Esiste una notevole differenza tra perseguire una redditività che possa considerarsi congrua e massimizzare in misura continua e persistente quella redditività. Si tratta della stessa differenza che corre tra le strategie obbligate della grande impresa quotata in borsa e la micro-impresa del dentista. Comprendere questa differenza da parte del dentista può aiutare il medesimo a interpretare il contesto presente e futuro in cui si trova ad operare ma anche i suoi punti di forza e di debolezza rispetto ai principali competitors. Proveremo ad aiutarlo a raggiungere lo scopo con questo articolo.
Nel precedente articolo Sulla Redditività della Struttura Odontoiatrica , la cui lettura consideriamo indispensabile prima di affrontare questo, abbiamo passato in rassegna le tante valide ragioni che devono spingere una struttura sanitaria verso il perseguimento di un congruo margine di utile. E abbiamo anche specificato quali siano i criteri attraverso i quali può definirsi congruo questo margine di redditività.
Abbiamo anche ricordato che spesso nell’ambiente tipico dei medici e degli odontoiatri tale strategia venga spesso osteggiata e erroneamente assimilata alla pura speculazione. A spiegare questo diffuso pregiudizio non basta menzionare la generale ignoranza dei fatti economici da parte della categoria medica e odontoiatrica. Molto più rilevante è l’osservazione di una prassi diffusa nel mondo delle grandi aziende e delle multinazionali quotate in borsa, con particolare riguardo al settore finanziario. Questa prassi viene spesso interpretata come la Prassi di tutte le imprese, quando in realtà è solo quella delle grandi imprese quotate in borsa.
In quella parte di mondo, infatti, non ci si limita a conseguire una redditività crescente nel tempo, il che sarebbe ancora comprensibile e persino accettabile. Si punta a massimizzare il profitto con ogni mezzo possibile e in particolare “andando a leva”, come dicono i tecnici. E cioè facendo ampio ricorso al debito per finanziare l’incremento di produzione e di vendita e per questa via provocare la crescita dell’utile.
Tutto ciò fa sì che per comprendere la peculiare visuale di questi macro-operatori risulta necessario sottolineare le molte differenze con quella della micro-impresa e in particolare le diverse condizioni di operatività e del reperimento del capitale che caratterizzano la prima rispetto alla seconda.
Nella grande impresa – costituita quasi sempre nella forma della società per azioni – il capitale è fortemente parcellizzato e quotato sui mercati di borsa. Il pacchetto azionario che assicura il controllo della società e che permette di nominare gli amministratori è di solito molto contenuto: in alcuni casi persino inferiore al 5% del capitale. Il che comporta che la parte restante e prevalente del capitale sia di fatto suddivisa in quantità unitarie di modico valore tra un enorme numero di piccoli operatori, che non sono interessati alla gestione della società ma solo ai suoi risultati in termini di utile (è il modello della cd. public company e/o dell’azionariato diffuso).
Questi piccoli azionisti possono trarre guadagno dalla detenzione di tali titoli azionari percependo il dividendo (quando la società decida di distribuirlo, il che accade di rado) oppure vendendo il titolo ad un prezzo più alto rispetto a quello di acquisto. Quel prezzo sale o scende sulla base delle aspettative sull’andamento futuro degli utili di quella società, oltre che in funzione di altre variabili di minore rilevanza (ciclo economico, congiuntura internazionale, ciclo di borsa, andamento dei tassi di interesse, politica monetaria delle banche centrali, andamento del settore cui appartiene la società quotata, etc.). Le aspettative al rialzo creano una domanda di quel titolo sul mercato di borsa che eccede l’offerta e ne favoriscono il rialzo del prezzo. Le aspettative al ribasso comportano effetti diametralmente opposti a quelli appena descritti.
