E’ ufficiale: niente IRI per i professionisti. Anche questa volta ingiustizia è fatta. Non tutti sanno cosa sia l’IRI, forse perchè i nostri politici se la […]
E’ ufficiale: niente IRI per i professionisti.
Anche questa volta ingiustizia è fatta.
Non tutti sanno cosa sia l’IRI, forse perchè i nostri politici se la sono appena inventata o forse perchè i dentisti hanno un pessimo rapporto con le tasse.
Ma il caso vuole che questa volta i legislatori avessero davvero partorito una bella idea, giusta e sacrosanta, nonostante arrivasse con circa 40 anni di ritardo. Siccome l’idea era buona e giusta, hanno poi deciso di escludere dal beneficio dell’IRI i professionisti, tagliando fuori, tra gli altri, tutti gli odontoiatri ed i medici.
Leggendo l’articolo pubblicato su Italia Oggi mi è venuta voglia di scrivere qualcosa sull’argomento per i miei colleghi.
Se sei un dentista e vuoi sapere quanto danno e quale beffa gravino sui nostri studi, leggi le poche righe che seguono, cercando di non arrabbiarti troppo.
Il dentista tipico che opera in forma personale, mediante uno studio monoprofessionale oppure studio associato, come tutti sanno è soggetto all’Irpef. IRPEF è l’acronimo di Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche e si calcola sul cosiddetto reddito imponibile.
Cosa significa?
Detto in modo molto sbrigativo, significa che fatto 100 il fatturato di uno studio dentistico e fatti 60 i costi deducibili, rimane un imponibile di 40 sul quale si applica una tassazione progressiva per aliquote. Gli scaglioni dell’IRPEF vanno da un minimo del 23% ad un massimo del 43%.
Quindi al professionista, su tutto quello che rimane in cassa dopo aver pagato tutti i costi, si applica una imposizione che arriva fino al 43%.
Ora, caro collega, ti pongo una domanda importante a cui forse non hai mai pensato: ma se dei soldi che rimangono in cassa ne godi solo una parte e gli altri li lasci in cassa senza toccarli, ci paghi l’IRPEF lo stesso?
La risposta è si. Sei così abituato all’idea che questo sia giusto da non porti neppure il dubbio. Allo Stato non importa nulla se dei 40 rimanenti ne hai messi in tasca 10, 20, 30 o tutti e 40. Lo Stato presume, o meglio assume, che quei 40 siano tutti tuoi, indipendentemente dal fatto che tu li prenda veramente dalla cassa oppure no.
Questa, già da sola, è già una grave ingiustizia. Non è giusto che si paghino imposte su un reddito che non si è percepito.
Ma c’è una seconda palese ingiustizia. Perchè questa regola vale solo per i professionisti, oggi, e per nessun altro.
Tutte le società di capitali (ed i loro titolari), infatti, non pagano le tasse come gli studi dentisti tradizionali (ed i loro titolari). Nell’esempio sopra descritto (100-60=40) le società (ed i loro titolari) non pagano le imposte fino al 43% sui 40 residui, ma l’imposta è differenziata a seconda che quei 40 entrino effettivamente in tasca al titolare (socio) oppure rimangano nelle casse dell’impresa.
Supponendo, come nel caso precedente, che dei 40 residui il titolare ne prelevi la metà, solo su quella metà verrà applicata l’aliquota IRPEF corrispondente, che per effetto della riduzione dell’importo oscillerà in media intorno al 30% (e non più il 43%).
Cosa succede alla rimanente metà che il titolare non intasca? Ecco, su quella metà, siccome rimane nelle casse dell’attività, si applica una imposta fissa detta IRES (Imposta sul Reddito delle Società). Tale imposta è attualmente una percentuale fissa del 24%: appena un punto sopra il minimo dell’Irpef !!
Questa è la seconda grande ingiustizia: pur avendo gli stessi numeri di fatturato (100), di costi (60):
Di questa sperequazione impositiva non hanno fatto le spese sempre e soltanto i dentisti, ma anche tutti gli altri professionisti. Insieme a loro c’erano poi tutti coloro che svolgevano una attività di impresa in forma personale, come ditta individuale (artigiani, commercianti, ecc), oppure come società di persone.
Ebbene, siamo arrivati al punto. L’IRI (Imposta sul Reddito d’Impresa), nella sua formulazione originale, sanciva finalmente l’uguaglianza tra tutte le diverse forme d’impresa e sorprendentemente lo faceva equiparando, sul piano fiscale, gli studi dentistici e le società di persone alle società di capitali. In sostanza l’IRI avrebbe consentito anche agli studi dentistici di operare una distinzione tra utili percepiti veramente dal professionista,su cui si sarebbero agate imposte alte (IRPEF fino al 43%) ed utili che venivano lasciati nello studio per essere reinvestiti, su cui si sarebbero pagate imposte basse (IRI al 24% come l’IRES).
Peccato che i successivi passaggi parlamentari, come spiega chiaramente Paolo Bortolini sul suo blog, abbiano portato alla scomparsa dei professionisti e degli studi associati dai beneficiari della nuova imposta nel testo finale della legge.
Questa più che una ingiustizia, pare proprio una beffa.
Detto che IRES e IRI hanno la stessa aliquota fissa del 24% e fatti salvi ripensamenti futuri da parte del legislatore, il ricorso alla Srl odontoiatrica appare ancora l’unica soluzione (soprattutto dopo che l’aliquota Ires è stata abbassata, contestualmente alla creazione dell’IRI, dal precedente 27,5% all’attuale 24%).
Resta il rammarico di vedere sprecata, ancora una volta, una buona occasione per legiferare in modo equo.
Resta anche la rabbia di dover optare obbligatoriamente verso una forma societaria per vedersi riconosciuto sul piano fiscale il trattamento impositivo che spetta ad uno studio dentistico, che a tutti gli effetti è una impresa.
Quanto ci costa in termini di formazione trasformare lo studio in srl odontoiatrica? Quante implicazioni comporta sul piano organizzativo e medico legale? Quante difficoltà autorizzative e normative in genere? Quale aggravio di costi inutili è percorrere la via alternativa di uno studio professionale travestito da srl, quando l’IRI avrebbe permesso di seguire la via maestra della dimensione professionale?
Se le menti migliori del nostro Paese si dedicano alle Professioni, non bisogna poi stupirsi se la carriera politica sia intrapresa da quelli che restano.
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