Il versamento dei contributi alle casse dell’Enpam non riguarda solo i professionisti medici e odontoiatri, ma una platea più estesa di soggetti fisici e giuridici. Le legittime istanze anti elusive dell’ente hanno promosso nel tempo un inseguimento accanito del contributo anche su terreni giuridicamente assai distanti e distinti dal professionista iscritto ad una cassa. Il risultato è una rincorsa confusa e tribolata dove, forse, si combatte l’abuso con l’abuso.
La questione relativa al contributo obbligatorio Enpam per le società è argomento assai complesso, che si presta ad inevitabili strumentalizzazioni. Queste ultime possono essere sia quelle operate dai fautori delle società a tutti i costi che quelle di coloro che tali società osteggiano.
Cerchiamo quindi di dare una lettura corretta della faccenda, partendo dalle fonti, il che non guasta mai.
L’articolo 3 del regolamento dei fondi di previdenza generale, in vigore dal 13/9/2017, afferma che:
Sono imponibili presso la Quota B i redditi gli utili e gli emolumenti derivanti dallo svolgimento, in qualunque forma, dell’attività medica e odontoiatrica o di attività comunque attribuita all’iscritto in ragione della particolare competenza professionale. A mero titolo esemplificativo, indipendentemente dalla relativa qualificazione ai fini fiscali, sono soggetti a contribuzione:
a) i redditi di lavoro autonomo svolto in forma individuale e associata;
b) gli utili derivanti da associazioni in partecipazione e contratti di cointeressenza;
c) le partecipazioni agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata;
d) i redditi derivanti dall’utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali, processi e formule;
e) i redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività intramoenia e delle attività libero professionali ad essa equiparate ai sensi della normativa vigente;
f) i redditi derivanti dalla partecipazione nelle società disciplinate dai titoli V e VI del libro V del codice civile (srl, snc, sas) che svolgono attività medica – odontoiatrica o attività oggettivamente connessa alle mansioni tipiche della professione;
g) redditi da collaborazione, da contratti a progetto, di lavoro autonomo occasionale se connessi con la competenza professionale medica – odontoiatrica;
h) i redditi percepiti per incarichi di amministratore di società o enti la cui attività sia oggettivamente connessa alle mansioni tipiche della professione medica e odontoiatrica.
Ai fini della determinazione dell’imponibile di cui al comma 2, lett. f) si tiene conto della parte del reddito dichiarato dalla società ai fini fiscali e attribuita al socio in ragione della quota di partecipazione agli utili, indipendentemente dalla relativa percezione”.
Questo significa che, se esiste una società a responsabilità limitata o di altra natura, formata in toto o in parte da medici, dal 2013 in poi, la quota di utile attribuibile ai medici viene considerata nel calcolo Enpam anche quando non percepita.
Specifico che la stessa disciplina rimane applicabile anche alle Stp.
Di recente, a questo proposito, è stata pubblicata un’intervista su Odontoiatria 33 al Dott. Malagnino di Enpam, in cui ribadiva il già noto – e dalla lettura del regolamento fin qui operata, evidente – obbligo: e cioè il fatto che il dentista che fa anche l’Amministratore dovrebbe versare, in quanto tale, i relativi contributi anche all’Enpam.
Ovviamente, lo stesso non vale se l’amministratore non è anche un medico, perché in questo caso, deve comunque iscriversi alla gestione speciale dell’INPS.
E qui veniamo ad un primo indubbio vantaggio per i medici rispetto ai non medici.
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La contribuzione Enpam per l’amministrazione infatti pesa per un 16,50% del compenso percepito (se percepito ovviamente), mentre quella INPS alla gestione separata pesa per il 25,72%.
Un non medico amministratore, quindi, paga di più.
Ovvio che se il medico amministratore decide di non percepire alcun compenso per questo specifico incarico, e decide magari di farsi retribuire solo in qualità di Direttore Sanitario, verserà i relativi contributi sul compenso per la Direzione Sanitaria, che potrebbe comunque evitare rinunciando anche ai compensi relativi a quest’ultima.
