chiari questi passaggi, su quali basi si potrà costituire un business plan per l’avvio o il rilancio di una attività ? L’unico modo alternativo è quello di procedere alla cieca, confidando, nel peggiore degli scenari possibili, nel cuscinetto rappresentato dal consumo parziale dei compensi del titolare; un cuscinetto che, in questo percorso alla cieca, potrebbe rivelarsi persino insufficiente ad evitare la caduta dell’equilibrio tra costi e ricavi.
L’analisi di bilancio poi permette di utilizzare altri indici che pongono in rapporto grandezze tratte dal conto economico con altre tratte dallo stato patrimoniale: in particolare, ponendo a rapporto il capitale investito direttamente all’origine o quello che è stato posto a riserva patrimoniale nel corso dei diversi esercizi con segno positivo.
A seconda dei casi, si potrà calcolare la redditività ponendo a rapporto il RN rispetto al capitale proprio oppure la stessa misura di reddito sul capitale totalmente investito nell’attività (e cioè l’aggregato composto da capitale proprio e capitale preso a prestito).
Avremo quindi due nuovi indici e precisamente il ROE e il ROI.
Appare evidente che in questo caso la prospettiva è completamente diversa rispetto a quella del ROS e tuttavia si tratta di una prospettiva comunque interessante e che conviene almeno sinteticamente esaminare: se per produrre un risultato di esercizio (RN) di 10.000 euro, si è dovuto investire 300.000 euro totali, di cui 150.000 di tasca propria e altrettanti presi a prestito, il ROE e il ROI saranno pari rispettivamente al 6,66% e al 3,33%. Sappiamo tutti che il dentista non investe nella propria attività nella stessa logica con cui effettua un investimento finanziario o immobiliare; tuttavia, questa evidenza non toglie efficacia ad una osservazione alquanto banale: se poteste investire un capitale in una attività senza rischio o a rischio basso ottenendo un rendimento del 2%, sareste altrettanto disposti ad investire lo stesso capitale in una attività a rischio medio-alto in cambio di un ritorno del 3,33% ?
E, ancora, sareste disposti a richiedere un prestito per un ammontare rilevante al solo fine di ottenere un rendimento medio cumulato pari al 6,66% ?
La risposta a questa domanda la può conoscere solo ciascuno di voi. Dal nostro punto di vista, questa banale osservazione non si pone certo quale scopo quello di scoraggiare l’investimento in una attività odontoiatrica, semmai quello di sensibilizzarvi in merito alle politiche di gestione ottimali che sono praticate da tutti i soggetti economici perché basate su solide ragioni economiche, le stesse ragioni che chiunque può comprendere agevolmente: nessuno che investa il proprio denaro può disinteressarsi dei ritorni di quell’investimento a parità di rischio corso e quindi ha ottime ragioni per fissare dei margini abbastanza alti da poter coprire tutti i costi tipici e gli altri elementi negativi di reddito della gestione caratteristica oltre che le imposte sul reddito, garantendo comunque un margine residuo che non possa solamente essere considerato congruo quando analizzato in valore assoluto, ma anche quando viene posto in relazione ai capitali – e poco importa se propri o presi a prestito – che il dentista ha dovuto investire in quella attività.
Forse per via di una di quelle tipiche trappole della mente di cui si occupano le cd. neuroscienze, il dentista comprende benissimo il concetto di redditività sul capitale investito e su quello proprio se effettua un investimento finanziario ma fa molta più fatica ad applicare lo stesso concetto quando deve gestire la propria attività professionale o imprenditoriale. In quest’ultimo caso vede più naturale guardare alla redditività sul fatturato. Ed è proprio questa visuale limitata ad impedirgli spesso di comprendere quanto sia importante la fissazione di un tariffario che assicuri un margine gestionale abbastanza elevato da poter rilevarsi congruo non solo con riferimento al fatturato, ma anche alla media di settore e al capitale che è stato investito nell’attività. Ed è proprio al fine di aiutarlo a superare questa trappola mentale che abbiamo scritto questo articolo e molto altro.
Molti sono coloro che a più diverso titolo e per motivazioni varie lo spingono nel considerare la ricerca del margine come una pratica eretica e degna del peggiore speculatore. Peccato che solo uno sia quello che di questa disinformazione sistematica sia chiamato a pagarne le conseguenze: il singolo dentista che ascolta questi falsi maestri.
Nessuno che applichi sane pratiche gestionali diventerà mai schifosamente ricco gestendo una attività sanitaria in una micro-dimensione come quella tipica del nostro lettore. Non si trasformerà necessariamente in un bieco speculatore, non porrà in essere in automatico alcuna deriva etica o deontologica per il solo fatto di essersi comportato come si comportano tutti gli imprenditori e professionisti oculati.
Semplicemente, assicurando il conseguimento di opportuni margini a tutte le aree della propria gestione, costituirà i presupposti per poter sempre beneficiare di riserve utili a rinnovare la struttura, effettuare investimenti e godere di un livello di benessere che si è guadagnato due volte: facendo bene il proprio mestiere di dentista e quello di gestore oculato delle proprie risorse e di quelle aziendali; le stesse risorse di cui è l’unico a conservare la responsabilità prima che la titolarità.
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