Molti tra i tecnici considerano il ricorso alla holding come una strategia inutile, per il fatto che quel ricorso porta reali vantaggi solo a quei grandi […]
Molti tra i tecnici considerano il ricorso alla holding come una strategia inutile, per il fatto che quel ricorso porta reali vantaggi solo a quei grandi gruppi internazionali che possono permettersi il lusso di domiciliare la stessa in Paesi a fiscalità previlegiata e ottenere vantaggi fiscali molto sensibili.
Il che in parte è vero e in parte non lo è.
Per capire le ragioni di questa affermazione, dobbiamo per forza proporre preliminarmente un ragionamento.
Se si va a guardare dentro ai numeri veri del gettito fiscale nel nostro Paese, si possono trovare molti elementi che ci portano a riflettere.
Semplificando la questione e rimandando al nostro volume dedicato alla holding che presto sarà dato alle stampe per una disamina più approfondita, ben la metà degli italiani non versa alcuna imposta all’erario.
Dell’altra metà, la gran parte versa imposte nemmeno sufficienti a pagare il costo del servizio sanitario (in media) di cui usufruisce.
Appena 500 mila persone dichiarano redditi superiori ai 100 mila euro e tra questi c’è sola una parte dei dipendenti (dirigenti che dichiarano redditi alti), partite iva, professionisti e pensionati.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, né i dipendenti e tantomeno le partite iva sono tutti coinvolti nel gettito. Moltissimi in queste categorie sono coloro che o dichiarano redditi irrisori oppure, quando dichiarano, lo fanno per redditi inferiori ai 50 mila euro annui.
Per farla breve, il gettito è realmente sostenuto da una porzione minoritaria della popolazione, persino inferiore al 20% del totale.
E in proporzione, la categoria che paga di più sono proprio quei (pochi) titolari di reddito di impresa e di lavoro autonomo.
Ovviamente, quello che rende peculiare questa situazione non è tanto il dato in sé, quanto la parallela presenza di fatti che con essa non sono verosimilmente compatibili: siamo il paese che spende per giochi e scommesse fino a 2500 euro pro-capite (valore medio), che ha un numero impressionante di contribuenti con seconde case e animali domestici, abbonamenti alle pay tv, etc. etc.
Ma è subito il caso di far notare che questa situazione porta a pensare ai più che i veri ricchi coincidano con le partite iva e i piccoli imprenditori. Il che fa semplicemente sorridere.
La verità è che i veri ricchi le imposte non le pagano o le pagano in misura risibile, per lo meno per la grandissima parte di questi.
E non le pagano con strategie di pianificazione fiscale internazionale aggressiva che sono del tutto a norma di legge. E che, contemporaneamente, non sono praticabili da chi non dispone di risorse molto ingenti.
Se un dentista volesse provare ad emularli, troverebbe subito la legge a sbarragli la strada, con una serie di vincoli che solo chi dispone di grandi capitali può aggirare. Uno degli strumenti che viene utilizzato per realizzare queste strategie è proprio la holding, la quale viene domiciliata in paesi a fiscalità previlegiata, in modo tale da far confluire sulla stessa tutto il reddito prodotto dal gruppo di imprese che essa controlla in altri paesi e di sottoporlo ad una tassazione agevolata. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questi paradisi fiscali non si trovano solo in isole tropicali lontane, ma sono anche nell’ambito UE o SEE: paesi come Cipro, Malta, Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo – che nessuno chiama paradisi fiscali, anche se in sostanza lo sono – concedono alle holding residenti delle facilitazioni fiscali molto importanti e infatti vedono la presenza nel proprio interno di holding a capo di grandi gruppi multinazionali. Il volume di investimenti esteri che transita per questi Paesi è addirittura superiore a quello della Cina.
Per poter essere trattati fiscalmente da residenti, questi grandi gruppi devono assegnare alla holding domiciliata in quei Paesi anche un ruolo attivo: quelle holding devono cioè non solo limitarsi a detenere delle partecipazioni e offrire servizi alle proprie società controllate, ma devono anche effettuare attività economiche nel Paese ospitante, con amministratori propri e indipendenti da quelli delle altre società del gruppo, organizzazione dedicata, congruo numero di dipendenti, etc. Queste condizioni permettono di disapplicare la normativa delle CFC (controlled foreign companies) e di poter usufruire della tassazione di quel Paese e non di quello/i di origine. Inutile dire che una holding di famiglia non potrà quasi mai fare altrettanto.