Ma l’amministratore/DS potrebbe comunque lavorare sui rimborsi spese, che non sono proprio poca cosa e comunque non equivalgono ai compensi; e quindi non sono assoggettabili ad obblighi contributivi di alcun tipo.
Se la società e l’amministratore si avvalgono, ad esempio, del metodo forfettario, la disciplina fiscale (cfr l’articolo 51, comma 5, del Tuir) permette di individuare un limite massimo, oltre il quale l’importo forfettario riconosciuto all’amministratore concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente. Tale importo massimo è pari a euro 46,48 per ciascun giorno, per le trasferte nel territorio nazionale, e basta risiedere anche di poco fuori dal Comune in cui è situata la struttura per sfruttarlo a pieno titolo e interamente.
Sul fronte della deduzione del costo in capo al datore di lavoro, l’articolo 95 comma 3 del Tuir impone un limite alla deduzione dei costi sostenuti per il rimborso delle spese al dipendente o collaboratore nella misura di € 180,76 giornalieri per le trasferte nazionali. Quindi, ipotizzando che tali rimborsi (circa mille euro al mese), possano poi integrarsi con altri rimborsi di fatto (spese sostenute interamente dalla società, da quest’ultima interamente deducibili e che non fanno reddito per il professionista) per il noleggio dell’auto, vestiti di rappresentanza, vitto e altro, ecco che con la società, lavorando bene sulle pezze giustificative, si può percepire comunque una forma di compenso senza doverlo assoggettare fiscalmente al reddito del professionista e nemmeno alla contribuzione Enpam.
E si tratterebbe comunque di spese interamente deducibili per la società.
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La questione cambia invece e molto quando l’amministratore non è un medico.
Intanto perché l’aliquota contributiva sale – come già rilevato – al 25,72% e va versata alla gestione speciale INPS (sempre se il citato amministratore percepisce un compenso in quanto amministratore, ovviamente). Il problema, tuttavia, è che qui è ben più difficile rispetto al caso del medico che l’amministratore lavori senza compenso, visto che in qualche modo dovrà giustificare la sua presenza e la sua attività all’interno della struttura.
Se poi tale amministratore è anche socio, esiste il rischio che si veda imporre anche una doppia contribuzione (una come imprenditore e una come professionista) tutte le volte che eserciti anche attività di tipo commerciale con una certa continuità all’interno della struttura.
Infatti, i soggetti che esercitano contemporaneamente un’attività da cui percepiscono redditi assoggettabili alla gestione separata e altra attività imprenditoriale (con obbligo di iscrizione alla gestione commercianti o artigiani) sono tenuti a imposizione contributiva nell’ambito di entrambe le gestioni. Questa disciplina si rende applicabile anche ai soci amministratori di Società a Responsabilità Limitata che prestano la loro attività prevalente all’interno dell’impresa e percepiscono un compenso per la loro attività.
Stante quanto abbiamo appena detto, il socio amministratore di Srl che partecipa all’attività lavorativa nella società è tenuto al versamento della doppia contribuzione alla:
Questo aspetto è stato chiarito anche dalla circolare n. 78/2013: l’Inps prende in esame il caso di socio amministratore di Srl o, più in generale, di un soggetto che svolga un’attività che lo obbliga all’iscrizione nella gestione separata Inps e una sola attività imprenditoriale (commerciante, artigiano o coltivatore diretto) che lo obbliga all’iscrizione nella corrispondente gestione commercianti o artigiani.
Nel caso del socio amministratore di Srl, che svolga una sola attività tra quelle di commerciante, ai fini dell’obbligo dell’iscrizione nella corrispondente gestione, diventa cruciale, valutare con la massima attenzione il carattere personale e abituale dell’attività lavorativa del socio, e per quanto riguarda la verifica del carattere della abitualità, la circolare n. 78/2013 offre, alcune linee guida per valutarla: sistematicità e reiterazione della prestazione, che potrebbe essere anche di breve durata, di poche ore al giorno e non tutti i giorni; presenza o assenza di altri dipendenti, secondo il suggerimento della Cassazione, sentenza 11685/2012, che ritiene legittima la valutazione del giudice di merito di ritenere provata la condizione dell’abitualità dalla circostanza che l’impresa fosse affidata al lavoro di due soli soci.
