La Riforma del regime dei redditi di lavoro autonomo ha modificato in misura significativa il regime dei rimborsi spese, concedendo la neutralità fiscale per il lavoratore stesso nel momento in cui documenta le spese e traccia i pagamenti delle stesse. LA Riforma rende difficilmente applicabile il nuovo regime dei rimborsi in tutti quei casi in cui il lavoratore intende avvalersi del regime forfettario in luogo di quello ordinario per la determinazione del reddito di lavoro autonomo. In questo articolo analizzeremo la tematica con il dettaglio necessario.
Nel silenzio mediatico che spesso accompagna le modifiche di natura tecnica, è entrata in vigore il 1° gennaio 2025 una novità che, pur nascosta tra i commi del D.Lgs. n. 192 del 2024 , rischia di produrre riflessi operativi rilevanti per una fetta ampia di contribuenti. Parliamo della nuova disciplina dei rimborsi analitici per i lavoratori autonomi, contenuta nell’art. 54-ter del TUIR , che introduce un principio di neutralità fiscale per le spese sostenute nell’interesse del committente e da questi riaddebitate in modo analitico.
La norma sembra chiara, almeno nella sua formulazione. Ma come spesso accade nel diritto tributario, la chiarezza testuale non equivale a semplicità applicativa. Specie se l’interprete è chiamato a integrare questa nuova previsione nel complesso mosaico delle discipline agevolate, prima fra tutte il regime forfetario.
E qui le domande si moltiplicano: la neutralità dei rimborsi vale anche per i forfetari? E se sì, con quali conseguenze sul computo del tetto di 85.000 euro? Oppure siamo di fronte a un ambito di esclusione tacita? Le risposte, come vedremo, non sono né univoche né definitive.
La disposizione cardine introdotta dalla riforma — contenuta nell’art. 54-ter del TUIR — stabilisce che i rimborsi analitici ricevuti dal professionista non costituiscono reddito imponibile, e che le relative spese non sono deducibili. Siamo di fronte a un’impostazione di tipo simmetrico: ciò che esce e rientra non si computa. È un principio che si afferma con chiarezza e coerenza, ponendosi in linea con una logica di netta distinzione tra componenti propri dell’attività professionale e mere anticipazioni sostenute nell’interesse diretto del cliente.
La ratio è evidente: evitare che le somme anticipate per conto del committente generino una duplicazione impositiva o un’asimmetria nel trattamento fiscale. In assenza di questa norma, infatti, il professionista che riceve un rimborso analitico si vedrebbe imputare tale somma come compenso, con l’onere di dedurne la relativa spesa. Un gioco a somma zero, certo, ma solo se la spesa è effettivamente deducibile e correttamente documentata.
La nuova regola azzera il problema, e va salutata positivamente.
Se per i contribuenti in regime ordinario il principio si applica senza ambiguità, la questione si complica quando entra in gioco il regime forfetario di cui alla Legge n. 190 del 2014. In questo caso, il sistema di determinazione del reddito non è fondato sulla contrapposizione tra costi e ricavi, bensì sull’applicazione di un coefficiente di redditività forfetario ai compensi percepiti.
L’art. 1, comma 64, della citata legge è chiaro: non si deduce nulla, tutto è inglobato nel coefficiente. Ma se i costi sono irrilevanti, può una somma incassata a titolo di rimborso essere esclusa dalla base imponibile? O meglio: può non essere considerata “compenso” ai fini del tetto degli 85.000 euro annui, soglia oltre la quale il regime forfetario cessa di essere applicabile?
Non esistono — almeno per ora — chiarimenti ufficiali aggiornati che risolvano questa ambiguità. Ma possiamo costruire due ipotesi interpretative, entrambe fondate su argomenti non banali.
Secondo la prima tesi, più ampia e “inclusiva”, i soggetti che applicano il regime forfetario restano pur sempre lavoratori autonomi (o imprenditori individuali), e pertanto rientrano nell’ambito applicativo soggettivo della norma. Il fatto che il reddito sia determinato in forma forfetaria non fa venir meno la natura del reddito stesso, né la tipologia delle somme percepite.
