Ho fatto per molti anni il consulente in ortodonzia ed in qualche modo neppure oggi ho smesso del tutto di fare il consulente, anche se in modo completamente diverso.
Ho fatto per molti anni il consulente in ortodonzia ed in qualche modo neppure oggi ho smesso del tutto di fare il consulente, anche se in modo completamente diverso.
Già Dante scriveva di «come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». Chi esercita la professione in forma di consulente (ortodontista, endodontista, o altro che sia) si è reso ben presto conto di quanto sia difficile.
Qualcuno lo fa per scelta, ma la maggior parte dei consulenti è senza alternative: non ci sono molte possibilità per chi non dispone di risorse economiche già all’ingresso nella professione. Nessuno conosce i numeri esatti di questo piccolo esercito di giovani (e oramai meno giovani) odontoiatri che ogni giorno si incrociano lungo la Penisola in modo disordinato e disorganizzato per raggiungere un diverso luogo di lavoro: accordi diversi, compensi diversi, garanzie diverse. Nessuno ha spiegato loro quali sono i rischi, ma anche i grandi vantaggi, di una professione atipica che non trova riscontri negli altri paesi occidentali. Ancora una volta, un fenomeno tutto italiano. Non esistono regole e non esistono regolatori, solo un mondo di dubbi, di contenziosi, di frustrazioni, nell’attesa più o meno giustificata di una svolta futura che porti stabilità e maggiori riconoscimenti al valore.
Quali che siano le ragioni che spingono molti colleghi a lavorare come consulenti nello studio di altri colleghi e quali che siano le ragioni per le quali i secondi abbiano ricercato i primi, esistono molti buoni motivi, legali, economici e deontologici per provare a mettere un po’ di ordine, soprattutto dopo l’ingresso nel mercato dei “dentifici” che reclutano manodopera professionale e specialistica a compensi da operaio non specializzato.
Comprendere i meccanismi economici che possono mantenere in equilibrio un rapporto di consulenza è il primo passo verso la soddisfazione di entrambe le parti. Conoscere le implicazioni medico legali di un rapporto professionale con terze parti è il primo passo verso la prevenzione dei conflitti e dei contenziosi. Essere consapevoli dei principi deontologici che governano la consulenza (sia per chi la riceve, sia per chi la presta) è il primo passo verso l’affermazione di principi di dignità e di autorevolezza.
Ho fatto per molti anni il consulente in ortodonzia ed in qualche modo neppure oggi ho smesso del tutto di fare il consulente, anche se in modo completamente diverso.
Al contempo sono sempre stato anche titolare di uno studio che aveva a sua volta consulenti e quindi ho vissuto strabicamente il concetto di consulente da prospettive diametralmente opposte. La mia passione per la microeconomia degli studi odontoiatrici mi ha consentito di affrontare questa materia in modo sistematico tanto sul piano teorico e concettuale, quanto su quello pratico organizzativo. Quando il mio sindacato di appartenenza, nel 2012, mi ha chiesto di fare una relazione su questo tema ho iniziato a elaborare nuovi concetti e nuove idee, ho perfezionato documenti e protocolli, ho modificato alcuni modelli gestionali tradizionali adattandoli alla consulenza, ho analizzato e standardizzato contratti e procedure.
Per questo motivo ho inserito questa esperienza nel programma della nuova edizione del Corso di Dentista Manager che si terrà a Milano anche quest’anno. Invito tutti i colleghi (consulenti o titolari di studio) che fossero interessati ad acquisire nuove competenze nella gestione economica ed organizzativa della consulenza (attiva o passiva) a partecipare al Corso di Economia a Management per Dentisti che inizia a maggio 2015. Tutte le informazioni sono reperibili qui, oppure posso essere contattato sulla pagina Facebook.