Se quindi il prezzo sale solo se ci sono aspettative di incremento degli utili prossimi futuri e quindi il relativo titolo è appetibile per l’azionista, risulta evidente che la gestione dell’impresa è fortemente orientata a perseguire quell’obiettivo se vuole guadagnarsi il diritto di attrarre capitali dal mercato azionario.
La quotazione sui mercati regolamentati comporta poi un effetto importante sulla pronta liquidabilità dell’investimento; l’investitore può disfarsi del titolo con una relativa celerità e trasformarlo in liquidità in tempi molto ristretti, senza che la società emittente sia in nessun modo coinvolta.
Se poi si torna a guardare all’impresa sotto il profilo gestorio, si deve osservare come sia molto raro il caso in cui i detentori del pacchetto di controllo siano anche e contemporaneamente gli amministratori della società.
Questi ultimi sono quasi sempre degli amministratori professionisti, che guardano alla gestione con l’ottica di un analista di borsa, il quale vede sempre previlegiare obiettivi di redditività di breve periodo e concepisce il proprio ruolo gestorio unicamente nell’ottica di massimizzare i risultati reddituali di breve termine. Nell’ottica di costoro, il medio lungo termine come prospettiva reddituale praticamente non esiste, se non come sommatoria dei risultati di breve termine. Inutile aggiungere che gestire un’impresa con quest’ottica significa sottovalutare tutte quelle sane determinanti che ne fanno crescere il valore nel medio lungo termine, anche se l’effetto potrebbe essere quello di limitare quelli di breve. Un esempio varrà a chiarire la questione: nessun amministratore proprietario dell’azienda taglierebbe i costi per il controllo di qualità per favorire la formazione di un utile di breve termine più alto del normale, perché non vorrebbe correre il rischio che eventuali danni reputazionali possano inficiare – in un futuro più o meno prossimo – il conseguimento dell’utile di medio-lungo periodo e della crescita della sua azienda. I fatti di cronaca ci raccontano che alcuni manager delle grandi imprese quotate si fanno molto meno scrupoli nel replicare queste e altre simili condotte.
Gli analisti di borsa, il cui giudizio risulta spesso determinante sull’andamento della quotazione di un titolo azionario, guardano alle prospettive reddituali e di crescita a breve anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, il pacchetto azionario quotato sul mercato viene spese detenuto, perlomeno in gran parte, da intermediari finanziari (fondi di investimento, sicav, fondi di private equity) che sono interessati al rendimento a breve perché ogni anno devono fare i conti con le aspettative dei risparmiatori finali; i quali ultimi sono gli stessi che a loro hanno affidato i propri risparmi con l’obiettivo di farli rendere quanto più possibile.
La gran parte dei detentori delle azioni di quella società, sia che lo facciano direttamente acquistando quei titoli, come anche indirettamente, acquistando quote di fondi che investono in un portafoglio diversificato di titoli al cui interno è compreso anche quel titolo, ragiona esattamente nella maniera descritta.
Si tratta di un meccanismo che coinvolge l’intero sistema economico e finanziario, compresi quei medici che sono soliti tuonare contro la finanza che investe anche in strutture sanitarie pronte a fare loro concorrenza. Appena gli stessi medici indossano il vestito del risparmiatore e si rivolgono a colui che gestisce i propri risparmi, nutrono aspettative del tutto allineate a quelle dominanti che abbiamo descritto e che caratterizzano l’intero sistema economico-finanziario contemporaneo.
