La redditività dell’azienda odontoiatrica costituisce il naturale presupposto per la preservazione della salute dell’azienda e per permettere alla stessa di continuare ad erogare prestazioni di qualità nel tempo. Esistono diversi modi per valutare l’effettiva congruità di tale redditività a disposizione degli operatori ed è nel primario interesse del dentista capirne il razionale e darsi da fare per metterli in pratica.
Il dentista comune fa una certa fatica a comprendere le ragioni per le quali il suo capitale che ha investito nel proprio studio debba ottenere una certa redditività e persino che ciò sia richiesto per il capitale che ha preso a prestito dalle banche o dalle finanziarie.
Ad alimentare questa confusione contribuiscono diversi elementi: la mentalità tipica del settore, tesa ad alimentare un disprezzo per la redditività e per il lucro, spesso confusi con la speculazione fine a sé stessa; la completa mancanza, nella formazione universitaria del dentista, di qualunque nozione di economia e in particolare di economia d’azienda; le modalità assai peculiari della contabilità e fiscalità cui è sottoposta la gran parte dei dentisti che agisce in veste professionale e non imprenditoriale.
La verità tuttavia resta la stessa: la gran parte dei dentisti italiani pone in essere – e poco importa se ne sia più o meno consapevole – attività lucrative e viene giudicata dal contesto esterno secondo i parametri tipici di quelle attività.
La più consistente conquista che il dentista possa portare a casa in questo quadro è quella di comprendere queste determinanti prima che siano i fatti di gestione a spingerlo verso il muro delle incompatibilità di vario genere: incompatibilità che possono a loro volta manifestarsi, ad esempio, nel non avere il denaro per rinnovare le apparecchiature o nel rendersi conto che lo studio su cui tanto ha lavorato risulta praticamente invendibile o vendibile per controvalori assai inferiori alle sue aspettative.
Il web pullula di offerte di professionisti che si offrono di periziare gli studi dei dentisti per determinare il valore di una possibile cessione degli stessi: meno praticata è l’abitudine di spiegare per tempo ai dentisti stessi come lavorare in funzione di una futura cessione dello studio. Le perizie sul valore costituiscono infatti l’ultimo passo – e nemmeno il più importante – di questo complesso processo.
Nella mente di molti dentisti matura spesso l’illusione che un’azienda sana debba coprire i costi e pagare il suo professionista per le sue prestazioni professionali. Nulla di più perché ogni ulteriore guadagno equivarrebbe a praticare una forma di speculazione non degna di un medico.
Di fatto, come pure abbiamo spiegato tante volte, questa mentalità è la stessa che spinge la gran parte degli studi italiani a non riuscire nemmeno a coprire tutti i costi dello studio; è molto frequente osservare dentisti titolari usi a finanziare l’equilibrio dei conti con una parziale rinuncia ai propri compensi professionali per l’attività professionale.
Ad alimentare questa illusione contribuisce il fatto che l’utile del professionista ricomprende i suoi compensi professionali. Quest’ultimo non è quindi spesso in grado di distinguere l’utile vero e proprio dalla copertura dei costi di produzione (tra i quali rientrano anche i propri compensi). Ed è proprio in questo fondamentale passaggio che si annida l’origine dei suoi guai.
Di questo tema abbiamo tuttavia parlato molte volte. Quello che ci preme in questa sede è fare un passo ulteriore nella comprensione di queste dinamiche.
Ammettiamo, a puri fini didattici, che il dentista sia stato in grado di coprire tutti i costi, compreso il suo compenso e che lo abbia fatto persino ad una percentuale figurativa del tutto simile a quella che paga ai suoi collaboratori.
Perché mai dovrebbe sforzarsi di andare oltre, ricavandosi un utile? E soprattutto, quanto dovrebbe essere grande questo utile, o se preferite quella redditività, per essere definita congrua? E congrua, infine, rispetto a quali parametri?
Chiariamo subito che nulla o nessuno impedisce al dentista di porre in essere un’attività economica il cui unico obiettivo sia la copertura dei costi e al massimo un ben risicato avanzo. Il dentista resta padronissimo di costituire una società cooperativa e/o altra forma giuridica ammessa dal nostro ordinamento, in cui lo scopo lucrativo sia escluso.