La Cassazione ha poi recentemente rafforzato, con una Sentenza del 2017, questa posizione, statuendo che sarebbero quindi da escludere, non iscrivere o cancellare dalla doppia posizione INPS, tutti gli amministratori e soci di aziende aventi una complessità della fase gestionale operativa, organizzata con addetti e risorse specifiche, che escludono l’abitualità e la prevalenza dell’apporto dell’amministratore e socio rispetto agli altri fattori produttivi.
In altri termini, salvo casi particolari, è abbastanza scontato che nel caso dell’impresa sanitaria, si possa escludere la doppia contribuzione per il socio non medico-amministratore, nella gran parte dei casi.
Ma in quella relativa alla gestione separata è sostanzialmente certa praticamente in tutti i casi.
E se provi a dribblarla, il rischio e’ alto.
Non percepire compensi – contando solo sui rimborsi . da parte del socio amministratore non medico – al solo scopo di evitare la contribuzione inps è opzione assai poco consigliabile, a differenza di quello che può valere per il medico.
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Diverso discorso può valere – tornando all’art. 3 regolamento Enpam da cui siamo partiti – per l’assoggettamento al contributo Enpam degli utili della società.
Infatti, anche se il regolamento parla chiaramente dell’utile ai fini fiscali in proporzione alla quota posseduta dal socio, e non di quello concretamente distribuito, è anche vero che chi fa una società possiede molti sistemi per aggirare l’ostacolo.
Per esempio possiede molti strumenti per far emergere un utile minore di quello che avrebbe – a parità di condizioni – se operasse come professionista; oppure può includere nella società altri soci non medici e quindi ridurre comunque, per questa via, la parte di utile non assoggettabile al contributo Enpam.
Per non parlare del fatto che, se la srl che gestisce l’ambulatorio avesse come soci anche persone giuridiche (e se magari tali persone giuridiche partecipassero tale srl-ambulatorio per una percentuale rilevante) il risultato finale sarebbe ovviamente lo stesso e cioè quello di abbassare fortemente il peso della contribuzione.
Ovviamente, questo non vale per il caso della stp, perché la stessa non può avere soci diversi dalle persone fisiche tra quelli professionisti.
Per quanto possa apparire paradossale, e anche mettendo in conto il contributo Inps per l’amministratore socio non medico, è indubbio che questo complesso sistema non fa altro che spingere i medici a cercare soci finanziatori che medici non siano, quando passano all’opzione societaria; il che fa abbastanza sorridere se si pensa alle intenzioni di chi queste regole ha scritto, dimostrando in questo senso una certa miopia.
Che poi tale commistione, quando non viziata da condotte censurabili (abusivismo e azzardo morale), possa poi avere anche altre e ben più positive valenze, non potrà che rafforzare la tendenza già illustrata.
Il medico sarà tentato di cercare un socio anche se solo finanziatore o collaboratore puramente apparente.
E veniamo ora alla novità dell’ultima ora.
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Fino ad adesso, abbiamo visto che la società di medici si vede assoggettata alla contribuzione previdenziale Enpam sui compensi di collaborazione pagati dalla società per le prestazioni mediche rese ai pazienti, sulla direzione sanitaria così come su ogni forma di compenso legato alla attività medica, compreso l’utile della società ai fini fiscali.
Ovviamente, tutta questa roba non riguardava il caso di società possedute da non medici, con la sola eccezione di quelle convenzionate con il SSN (che erano già assoggettate a un prelievo contributivo del 2% sul fatturato SSN) e per tutte le altre non convenzionate, relativamente alle prestazioni sanitarie erogate e pagate ai medici e odontoiatri collaboratori (sulle quali erano i medici stessi a pagare la quota Enpam relativa).
Ebbene, è stato istituito un nuovo meccanismo di prelievo che prende a riferimento, questa volta, il fatturato.
Entro il 30 settembre 2019 le società operanti nel settore odontoiatrico dovranno versare nelle casse della Quota “B” ENPAM lo 0,5% del proprio fatturato prodotto nel 2018.