Quando si paragona questa situazione a quella della micro-impresa, le differenze appaiono evidenti: in quell’ambito il pacchetto di controllo è in mano allo stesso titolare effettivo che amministra l’impresa e che la controlla con percentuali bulgare del suo capitale (dal 51% delle quote in su). Per ragioni fiscali, tale soggetto preferisce non distribuire gli utili dalla società ai propri conti personali, anche perché può estrarre reddito dalla stessa in altre e per lui più convenienti forme (compensi professionali, compensi e rimborsi dell’amministratore, etc.). Il reperimento di eventuali soci costituisce pratica assai sporadica e quando praticata si limita al contesto privato, non potendo certo il dentista – quando opera in qualità di micro-imprenditore – collocare quote della sua società su un mercato regolamentato di borsa e potenzialmente aperto a qualsiasi risparmiatore. La visuale gestoria, poi, non è quasi mai quella della massimizzazione del profitto a breve termine, in quanto l’amministratore-dentista deve rendere conto in misura molto più ridotta rispetto ai propri macro-competitors a soggetti esterni e al mercato in genere; inoltre, essendo anche il proprietario dell’impresa, il suo fondatore, oltre che colui che partecipa direttamente al processo di produzione della stessa, sarà sempre tendenzialmente portato a previlegiare una crescita organica e prudente della sua azienda e dei suoi risultati reddituali, secondo la logica tipica del conseguimento del profitto in una visuale di medio-lungo termine.
La possibilità di reperire capitali a debito costituisce per lui l’unico modo di accedere al mercato dei capitali esterno, mentre per la grande impresa quotata in borsa ciò è possibile, come appena spiegato, anche per il capitale proprio. Per quest’ultima, in realtà, il capitale proprio reale è solo quello che serve a controllare la società, mentre tutto quanto è quotato sui mercati finanziari regolamentati costituisce un unico e grande aggregato che possiamo definire come capitale esterno e poco importa se si tratta di capitale preso a debito o reperito drenando risorse di azionisti privati, che non sono evidentemente interessati al controllo e alla gestione diretta della società ma al puro guadagno finanziario sul proprio investimento.
Quasi non bastasse, persino nello specifico segmento del capitale preso a prestito, la grande impresa possiede una marcia in più. La stessa può infatti reperire risorse anche sul mercato del capitale di debito non solo attraverso il canale bancario, ma ancora una volta attraverso quello finanziario. Può quotare sui mercati titoli di debito (obbligazioni) e farsi finanziare dai piccoli risparmiatori, suddividendo il rischio creditorio su un numero altissimo di creditori-piccoli risparmiatori, i quali ultimi possono rientrare dal proprio investimento in pochi giorni. semplicemente vendendo il titolo precedentemente acquistato ad altri risparmiatori (facile liquidabilità), senza che questa operazione influisca minimamente sulla cassa dell’emittente. Una caratteristica molto diversa da quella che qualifica il creditore bancario: quando costui richiede il rientro dalla posizione debitoria, è l’azienda debitrice a dover far fronte alla richiesta con le proprie disponibilità di cassa.
Ovviamente, la micro-impresa del dentista agisce in questo ambiente e non certo in quello della grande impresa quotata in borsa, essenzialmente perché non è abbastanza grande da poter accedere a quel canale previlegiato.
La grande impresa quotata, persino quando si rivolge ad una banca per richiedere un finanziamento, potrà contare su un trattamento previlegiato rispetto alla micro-impresa, non foss’altro perché sono proprio i grandi debitori quelli che la banca tratta con maggiore attenzione e tolleranza e anche per il fatto che spesso finanziamenti di alto ammontare vengono spesso condivisi da più istituti di credito (cd. finanziamenti in pool).
Tuttavia, si deve porre in evidenza il fatto che anche la grande impresa quotata in borsa paga dei prezzi per poter rimanere inserita in quel contesto di facile reperimento di capitali.
In particolare, la grande impresa che emette titoli di debito sul mercato è soggetta in misura maggiore al giudizio sulla propria redditività futura rispetto a quella micro, e quel giudizio influenza il corso anche di questi titoli obbligazionari; come anche le possibilità di emetterne di nuovi per finanziare nuovi e più ambiziosi processi di investimento. E influenza, in misura determinante, la stessa filosofia di gestione di queste società.