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5 Commenti
Mi viene in mente una battuta che mi fece mia moglie dopo il primo parto: io sono diventata madre in pochi minuti, tu diventerai davvero padre tra qualche anno! E’ davvero così, è il percorso più difficile che possiamo affrontare. Se ti serve una via di fuga ti aspetto al corso 🙂
Quanto alla tua situazione lavorativa, voglio aggiungere qualcosa: la differenza la fanno le persone e non i contratti. Se sei inserito in un buon contesto professionale e umano, potresti anche trarre vantaggio da questa posizione. Viceversa: ridiscuti l’accordo, non c’è niente di male.
In bocca al lupo.
Lele
Caro Alessandro,
non voglio rubare il lavoro ai commercialisti o agli avvocati, comunque ti rispondo volentieri.
Il contratto di associazione in partecipazione è un istituto piuttosto controverso e ha una natura delicata che espone a qualche rischio entrambe le parti. In sostanza prevede che si faccia una scrittura privata nella quale il titolare di studio (associante) offre una partecipazione al consulente (associato) alla propria attività (tutta o parte) in cambio di un conferimento da parte di quest’ultimo rappresentato dal lavoro che svolge (ma potrebbe anche essere capitale). L’organizzazione del lavoro e del business rimane in capo all’associante mentre l’associato svolge il lavoro in piena autonomia decisionale (trattandosi di libero professionista).
L’associante corre il rischio che l’associato, in virtù del contratto in partecipazione, avanzi pretese sugli utili dello studio in misura superiore all’eventuale compenso che gli sarebbe spettato per il lavoro realmente svolto.
L’associato corre il rischio di non vedersi corrisposto alcun compenso perchè essendo questo legato agli utili dello studio, questi ultimi potrebbero anche non esserci, se l’esercizio è in perdita.
Vedo due importanti vizi di fondo, uno contrattuale ed uno strategico.
Il primo è che l’associazione in partecipazione è più adatta quando l’associante è organizzato in forma di impresa classica (società). Non è un caso che le società di capitali offrano contratti in partecipazione per raccogliere capitali senza cedere quote societarie, ottenendo così benefici economici senza rinunciare al controllo della società.
Il secondo è che la natura del contratto in partecipazione inserisce l’associato (cioè il consulente) nel contesto di un rischio di impresa che è lontano mille miglia dalla natura del lavoro del consulente, che è per definizione immune da questo rischio (almeno quello). Voglio dire che il Consulente ha un solo grande vantaggio a fare il consulente quello di non avere debiti da fronteggiare in caso di flessione dell’attività (come capita nei momenti di crisi economica come questi). Associandosi in partecipazione non solo corre il rischio di non vedere valorizzato economicamente il proprio lavoro (come accennavo prima) ma addirittura potrebbe vedersi chiamato (legittimamente) a contribuire, insieme ai soci veri della società o dello studio, a ripianare le eventuali perdite.
Io se fossi un consulente questo non lo accetterei … se posso avere di meglio …
Spero di essere stato chiaro.
Un caro saluto.
Lele
Grazie Gabriele , sei stato molto chiaro ed esaustivo. Sono affascinato dalla tua conoscenza di una materia a noi estranea. Sono solo preoccupato di aver fatto a questo punto la scelta giusta avendo lasciato il mio studio specialistico ortodontico per associarmi in partecipazione, su consiglio del mio commercialista , ad uno studio odontoatrico generico. Mi piacerebbe davvero poter partecipare prima o poi al tuo senz’altro valido corso !Sto per diventare padre proprio nei giorni in cui inizierai il tuo prossimo corso… Puoi comprendere io sia un pò dubbioso sulla mia disponibilità per quel periodo.
Grazie ancora, Ale
Ciao Gabriele, ti chiedo : nel tuo corso parli , come possibile soluzione al rapporto di pura consulenza di “associazione in partecipazione”?
Mi puoi fare una considerazione, dare il tuo punto di vista , in anteprima su questo argomento? Ale Orsini