Secondo questa lettura, i rimborsi analitici non dovrebbero essere considerati “compensi” nemmeno per i forfetari, né ai fini del calcolo dell’imponibile né ai fini del superamento della soglia.
Si tratta di un’interpretazione coerente con quanto sostenuto, ad esempio, nella Circolare n. 5/E del 2021, laddove l’Agenzia assimilava — in occasione dell’emergenza COVID — il trattamento dei rimborsi per tutti i soggetti, inclusi i forfetari.
In questo scenario, l’impatto pratico è importante: i forfetari che ricevono abitualmente rimborsi spese analitici (per viaggi, pernottamenti, trasferte) potrebbero continuare a beneficiare del regime agevolato anche superando formalmente la soglia degli 85.000 euro, purché ciò avvenga solo a causa di rimborsi documentati.
Di segno opposto è l’interpretazione “restrittiva”, secondo cui la neutralità introdotta dall’art. 54-ter si applica solo ai contribuenti che determinano il reddito in forma analitica. L’argomento è semplice: la norma prevede simmetricamente l’esclusione dal reddito e la non deducibilità del costo. Ma nel regime forfetario, non si deduce nulla, e quindi l’equilibrio normativo viene meno.
Secondo questa lettura, quindi, i rimborsi analitici continuano a essere trattati come compensi se percepiti da un forfetario, sia ai fini del computo della soglia che della determinazione dell’imposta sostitutiva.
È una tesi che ha una sua coerenza logica e sistematica. Ma comporta un’evidente asimmetria rispetto al regime ordinario, con conseguente penalizzazione dei forfetari rispetto ai “colleghi” che adottano l’ordinario. Ed è proprio questa distorsione che induce molti interpreti a considerarla problematica.
Se la neutralità fiscale dei rimborsi valesse solo per chi opera in regime ordinario, si verificherebbe un effetto paradossale: chi sceglie la semplicità del forfetario finirebbe per essere fiscalmente penalizzato rispetto a chi adotta il sistema analitico.
Nel concreto, il professionista ordinario potrebbe non includere nella base imponibile 10.000 euro di rimborsi analitici, mentre il collega forfetario sarebbe costretto a includerli, rischiando di superare la soglia e di essere espulso dal regime.
Un disincentivo all’utilizzo del regime agevolato che pare contrario allo spirito della riforma fiscale nel suo complesso, che mira (almeno sulla carta) a favorire semplificazione, equità e certezza del diritto.
La norma contiene anche alcune eccezioni al principio di non deducibilità, in caso di:
prescrizione del credito;
mancato pagamento dopo un anno;
importi inferiori a 2.500 euro.
Ma si tratta di previsioni inapplicabili ai forfetari, perché questi non deducono alcuna spesa. Non rileva quindi che la spesa sia rimasta “in pancia” al professionista. La perdita economica esiste, certo, ma il fisco non la vede.
Con la Legge n. 207/2024, è stato introdotto un vincolo di tracciabilità per la deducibilità, da parte del committente, di alcune spese sostenute per conto del professionista (vitto, alloggio, taxi). Se non sono tracciate, non sono deducibili.
Questo obbligo, sebbene non gravi direttamente sul forfetario, lo coinvolge in modo indiretto. Infatti, se il professionista riaddebita una spesa non tracciata, il committente rischia di perdere la deducibilità. Da qui, l’esigenza per i clienti di esigere una documentazione impeccabile, anche da soggetti che, come i forfetari, sono teoricamente svincolati dagli obblighi contabili.
Il nuovo regime dei rimborsi analitici porta con sé un rischio sistemico: quello di una doppia interpretazione. Finché non interverrà un chiarimento ufficiale — auspicabilmente con una circolare dell’Agenzia — ogni operatore resterà esposto al rischio di contenzioso o di errore involontario.
Per ora, l’unica prudenza è quella dell’eccesso: trattare i rimborsi come compensi anche per i forfetari, e documentare tutto. Ma non è una soluzione soddisfacente. Perché una riforma che nasce per semplificare, se non spiegata, rischia di produrre l’effetto opposto.
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