Il meccanismo appena descritto opera, in ultima analisi, come una potente leva che spinge le grandi imprese quotate verso la continua e ossessiva massimizzazione dei risultati reddituali. Questo operatore dell’Economia vede legato al perseguimento di questo stringente obiettivo le sue stesse prospettive di sopravvivenza nell’attuale contesto dell’Economia finanziarizzata.
Niente del genere può valere per la microimpresa del dentista, il quale avrà sicuramente minori possibilità di accedere al mercato dei capitali e tuttavia, per naturale contrappasso, resterà relativamente libero di perseguire una strategia di crescita a medio-lungo termine in cui sia conseguita una redditività congrua e non sia anche presente la forzata ossessione di doverla massimizzare continuamente.
Il micro-imprenditore dentista, insomma, non deve rendere conto al contesto esterno – o al più lo deve fare entro certi limiti – e alle aspettative dei mercati finanziari.
Il suo grado di autarchia economica è ben più marcato e il fatto di voler assumere tutti i ruoli compreso quello di azionista (o per meglio dire, quotista visto che opera tramite s.r.l. e non con una s.p.a. quotata) di maggioranza assoluta o di unico socio e di amministratore, lo conduce verso un rapporto con la redditività del tutto diverso da quello appena descritto e gli garantisce un grado di libertà molto superiore.
Tuttavia, anche il micro-imprenditore dentista farebbe bene a capire le determinanti della gestione dei suoi presenti o futuri competitors. E dovrebbe farlo sia al fine di capire le condizioni di mercato del settore in cui opera come anche al fine di comprendere i suoi punti di forza e di debolezza.
Non è un caso se molti operatori finanziari, come i fondi di private equity e altri, investano nel settore sanitario e odontoiatrico e che lo facciano, soprattutto, sfruttando la leva del debito o per meglio dire del capitale esterno. Capitale esterno che nel loro caso è sia quello azionario che quello preso a debito, come appena spiegato.
Per completare il quadro delle differenze salienti ci manca un ultimo e fondamentale passaggio: che è quello appunto di spiegare come la grande impresa non incontri praticamente alcun limite alla propria capacità di produzione e vendita sul mercato transnazionale. Questo è sicuramente vero per il comparto finanziario e lo è anche, sia pur in misura più contenuta, anche per quello industriale e commerciale in genere.
Le grandi aziende quotate in borsa possono contare su un mercato molto vasto, molto spesso coincidente con una importante porzione di quello globale. Un mercato che possono aggredire anche con potenti strategie di marketing, creando nuovi desideri di acquisto e aspettative e ponendosi nella condizione di poter produrre e vendere quantità crescenti dei propri prodotti e servizi.
Molte di queste macro-aziende hanno sperimentato e applicato una capacità gestionale tale da poter comunque assicurare un certo livello di redditività attesa del capitale investito (e cioè sia quello proprio che quello a debito) e quindi di ROI.
Ne deriva la fondamentale conclusione che questo tipo di aziende utilizza il capitale preso a debito al fine di massimizzare l’utile atteso in valore assoluto, finanziando con esso un continuo aumento della produzione, per poi andarla a vendere sul mercato globale e ricavarne un ROI che resta più o meno agganciato a quello storico e atteso.
I risultati di tale strategia sono molto potenti: per un ROI atteso pari al 15%, i risultati in termini di utile, inteso in valore assoluto, aumentano: investendo un milione di euro si ottiene un reddito operativo pari 150.000 €, investendone due si ottiene un reddito operativo pari a 300.000 €.
Ovviamente, questa massimizzazione dell’utile operativo si traduce anche in un aumento della redditività per l’azionista (ROE). E questo l’effetto leverage, che può essere descritto matematicamente dalla seguente formula:
ROE = ROI + (D/E) (ROI-i)
Ove D/E rappresenta la leva finanziaria e cioè il rapporto tra capitale proprio e capitale preso a prestito e i è il costo del capitale presto a prestito.