Ciò che deve essere chiaro è che né lo studio professionale, né la società commerciale (sas, sapa, srl, sas) appartengono a questa famiglia e neppure vi appartiene la stp.
Queste sono tutte considerate dal nostro ordinamento come società lucrative. Persino nel caso della società benefit lo scopo lucrativo permane e al massimo può essere calmierato dal perseguimento di scopi anche sociali.
Se le forme giuridiche attraverso le quali la gran parte dei dentisti esercita sono tutte improntate al perseguimento di un lucro, appare inutile forzare la mano e spingerle a comportarsi contro natura. E oltre che inutile appare persino controproducente.
Vediamo la cosa dal punto di vista di chi finanzia i dentisti e del contesto esterno in genere.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, il punto di vista di una banca, cui il dentista si rivolga per richiedere un finanziamento utile a far partire la propria attività.
Questa Banca non è tanto e semplicemente interessata alla restituzione del capitale prestato e degli interessi da parte del dentista. La banca vuole sapere se quel dentista con quel denaro prestato è in grado di porre in essere un’attività lucrativa e di guadagnare da questa attività ben più di quello che paga per prendere in prestito il denaro. La banca è quindi anche interessata a valutare la redditività di quella specifica azienda.
Se il dentista paga il 3% annuo di interesse per farsi prestare un capitale, la banca si aspetta che lo stesso dentista su quel denaro guadagni almeno il 10%. Per come la vede la banca, se questo non dovesse accadere può dipendere solo da due motivi alternativi: il dentista non sa fare l’imprenditore oppure il dentista è un sognatore. In un caso come nell’altro, nell’attesa che lo stesso si orienti nel tempo e nello spazio e che capisca chi è e quale ruolo svolge all’interno del sistema economico, preferirà finanziare un suo competitor più avveduto oppure, al limite, gli concederà un prestito ad un tasso di interesse più alto del normale al fine di compensare il rischio che ritiene di poter mettere ragionevolmente in conto finanziandolo comunque.
Discorsi non dissimili valgono nel caso in cui il dentista non riceva alcuna remunerazione sul capitale investito persino nel caso in cui quel capitale sia stato interamente posto a disposizione da sue private disponibilità, senza alcun intervento della banca.
Non è ammissibile che un investitore privato ponga in essere un investimento di qualunque genere in un’azienda lucrativa senza contare almeno su un potenziale rendimento dello stesso. Ovviamente, potrà accadere che l’aspettativa non si realizzi per gli imprevisti dell’attività economica; tuttavia, nella visuale economica largamente condivisa è tassativamente escluso che non si coltivi nemmeno l’aspettativa di tale redditività e che sia considerato normale investire del denaro senza ricevere nulla in cambio.
Tale aspettativa comune deve essere coltivata con ancor maggior forza e convinzione quando si ponga in essere una attività imprenditoriale a rischio -come è l’attività odontoiatrica – e in particolare quando la si ponga in essere con strutture con tre o più poltrone. Per la semplice ragione che l’utile, una volta conseguito, non deve essere necessariamente consumato dal suo titolare (anche perché la cosa sarebbe poco conveniente sotto il profilo fiscale per il medesimo).
Nella gran parte dei casi, l’utile sarà trattenuto nel patrimonio della struttura sanitaria e andrà a costituire una riserva patrimoniale. Una riserva cui attingere nei momenti meno fortunati della gestione, dando per scontato che l’attività economica è e sarà sempre fisiologicamente ciclica, ragion per cui tali momenti negativi non mancheranno di certo.
La produzione di utili diviene quindi il motore dell’auto-finanziamento dell’azienda e in Italia abbiamo ormai prove inconfutabili in merito alla maggiore longevità delle piccole e medie imprese che resistono ai marosi delle crisi degli ultimi trenta a quarant’anni e continuano a prosperare costituendo congrue riserve patrimoniali nei periodi in cui gli è più facile conseguire una maggiore redditività.
Peraltro, la presentazione di bilanci e di gestioni zoppicanti agli occhi dei vari stakeholder che interagiscono a più diverso titolo con la società si traduce in un maggior costo del finanziamento tutte le volte in cui ci si rivolge alle banche per richiederlo. Le aziende che zoppicano, insomma, pongono in essere i presupposti per sopportare più delle altre l’aggravio del costo del capitale preso a prestito e quindi si infilano in un circolo vizioso tale per cui maggiori oneri finanziari aggravano l’equilibrio finanziario e poi quello economico e patrimoniale. In una parola, sono proprio le aziende che non puntano all’utile quelle che si condannano a produrre perdite crescenti.