In merito a queste strategie di pianificazione fiscale aggressiva si fa una gran parlare e non mancano anche le iniziative multilaterali per combatterle. Spesso tali iniziative sono anche strombazzate dai media. Ma quando si va ad approfondire il contenuto reale di queste iniziative (cosa che fanno in pochissimi, anche perché il Diritto Tributario Internazionale è materia complicata, iper-specialistica e faticosa), ci si rende subito conto della cruda verità: e cioè che si tratta di fuffa.
Prendiamo ad esempio la convenzione multilaterale OCSE, nata proprio allo scopo di combattere quelle strategie: quest’ultima contiene una parte obbligatoria e una parte che può essere o meno applicata dai paesi aderenti.
Nella parte obbligatoria ci sono questioni poco rilevanti. In quella disponibile, la vera ciccia. L’Italia quella parte veramente rilevante ha ritenuto di disapplicarla in toto e nel contempo dichiara che ha aderito all’iniziativa. Molti altri paesi hanno fatto altrettanto. Il che significa che, di fatto, la convenzione multilaterale non può essere utilizzata allo scopo di impedire quelle strategie di pianificazione utilizzate dalle multinazionali, ma solo come operazione di facciata, tesa a far credere ai più che si sta realmente facendo qualcosa per impedire ai veri ricchi di non pagare le imposte nei paesi in cui la ricchezza è realmente prodotta. Viene da sorridere quando si pensa alle tante chiacchere sulla flat tax e si lascia credere che i veri ricchi siano minimamente interessati a queste riforme del nostro ordinamento tributario. Le imposte sul reddito, in realtà, sono un problema della classe seconda, non certa di quella prima.
La verità è che nel momento in cui un Paese impedisse realmente alle multinazionali di utilizzare quelle strategie, otterrebbe come unico risultato la fuoriuscita di ricchezza dal proprio paese a beneficio di altri, perché ci sarà sempre un paese che accorderà condizioni migliori e il Capitale andrà sempre e solo dove gli conviene e non esiste modo di fermarlo, se tutti non sono d’accordo nel farlo.
Resta il fatto che questa situazione comporta una nuova divisione in classi: quella che può (una sparuta minoranza) e quella che non può (la stragrande maggioranza). In quest’ultima classe, tuttavia, non sono tutti nella stessa situazione. Ad esempio, tra quei 500 mila che le imposte le pagano in misura sensibile, dichiarando redditi superiori ai 100 mila euro annui, c’è la gran parte di coloro che ci seguono sul blog e sui social. E costoro devono trovare il modo di difendersi, considerando qual è la loro reale situazione e imparando a diffidare delle sue versioni di facciata che ci vengono proposte dall’informazione praticamente ogni giorno.
Tra questi strumenti c’è anche la holding di famiglia, una versione in miniatura della grande holding utilizzata dai grandi gruppi multinazionali. Che ovviamente non permette di conseguire gli stessi risultati. Al dentista, ad esempio, non converrà quasi mai spostare la holding in un paese a fiscalità previlegiata intra UE o intra SEE, perché lo stesso non potrà altrettanto facilmente disapplicare la CFC e i redditi conseguiti in quel Paese saranno tassati in Italia per trasparenza.
E tuttavia potrà fare altro e in particolare potrà attuare tutte le strategie di pianificazione fiscale (e altre) che abbiamo già descritto in articoli e post precedenti. E potrà farlo perché, nonostante tutti i loro sforzi, il Legislatore italiano e quello comunitario non sono riusciti a ritagliare perfettamente la normativa in modo tale da favorire solo il Grande Capitale, anche perché dovevano salvaguardare almeno un mimino di forma e di apparente equità nel trattamento tributario.
E su questi scarti di lavorazione che dobbiamo intervenire noi. E nel farlo, nello sfruttare ogni opportunità che la legge ci ha concesso, nell’insegnarvi a conoscerle e a coglierle quelle opportunità, non solo non commettiamo nulla di poco commendevole, ma poniamo addirittura in essere un atto altamente morale. Abbiamo tutto il diritto di difenderci/vi da una pressione e un trattamento iniquo e sperequato, con tutti gli strumenti che l’Ordinamento tributario ci ha concesso e abbiamo anche il dovere di farlo per noi, per le nostre aziende e per le nostre famiglie.
Per cui, ogni volta che potete e che avete voglia di farlo, anche se è difficile, lasciate pure parlare gli altri e fatelo!
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