L’equazione ci suggerisce che in presenza di un costo del capitale preso a prestito (interesse pagato alla banca più oneri connessi) inferiore alla redditività attesa del capitale investito, tanto più sarà alta questa differenza e tanto più sarà innalzata la leva finanziaria – e cioè tanto più l’azienda aumenterà il volume dei capitali presi a prestito –, tanto maggiore sarà la redditività dell’azionista.
E noi abbiamo già spiegato i motivi per i quali, nella grande impresa quotata, la redditività dell’azionista sia l’unico reale obiettivo che conti massimizzare.
Quello che tuttavia spesso sfugge, anche perché costituisce un concetto evidentemente controintuitivo – è che proprio l’aumento del debito costituisce quell’elemento che funge da benzina principale a questa ricercata massimizzazione.
Questione che ovviamente comporta effetti di non secondaria importanza sul sistema economico visto nel suo complesso.
Non solo perché spinge tutti gli operatori verso un aumento senza limiti dei debiti; ma perché vincola le aziende di grande dimensione a previlegiare la massimizzazione del profitto di breve rispetto a qualunque altro obiettivo.
Naturalmente, le grandi aziende quotate in borsa non si faranno certo scrupolo nel ricercare strategie utili a massimizzare la redditività anche con altri sistemi, quali la continua ricerca del contenimento dei costi operativi o altre pratiche improntate all’azzardo morale, anche se tale contenimento e tali pratiche rischiano di andare a scapito della qualità e del servizio. Si spiega in questo modo, ad esempio, il fatto che siano proprio le aziende più floride a licenziare i propri dipendenti e persino quelli di maggiore esperienza e capacità.
Sull’altare della massimizzazione del profitto, ogni altra priorità diviene forzatamente secondaria: tutto ciò suona fortemente disturbante all’orecchio dell’uomo di buon senso e peraltro con piena ragione, ma è del tutto coerente al sistema che l’uomo ha costruito. In quel sistema, se vuoi ballare, lo devi fare a tempo. In caso contrario, non hai alcuna possibilità di competere e sopravvivere.
Inoltre, questa osservazione deve spingere il dentista a riconsiderare il proprio ruolo e la propria forza anche contando sui punti deboli del suo più pericoloso competitor; per il dentista imprenditore sarà sempre più facile puntare alla qualità del servizio e al pieno controllo della dimensione clinica e questa condizione potrebbe permettergli di ricavarsi una quota di mercato anche se sotto altro profilo le condizioni cui può reperire capitali sul mercato sono meno favorevoli.
Giudizi di valore a parte, quanto appena descritto spiega ad esempio anche il motivo per il quale la Finanza investe nelle catene odontoiatriche e continua a pompare in quelle forti iniezioni di liquidità.
Si deve tenere presente che le catene odontoiatriche più robuste e che sono sopravvissute alla prima fase di espansione di questi operatori hanno sviluppato la capacità di produrre un ROI interessante.
La Finanza quindi ha tutto l’interesse a finanziarle continuamente per i loro processi di sviluppo, perché sa molto bene – e spesso è proprio Lei a spingerle in questa direzione – che costoro utilizzeranno quei capitali per aprire nuove strutture – e/o per comprarne già avviate da esperti dentisti – e per replicare quella redditività attesa in un maggior numero di casi.
Tutto ciò non potrà che aumentare il valore assoluto dei redditi prodotti dalle catene e anche quelli dei loro azionisti, cioè gli intermediari finanziari. Operatori, questi ultimi, che peraltro trovano quei fondi sul mercato dei capitali a debito con una relativa facilità e a condizioni economiche di assoluto previlegio, rispetto a quanto potrebbe valere per qualsiasi altro grande operatore.
E la Finanza è ormai diventata la Regina di questo contesto: poiché trovare soldi sul mercato dei capitali a debito costituisce il suo principale mestiere, la Finanza sarà sempre alla ricerca di un sottostante – un’attività reale e redditizia – sulla cui base fare leva attraverso il debito per massimizzare i propri ritorni reddituali. Parafrasando il Colonnello Nathan Jassep del film “Codice d’Onore”: “è tutto qui. Semplice!”.