A cosa serve la redditività ? A costituire riserve patrimoniali. E a cosa serve avere riserve patrimoniali? In primis, ad ottenere finanziamenti a tassi di interesse più bassi.
In secundis, a costituire riserve patrimoniali che si rivelano utilissime al fine di rinnovare lo strumentario, investire sul personale, aumentare i volumi di produzione con un incremento di qualità delle prestazioni.
In ultima analisi, il lucro non solo non è in contrasto con il modello di gestione di una azienda sanitaria sana, ma ne costituisce addirittura il presupposto fondante.
Torneremo più avanti a specificare i termini e le misure di questa congruità, utilizzando alcuni fondamentali indicatori di bilancio.
Tuttavia, fin da ora è il caso di specificare che la costruzione di una struttura sanitaria che abbia come obiettivo la formazione sistematica di un’utile di bilancio serve anche a costituire i presupposti per una proficua cessione dell’attività con un corrispettivo per tale cessione che possa considerarsi congruo agli occhi del suo fondatore.
Da che parte si comincia nel costruire un’azienda lucrativa ?
Dalla fissazione delle tariffe, attuata tramite gli strumenti della contabilità direzionale e del controllo di gestione. Ogni tariffa per ciascuna prestazione inclusa nel tariffario deve assicurare un congruo margine dopo aver coperto interamente i costi per produrla. Solo dopo aver compiuto tale fondamentale operazione si può essere certi che la gestione produca sempre un margine positivo, a prescindere dal mix di produzione di tali prestazioni. Condizione importante e imprescindibile per assicurare il conseguimento del margine, per la semplice ragione che il mix di produzione non può essere mai precisamente controllabile senza sconfinare nell’azzardo morale e quindi sarà sempre fatalmente diverso da un anno all’altro.
Come si verifica che il margine effettivamente conseguito sia congruo ? Utilizzando gli strumenti della contabilità analitica e il bilancio oltre che l’analisi per indici.
Del controllo di gestione abbiamo già parlato a sufficienza in molti post e articoli dedicati:
Costi Variabili nello Studio Dentistico | Dentista Manager
I Costi Fissi nello studio dentistico | Dentista Manager
e in molti altri, tutti a vostra disposizione in questo blog, nella sezione “Articoli” e in quella “Pillole”.
Di tutto il resto parleremo ora.
Iniziamo con il ricordare che tutte le aziende odontoiatriche – sia quelle di natura professionale come quelle di natura imprenditoriale – sono tenute a tenere la contabilità (ordinaria o semplificata) in un metodo particolare che è quello della partita doppia.
L’applicazione di tale metodo permette di arrivare alla redazione – per obbligo e/o per scelta – di un prospetto riepilogativo che è il bilancio, composto, a sua volta, da due prospetti contabili, lo Stato Patrimoniale e il Conto Economico.
Ci interessa in particolare il secondo prospetto che può essere richiesto e ottenuto del proprio commercialista da parte di ogni dentista che operi in Italia, a prescindere dalla forma in cui esercita la propria attività.
Tale Conto Economico può essere redatto in una forma basica e in quella riclassificata.
In quest’ultimo caso, è possibile indagare ex post sulla formazione del margine, andando a verificare quale porzione della gestione ha contribuito alla formazione dell’utile aziendale.
Il margine della gestione caratteristica – altrimenti detto MOL o Margine Operativo Lordo – si ottiene dalla differenza tra i ricavi della produzione delle prestazioni e i costi della produzione stessa.
Tra i costi di produzione utili alla formazione di questo margine si considerano anche le quote di competenza del periodo preso in considerazione per la formazione del singolo bilancio; quote utili ad ammortizzare il costo dei beni ad utilizzo pluriennale. Quando si compra questo tipo di beni – quali ad es. i riuniti odontoiatrici, i radiografici o gli strumenti per la sterilizzazione dello strumentario odontoiatrico – si è tenuti a frazionare il costo su vari anni contabili e nel conto economico confluisce solo la parte di costo ritenuta di competenza del singolo esercizio, altrimenti detta quota di ammortamento.