L’obbligo nasce dall’articolo 1, comma 442, della legge di bilancio 2018 (legge 27 dicembre 2017, n. 205 – “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”).
E l’Enpam ha appena approvato una circolare, nella quale fa il punto sulla norma e le modalità operative.
Una circolare molto discutibile e scritta con evidenti intenti di natura sindacale e politica, assai creativa rispetto ai veri intenti del Legislatore.
Infatti, la Legge ha previsto che:
“Le società operanti nel settore odontoiatrico, di cui al comma 153 dell’articolo 1 della legge 4 agosto 2017, n. 124, versano un contributo pari allo 0,5 per cento del fatturato annuo alla gestione «Quota B» del Fondo di previdenza generale dell’Ente nazionale di previdenza ed assistenza dei Medici e degli Odontoiatri (ENPAM), entro il 30 settembre dell’anno successivo a quello della chiusura dell’esercizio”.
Nell’individuazione dei soggetti interessati dal nuovo obbligo contributivo, la norma citata rinvia all’art. 1, comma 153, della legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), che, dopo aver chiarito che l’esercizio dell’attività odontoiatrica è consentito esclusivamente a soggetti in possesso dei prescritti titoli abilitanti, stabilisce:
“L’esercizio dell’attività odontoiatrica è altresì consentito alle società operanti nel settore odontoiatrico le cui strutture siano dotate di un direttore sanitario iscritto all’albo degli odontoiatri e all’interno delle quali le prestazioni di cui all’articolo 2 della legge 24 luglio 1985, n. 409, siano erogate dai soggetti in possesso dei titoli abilitanti di cui alla medesima legge.”
Il successivo comma 154 prevede che, qualora sia presente un ambulatorio odontoiatrico in strutture sanitarie poli specialistiche il cui direttore sanitario non sia iscritto all’Albo degli Odontoiatri, dovrà essere nominato un direttore responsabile per i servizi odontoiatrici che possegga tale iscrizione.
E’ quindi di tutta evidenza che tale norma si applica indifferentemente a tutte le società odontoiatriche, comprese le Stp. Parla infatti di società operanti nel settore odontoiatrico, dicitura volutamente generica proprio a voler includere sia le società di gestione di servizi odontoiatrici ( gli ambulatori ) che quelle che esercitano in forma societaria l’attività squisitamente professionale odontoiatrica (STP).
E richiede – cosa che né la Legge istitutiva della Stp e tantomeno i relativi regolamenti attuativi avevano previsto – anche l’obbligo di direzione sanitaria unica.
Per avere conferma di questa mia interpretazione, basta poi andarsi a leggere i lavori preparatori di tale legge (DDL Concorrenza), dove risulta evidente che il tentativo di limitare l’esercizio delle società odontoiatriche alle sole Stp è miseramente fallito, perché bocciato dal Legislatore proprio nel corso dell’intero iter formativo del provvedimento e che questa norma quindi riguarda tutte le società e in primis le Stp. Per due anni, nell’Iter di costruzione del DDL, non si è parlato d’altro che di Stp e ora le escludiamo?
Ebbene, con una forzatura ermeneutica evidente e a nostro parere anche grave, al solo scopo di porre riparo all’evidente errore commesso nelle aule parlamentari, l’Enpam inventa una esclusione per le stp che nella legge non esiste e che costituirà un altro di quegli elementi che porterà al probabile successo eventuali impugnazioni di questo provvedimento.
Per Enpam, infatti, tale l’obbligo contributivo dello 0,5%, dovrebbe applicarsi alle società in qualunque forma costituite e, pertanto, le società di persone (società semplici, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) quelle di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata) nonché le società cooperative e mutue assicuratrici, ma non alle StP e agli studi associati.
