L’introduzione della Legge Gelli disegna un nuovo schema di azione in caso di contenzioso medico legale determinato fondamentalmente da una più chiara dinamica contrattuale tra struttura sanitaria (o studio dentistico), paziente e odontoiatra che esegue le prestazioni. In questo senso l’opportunità di sottoscrivere veri e propri contratti di collaborazione (o di consulenza) diventa ancor più critica che in passato. Il perchè ci viene spiegato in questo articolo dall’avv. Silvia Pari dello Studio Stefanelli di Bologna.
Fra le principali novità introdotte dalla Legge n. 24/2017 (meglio nota come Legge “Gelli-Bianco”) non può non citarsi la nuova disciplina dettata in materia di azione di rivalsa esercitabile dalla struttura sanitaria nei confronti del professionista, proprio collaboratore, che sia risultato responsabile di un grave inadempimento.
La facoltà di rivalsa (anche se, correttamente, dovrebbe parlarsi di regresso) trova il proprio fondamento nell’art. 2055 c.c in materia di obbligazioni solidali, a norma del quale ciascun responsabile di un evento dannoso ha il diritto di rivalersi sugli altri corresponsabili, in maniera proporzionale alle rispettive responsabilità.
In questo senso, dunque, la struttura sanitaria è ampiamente giustificata ad agire in rivalsa (regresso) nei confronti del professionista sanitario – laddove, in ragione dell’inadempimento di questi, si sia trovata a dover risarcire un danno – ma detta azione “recuperatoria” risulta assoggettata ad alcuni limiti.
In quali termini e con quali tempistiche può, dunque, essere esercitata l’azione di rivalsa nei confronti del professionista sanitario?
L’art. 9 della Legge n. 24/2017 stabilisce che l’azione di rivalsa può essere esperita dalla struttura sanitaria:
Per quanto riguarda le strutture sanitarie private, nel caso in cui il professionista non sia stato chiamato al risarcimento direttamente dal paziente – in quanto quest’ultimo abbia ritenuto di rivolgersi esclusivamente alla struttura – l’azione di rivalsa potrà essere esercitata dalla struttura avanti al giudice ordinario soltanto entro il termine di un anno dall’avvenuto risarcimento al paziente.
Detto termine è espressamente previsto “a pena di decadenza” e pertanto, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2966 c.c., esso non può essere interrotto o sospeso se non con il concreto esercizio dell’azione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria.
La misura della rivalsa, in ogni caso, non può superare
(…) una somma pari al triplo del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo (…).
Tale misura non si applica nel caso di professionisti che prestino il loro servizio in regime libero-professionale oppure che abbiano un rapporto contrattuale diretto con il paziente.
Per quanto riguarda, invece, le strutture sanitarie pubbliche, la norma richiama il concetto di “responsabilità amministrativa” che, in quanto tale, è di pertinenza della Corte dei Conti (e la cui attuazione è demandata al Pubblico Ministero presso di essa).
Analogamente a quanto previsto in ambito privatistico, anche in questo caso la misura della rivalsa nei confronti del professionista non può superare
(…) una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo (…).
Inoltre, in tali casi, nei tre anni che seguono il passaggio in giudicato della sentenza con la quale sia stata accolta la domanda risarcitoria, il professionista non potrà ricoprire
(…) incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori (…).
Da quanto detto risulta di tutta evidenza come il tema della rivalsa, soprattutto in ambito privatistico, possa mettere in seria difficoltà il concreto svolgimento del rapporto contrattuale tra struttura sanitaria e professionista.
Al fine di evitare l’insorgere di dubbi in fase applicativa, il suggerimento è quello di definire in maniera chiara e per iscritto, già in fase di redazione del contratto di collaborazione, quali circostanze legittimano la struttura ad agire in regresso nei confronti del professionista.
Per fare questo si potrebbe, ad esempio, procedere a individuare le condotte qualificabili come “dolose” e/o “gravemente colpose”, prevedendovi sia quelle che attengano a profili più propriamente clinici (gravi violazioni dei doveri di diligenza, perizia e prudenza nell’esercizio della professione) sia quelle che riguardino i profili organizzativi (gravi inadempienze nella tenuta della cartella clinica, nella raccolta dei consensi, etc.).
In conclusione, la L. n. 24/2017 – che pure ha inciso in maniera significativa sul ruolo delle strutture sanitarie, ponendole ancor più “in prima linea” nei confronti dei pazienti – ha, altresì, fornito alcuni strumenti per consentire alle stesse di ridurre il proprio rischio d’impresa e “condividere” con il professionista gli effetti dell’eventuale inadempienza di questi.
Avv. Silvia Pari – Studio Legale Stefanelli & Stefanelli
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