La caratteristica precipua del meccanismo sovra descritto è quella per cui il periodo pluriennale utile all’ammortamento viene definito dal Legislatore. Una volta ammortizzato, il costo non sarà più evidenziato in bilancio e non contribuirà a incrementare i costi per la produzione e ad assottigliare il reddito a valle del MOL.
Ovviamente, questo effetto del citato meccanismo contabile è potenzialmente in grado di sporcare i confronti tra due gestioni di cui una abbia interamente già ammortizzato i beni pluriennali a differenza dell’altra.
Anche per questo motivo, all’utilizzo del MOL si preferisce quello del EBITDA, il quale, a differenza del primo, non tiene conto delle quote di ammortamento nel conteggiare i costi di produzione utili alla formazione del margine della gestione caratteristica.
Tuttavia, in un caso come nell’altro, l’obiettivo dei due margini è comune: e precisamente è quello di indagare come la gestione caratteristica influisca nella produzione dell’utile. Questa porzione della gestione infatti è normalmente quella più importante: ci dice come l’azienda riesca ad esercitare la propria attività tipica e principale, paragonando i costi relativi alla produzione dei servizi sanitari con i relativi ricavi.
Non confluiscono nel conteggio gli elementi tipici della gestione extra-caratteristica, a sua volta composta da quella straordinaria e da quella finanziaria.
All’interno di questa – quella extra-caratteristica, appunto – confluiranno i costi e ricavi di natura straordinaria e gli oneri (ed eventualmente anche i proventi) di natura prettamente finanziaria.
Per costi e ricavi di natura straordinaria intendiamo quelli che si sopportano una tantum, per fatti eccezionali ed estranei alla gestione corrente: si pensi ad un risarcimento dovuto a seguito di un contenzioso conclusosi a favore dell’impresa o ad un ricavo conseguente alla cessione di un bene normalmente utilizzato per l’attività (la cessione sul mercato dell’usato di un riunito, ad esempio).
Per costi di natura finanziaria intendiamo le rate dei finanziamenti (comprensive di quote per capitali ed interessi), gli interessi e altri oneri pagati alla banca per il fido di conto corrente et similia.
Inutile aggiungere che, nella gran parte dei casi, parleremo di costi di natura finanziaria e straordinaria e molto più raramente di ricavi straordinari e proventi finanziari (questi ultimi si potrebbero ottenere, ad esempio, dall’investimento di parte del patrimonio a riserva in strumenti finanziari di vario genere).
Il che significa, in ultima analisi, che il margine della gestione caratteristica si troverà ad essere ulteriormente decurtato dal fatto di dover coprire altri costi, fino ad arrivare alla formazione un nuovo margine, che è il RO o EBIT (Reddito Operativo), altrimenti detto Utile lordo o Utile prima delle imposte. Una volta pagate le quali, potremo finalmente giungere all’utile netto.
Lo schema del conto economico riclassificato è riassumibile come d’appresso:
Ricavi di competenza – Costi di competenza = MOL
– quote di ammortamento = EBITDA
– costi gestione straordinaria – oneri finanziari = RO
– Imposte sul reddito = Utile Netto
Una prima differenza tra il RO (O EBIT) calcolato con i metodi analitici della contabilità direzionale e del controllo di gestione interno e questo, ottenuto attraverso la rendicontazione dei costi e ricavi effettivamente sostenuti e conseguiti è che nel primo caso si trattava di una redditività teorica mentre in questo caso si tratta di una redditività effettiva e realmente conseguita.
Inoltre, il bilancio contiene anche altre fondamentali informazioni che con la contabilità direzionale non erano minimamente riscontrabili: in particolare, ponendo a rapporto grandezze economiche del Conto Economico con quelle contenute nello Stato Patrimoniale.
Un primo quoziente è quello che si ottiene dal rapporto tra il reddito operativo e i ricavi di competenza.
ROS (Return on sales) = Reddito operativo / Ricavi di competenza
Questo indice ci presenta la redditività dell’azienda rispetto al fatturato ed è il primo fondamentale quoziente utilizzato per indagare sulla congruità del reddito. Tale congruità viene valutata normalmente rispetto alle aziende dello stesso settore.
Ad es. le migliori aziende odontoiatriche conseguono un ROS vicino al 25%.
Tale valutazione di congruità non risulta tuttavia sufficiente a chiudere la partita.