L’attività svolta deve essere inerente al settore odontoiatrico e deve comprendere l’erogazione delle prestazioni di cui all’art. 2, della legge 24 luglio 1985, n. 409 (come la diagnosi e la terapia delle malattie dei denti e della bocca). Le prestazioni erogate all’interno di tali società, devono essere rese da soggetti in possesso dei titoli abilitanti di cui alla medesima legge. Le società in esame, ricorda ENPAM,
“devono essere dotate di un direttore sanitario iscritto all’Albo degli Odontoiatri. Le strutture poli specialistiche, il cui direttore sanitario sia privo di tale iscrizione, devono avere un direttore responsabile per i servizi odontoiatrici munito del predetto requisito. Il direttore sanitario è il soggetto che risponde personalmente dell’organizzazione tecnica e funzionale dei servizi della struttura, con obblighi che attengono alla vigilanza sui requisiti igienici e sull’idoneità delle attrezzature tecniche, sul possesso da parte del personale addetto dei prescritti requisiti professionali, nonché alla vigilanza sulla qualità delle singole prestazioni diagnostiche e terapeutiche erogate ai pazienti”.
Tale norma e il relativo regolamento Enpam di attuazione presenta tutti gli elementi per essere impugnata: infatti riguarda solo l’attività odontoiatrica degli ambulatori odontoiatrici o i reparti odontoiatrici di strutture poli-specialistiche complesse. E i relativi versamenti dovrebbero invece confluire sul un fondo che alimenta la contribuzione di tutti i medici.
Pura follia e disparità di trattamento incomprensibile e ingiustificabile.
Una follia peraltro doppia.
Non si capisce a che titolo possa chiedersi ad ambulatori non posseduti da medici di pagare le pensioni dei medici, quando gli stessi medici collaboratori pagano già l’Enpam per le proprie fatture di collaborazione. Nel caso dei convenzionati con il SSN, già sottoposti all’obbligo del versamento in ragione del 2% del fatturato, infatti, esisteva una ragione sostanziale e cioè il fatto che i medici sono quasi sempre dipendenti e quindi la loro retribuzione non era proporzionale alla produzione effettuata all’interno della struttura, per cui un correttivo si imponeva e la regola serviva a questo.
Ma nel caso dei non convenzionati, dove i medici agiscono sempre da collaboratori, la storia cambia radicalmente, perché gli stessi medici vengono retribuiti in proporzione alla produzione effettiva della struttura.
I discorsi sull’evasione contributiva del sistema dell’ambulatorio non stanno proprio in piedi ed infatti Enpam non è mai stata in grado di provarli e di andare al di là delle solite affermazioni apodittiche in questo senso.
Il professionista infatti quando opera nel proprio studio deduce i costi tipici dell’attività prima di assoggettare i propri redditi al contributo.
Nell’ambulatorio, invece, che per essere struttura aperta al pubblico non può neanche permettersi di non fatturare parte delle prestazioni, è la struttura e non il medico che si prende in carico praticamente tutti i costi e la sua fattura è ovviamente più bassa dal fatturato, ma del tutto “pulita” da tali costi.
Al netto delle spese quindi, e considerando il maggior fatturato medio che la struttura complessa riesce quasi sempre a conseguire rispetto alla media degli studi, è assai probabile che per Enpam non esista nessuna perdita di gettito per il fatto che le prestazioni vengano effettuate per il tramite della società.
Ma la cosa più assurda è che tale misura per i medici titolari di ambulatorio si traduce in un terzo e ulteriore balzello, che ora va a colpire il fatturato dopo aver colpito l’utile – anche quando non distribuito – e qualunque forma di compenso del socio-medico.
E tutto questo in un momento in cui le aliquote crescono, per le conseguenze della riforma operata nel 2013 e di cui parleremo meglio in un apposito post.
A parziale consolazione, chiarisce la nota ENPAM,
“il contributo dovrà essere determinato dalle società applicando l’aliquota dello 0,5% al fatturato annuo relativo alle prestazioni di cui all’art. 2 della legge n. 409/1985”.
Le società dovranno quindi scorporare dal fatturato le prestazioni erogate dagli igienisti dentali o quelle per altri tipi di prestazioni non inerenti alle pratiche odontoiatriche, questione questa che interesserà particolarmente i poliambulatori.
ENPAM ricorda che il legislatore ha imposto l’obbligo del versamento esclusivamente in capo alle società e non ha espressamente riconosciuto alcun diritto di rivalersi nei confronti dei medici e degli odontoiatri.
Le società quindi non potranno caricare tale contributo previdenziale scorporandolo dai compensi dovuti ai medici collaboratori.
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