In questa chiave, si spiega perfettamente anche il motivo per il quale le catene che comprano gli ambulatori dei dentisti faranno di tutto per spingere quei dentisti a restare, con tutto il proprio staff, nell’ambulatorio che ormai controllano per diversi anni successivi alla cessione delle quote di maggioranza, proprio perché a loro interessa che la redditività storica conseguita dal dentista possa essere ripetuta anche dopo il loro subentro nella proprietà e anzi che possa anche essere incrementata, attraverso il booster aggiuntivo rappresentato dalle loro economie di scala e di scopo.
Ovviamente, le catene faranno attenzione nello scegliere quelle strutture sanitarie guidate da dentisti che abbiano dimostrato nei fatti di saper ottenere una certa redditività attesa attraverso un’impresa societaria. Il dentista che opera in forma di studio professionale a loro non interessa e non può interessare per motivi a questo punto facilmente intuibili; e se per caso ne trovano uno che avrebbe i requisiti ricercati lo spingono a trasformare lo studio in s.r.l. prima di comprare le quota di maggioranza di questa.
Il che, in ultima analisi, ci riporta al punto di partenza e cioè alla necessità di conseguire una redditività congrua anche al fine di poter vendere la propria attività a chi avesse la capacità di acquistarla, concetto che abbiamo spiegato in Sulla Redditività della Struttura Odontoiatrica .
In una prospettiva più generale, capire queste logiche non serve solo a capire e gestire il presente e il contesto concorrenziale odierno, ma anche a immaginare un futuro più o meno lontano.
I dentisti non potranno mai accedere al mercato dei capitali perché non sono abbastanza grandi da poter integrare le condizioni di accesso a quei mercati e forse non ne sono neanche minimamente interessati. E sarebbe anche difficile dare loro torto, viste le dinamiche e le degenerazioni implicite che sono tipiche di quel contesto.
Ma potrebbero un domani accedere ad una versione in miniatura di quei mercati che già oggi sono nati e sono in piena espansione: quelli dell’equity crowdfunding. Che altro non sono che piccoli mercati dei capitali al cui interno i piccoli risparmiatori, anche perché stomacati dall’azzardo morale che ha dimostrato il settore degli intermediari finanziari fino ad oggi, possono decidere di scavalcarli e di andare a finanziare direttamente piccole e micro-impresa.
In questa chiave, non sarà tanto la volontà del singolo dentista a spingerlo nel reperire fondi su quei mercati e a porre in essere strategie improntate all’utilizzo del leverage; tuttavia, in questa direzione potrebbe spingerlo il mutato contesto competitivo.
Se pensiamo a come è cambiato quel contesto negli ultimi vent’anni, possiamo immaginare che, con la crescita della concorrenza all’interno del settore e la massiccia fuoriuscita dei dentisti che hanno iniziato l’attività in un’altra era, potrebbe prodursi una tale spinta competitiva da costringere anche il singolo dentista ad utilizzare queste tecniche al fine di evitare l’emarginazione dal proprio settore e dal proprio mercato di cure sanitarie.
Del resto, si tratta di leve così potenti e pervasive da rendere superfluo ogni tentativo di arginarle facendo ricorso agli strumenti della Morale e della Deontologia.
Giunti a questo punto, ci corre l’obbligo di essere intellettualmente onesti: trovare una sintesi tra l’evoluzione del contesto economico e queste dimensioni professionali ed etiche potrebbe rilevarsi comunque, nella migliore della ipotesi, un esercizio molto complicato.
Ed è inutile aggiungere che date le condizioni di contesto l’unico operatore che ha qualche possibilità di successo in questo senso non può che essere uno e uno solo: il dentista.
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