Occorre utilizzare anche altri due indici:
ROE (Return on equity) = Reddito Netto/Patrimonio netto
laddove per Patrimonio netto intendiamo la somma dei capitali iniziali messi a disposizione dal dentista e degli utili meno le perdite di precedenti gestioni. D’altra parte, è agevole comprendere che, se l’imprenditore ha posto a riserva gli utili prodotti dalla gestione, è come se avesse incrementato il valore dei capitali iniziali posti a disposizione della gestione di propria tasca.
Come è facile intuire, la valutazione di congruità del reddito, quando posta sotto questa angolazione, potrebbe restituire un giudizio completamente opposto rispetto a quello ottenuto con il primo quoziente. Potrebbe quindi darsi benissimo che un ROS ritenuto buono o ottimo non sia accompagnato da un ROE altrettanto positivo, perché tutto dipende dal volume di capitali investiti direttamente dal dentista nella sua attività.
Poniamo il caso che il dentista abbia un ambulatorio o uno studio che fatturano € 1.000.000 l’anno, con un ROS pari al 15%. La gestione produce quindi un reddito in valore assoluto pari ad € 150.000.
Se il patrimonio netto fosse pari ad € 200.000, il ROE sarebbe uguale al 75%, un valore più che ottimale.
Ma se il patrimonio netto fosse pari ad € 1.000.000, il ROE non restituirebbe un giudizio altrettanto positivo: sarebbe pari infatti al 15% ( comunque ottimo, ma ben diverso dal precedente ).
La valutazione di congruità rispetto al patrimonio netto costituisce uno dei primi parametri che il mercato esterno considera nella valutazione delle aziende.
C’è poi un terzo indicatore che non riguarda tanto il dentista ma aziende di grande o grandissima dimensione:
ROI (Return on investment) = Reddito Operativo/Capitale investito
Ove per capitale investito intendiamo la somma di patrimonio netto e capitale preso a prestito.
Quest’ultimo indice è quello preso a riferimento dalle banche e finanziarie nel momento in cui devono decidere se finanziare e a quale prezzo (tasso di interesse e altri oneri) la singola azienda.
Normalmente, i dentisti ricorrono con grande parsimonia al debito.
Alcuni tuttavia sono costretti a derogare a questa regola prudenziale per necessità. Ad esempio quando devono investire somme rilevanti per la costruzione o l’ampliamento di una grande struttura sanitaria.
Inutile dire che il reddito netto prodotto dalla gestione deve essere in grado di remunerare degnamente anche questo margine.
Poniamo il caso che lo stesso dentista di cui all’esempio precedente abbia investito non solo di tasca propria € 200.000 ma che se ne sia fatto prestare altri 500.000 dalla propria banca.
IL ROI sarebbe pari a 150.000/ (200.000+500.00)= 150.000/700.000 = 21,42%.
Un ottimo risultato anche sotto questo profilo che configura una situazione ottimale, perché il reddito prodotto dal dentista in questione non solo risulta congruo rispetto alla redditività media di settore ma anche rispetto ai capitali investiti nell’attività.
Ovviamente, il giudizio sarebbe diametralmente opposto se, come spesso capita, il dentista non avesse conseguito alcuna redditività nella propria gestione.
E la questione non cambierebbe persino se il dentista avesse fatto finta di essere un cattivo imprenditore, creando costi fittizi e/o gonfiati al solo scopo di estrarre tutti i redditi prodotti dall’attività (cosa che potrebbe peraltro fare solo se esercitasse attraverso una società).
Per arrivare a questi risultati, occorre lavorare dentro la struttura con il controllo di gestione e fissare tariffe congrue al conseguimento di una margine positivo e congruo.
Uno dei modi per capirlo e quello di verificare dal conto economico se sono rispettati i seguenti range di incidenza dei costi rispetto alla produzione:
costi variabili:
costi fissi: tra il 20% e il 30%
utile prima delle imposte: tra il 29% e il 8%
Tutte le volte in cui si uscirà in misura marcata da questi range si farà sempre molto fatica a produrre una redditività tale da poter essere considerata congrua da tutti gli operatori che a vario titolo possono venire in contatto con l’azienda odontoiatrica per i più diversi scopi.
Il che – sia detto per inciso – non fa e non farà mai l’interesse del dentista.
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