La Cassazione ribadisce in una recentissima sentenza che l’operazione di leverage cash out – che permette di cedere le quote dopo averle rivalutate usufruendo del regime agevolato ad una società detenuta dalle stesse persone fisiche che hanno rivalutato la partecipazione – non acquista carattere elusivo quando è giustificata da una valida ragione economica extra-fiscale quale, ad esempio, l’esigenza di riorganizzare il gruppo societario o la singola azienda che ne fa parte e che risulta la beneficiaria finale dell’operazione.
La Cassazione ribadisce in una recentissima sentenza che l'operazione di leverage cash out - che permette di cedere le quote dopo averle rivalutate usufruendo del regime agevolato ad una società detenuta dalle stesse persone fisiche che hanno rivalutato la partecipazione - non acquista carattere elusivo quando è giustificata da una valida ragione economica extra-fiscale quale, ad esempio, l'esigenza di riorganizzare il gruppo societario o la singola azienda che ne fa parte e che risulta la beneficiaria finale dell'operazione.
Nel mondo delle riorganizzazioni societarie, ogni tanto il contribuente la spunta. E quando accade, la Cassazione ci regala delle perle da non trascurare. È il caso dell’ordinanza n. 6741/2025, dove i giudici hanno messo nero su bianco un concetto semplice quanto potente: non tutto ciò che ottimizza il carico fiscale è, di per sé, abusivo. Soprattutto se dietro c’è una reale strategia economica.
Il cuore della vicenda è una classica operazione di leverage cash out, condita da qualche ingrediente meno usuale. Tre soci di maggioranza decidono di rivalutare le proprie quote di partecipazione in una holding di famiglia, versando la cara vecchia imposta sostitutiva (allora al 4%), per poi cedere queste stesse partecipazioni a una newco di loro proprietà. Il prezzo? Una parte in contanti (grazie ai dividendi distribuiti dalla stessa holding), il resto in obbligazioni rimborsabili in vent’anni.
Fin qui, tutto sembra rientrare in un esercizio di pianificazione fiscale. Ma il Fisco non ci sta: secondo l’Agenzia delle Entrate, si tratterebbe dell’ennesimo esempio di abuso del diritto travestito da operazione societaria. Insomma, un modo furbo per intascare gli utili senza passare dal via (leggasi: senza subire la tassazione del 26% prevista per i dividendi in capo alle persone fisiche).
Eppure, le Corti di merito prima e la Suprema Corte poi hanno accolto una lettura ben più articolata. Non si trattava di un giochino di prestidigitazione contabile, bensì di un’operazione complessa con finalità concrete: liquidare i soci di minoranza, rafforzare il patrimonio netto del gruppo, migliorare l’accesso al credito e costituire una holding familiare ben strutturata. Il tutto senza passare per conferimenti che avrebbero richiesto una perizia di stima da depositare al Registro Imprese, con annesso rischio di esposizione di dati riservati.
In sostanza, il vantaggio fiscale non era “l’unica” ragione dell’operazione, né la principale. C’era un disegno di riorganizzazione, coerente e ben documentato. E allora, niente abuso del diritto.
L’insegnamento? Le operazioni societarie complesse non sono da demonizzare a priori, soprattutto quando presentano una sostanza economica tangibile. Ma attenzione: serve coerenza, documentazione puntuale e – se possibile – una sana consapevolezza del rischio di contenzioso. Perché, come sempre, il confine tra ottimizzazione e abuso non è tracciato dalla forma, ma dalla sostanza.
Morale della favola? In certi casi, il cash out non è un’uscita di sicurezza, ma l’ingresso in un percorso ben tracciato. Basta sapere dove si vuole andare.
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