La holding, esattamente come la srl, condivide nel suo rapporto con i dentisti e i sanitari in genere un triste destino: quello di essere considerata unicamente […]
La holding, esattamente come la srl, condivide nel suo rapporto con i dentisti e i sanitari in genere un triste destino: quello di essere considerata unicamente come veicolo societario ideale per contenere la pressione fiscale.
In realtà, la stessa/le stesse permette/permettono di conseguire ben altri plus che vengono sempre sottovalutati, quasi avessero una importanza residuale.
Nella realtà, tuttavia, le cose non stanno affatto così.
Uno dei motivi più importanti è quello di poter pianificare un passaggio generazionale ordinato del complesso aziendale.
E questa – più in generale – è una delle motivazioni in assoluto più sottovalutate in Italia e non certo solo ad opera dei dentisti. Il che costituisce un autentico paradosso, se solo si pensa al fatto che è proprio la pianificazione successoria quella che spesso giustifica e blinda anche molte iniziative di carattere fiscale effettuate attraverso la holding o la srl in genere.
Forse è proprio in questa chiave che si può individuare la reale differenza tra un dentista imprenditore e un dentista manager, nel senso che il primo normalmente tiene a che la sua creatura gli sopravviva e duri nel tempo, possibilmente crescendo e migliorando, soprattutto nel caso in cui gli eredi abbiano deciso di seguire le sue orme. Mentre il secondo è interessato al fatto che, finché lui è in vita e in operatività, la questione assume una certa importanza e dopo saranno solo problemi degli eredi. Posizione, quest’ultima, assolutamente legittima, a patto di non legare ad essa pericolose illusioni.
E in questo caso occorre essere assolutamente chiari: c’è solo una persona che può e che soprattutto deve decidere chi deve prendere le redini delle aziende di famiglia e segnatamente di quella odontoiatrica: il titolare che quel complesso aziendale ha fondato e nessun altro. Se non lo fa lui, lo farà qualcun altro e non sempre questo qualcun altro sarà necessariamente la persona adatta a farlo.
Il problema è quello rappresentato dalle regole del diritto successorio e soprattutto dei vincoli che quel Diritto crea nel passaggio generazionale. Vincoli che sono massimi nel caso della successione ex lege. E che restano comunque importanti persino in quella testamentaria.
Di questi vincoli ci siamo occupati diffusamente in articoli dedicati, ma riepiloghiamoli velocemente: concentrandoci su quelli tipici della successione testamentaria (se un imprenditore non fa testamento, per me, è un pazzo incosciente), la quota di legittima agli eredi diretti, la collazione e la riunione fittizia, il divieto di sostituzione fedecommissaria e altri.
In generale, questi vincoli sono tipici di una impostazione statica del passaggio generazionale, che si concentra sulla dimensione statica del patrimonio e sulla tutela degli eredi diretti cui intende attribuire non solo una certa quale par condicio ma persino una successione di tipo necessario e irrinunciabile.
Quando le stesse regole vengono lette con la visuale di chi deve trasmettere un’azienda ai propri eredi, le prospettive cambiano completamente, perché in ambito aziendale la democrazia e la par condicio rappresentano un pericolo costante relativamente ai giusti assetti gestori e alla salute della stessa azienda; non tutti, ma solo pochissimi o addirittura solo uno devono effettuare le scelte gestorie principali. Alcuni eredi devono certamente fruire di un patrimonio e dei frutti dello stesso, ma non altrettanto può dirsi per l’attività gestoria della società; quest’ultima deve essere in capo a pochi o più spesso ad un solo erede: e cioè all’unico in grado di ricoprire quel ruolo.
Il Legislatore ha, in realtà, già posto nelle mani del fondatore una serie di strumenti tipici del Diritto successorio e di quello Societario utili a limitare i danni imposti da quei vincoli e anche di questi ci siamo in realtà già occupati in post e articoli dedicati.
Si tratta del patto di famiglia, dei diritti parziari sulle quote societarie, dei conferimenti non proporzionali, dei diritti particolari sulle quote, delle quote di categorie speciali, delle particolari clausole statuarie, dei patti parasociali, del trust e della holding.
Ma non sono in molti quelli che li conoscono e/o che di fatto li mettono in pratica, principalmente per effetto di diffuse carenze consulenziali. Prevale spesso la pigrizia e l’esercizio del copia e incolla nella prassi di molti consulenti e poco importa se gli stessi siano più o meno titolati: è raro che si lavori ad esempio in maniera personalizzata sullo statuto, che si consigli e imponga all’imprenditore di fare almeno testamento, che si consigli con la dovuta insistenza un patto di famiglia o altro.
Le responsabilità di queste mancanze sono anche in capo agli imprenditori (nei quali prevale spesso una certa ritrosia nell’affrontare le tematiche successorie, suscettibili nella loro dimensione emozionale, di portare sfortuna); ma non è credibile che siano solo queste a spiegare tutto. In un Paese in cui appena il 7% degli italiani fa testamento, appare evidente il fallimento della classe consulenziale, al cui interno mettiamo in primis la categoria dei notai (con le dovute eccezioni, ovviamente). L’impostazione classica del loro lavoro è quella di attendere in studio che il cliente richieda il loro intervento su queste tematiche: peccato che se il cliente ignora certe possibilità non verrà mai a chiedere loro di aiutarli a trarne beneficio. Si tratta in primis di bias culturali e di modalità di esercizio della professione non più adatte (sempre ammesso che lo siano mai state anche nel passato) a risolvere i problemi reali dell’imprenditore medio.
In quale modo questi strumenti possono aiutare l’imprenditore a limitare i danni, senza nel contempo violare i vincoli imposti dal Diritto successorio?
Prima di rispondere alla domanda, dobbiamo necessariamente riepilogare le questioni principali che una pianificazione successoria del complesso aziendale dovrebbe poter realizzare:
Non esiste illusione peggiore che quella di pensare – da parte del titolare fondatore – che queste dinamiche possano essere risolte dagli eredi e non direttamente da lui. La storia delle aziende italiane ci fornisce dei riscontri empirici molto eloquenti in merito. La gran parte delle stesse non sopravvive alla terza generazione e molto spesso questo dipende anche dalla mancanza di una chiara e decisa pianificazione successoria da parte del titolare fondatore. Basta anche un solo erede che si accompagni alla persona sbagliata per vedere coinvolto nella gestione delle aziende tutto o parte del nucleo familiare di quella persona e questo persino quando l’erede è ancora in vita. Figuriamoci in caso di sua morte.
La questione si riassume nel semplice fatto che in mancanza di apposite contromisure – e cioè senza utilizzare gli strumenti del Diritto societario cui abbiamo fatto cenno poc’anzi – le quote della società vanno in successione agli eredi o agli eredi legittimi di colui che le deteneva originariamente e, se quelle quote erano di maggioranza, non c’è nulla che possa impedire che elementi esterni al nucleo familiare del fondatore prendano di fatto il controllo sul complesso aziendale, spesso senza averne alcuna competenza per assumere quel delicato ruolo. E persino nel caso in cui quelle quote fossero state di minoranza, agli stessi soggetti è comunque permesso di entrare nella compagine e di minarne la concordia.
Sotto il profilo successorio, la holding – e il sapiente e combinato uso degli altri strumenti – può consentire di risolvere la gran parte di queste problematiche.
In primis, perché confina l’eventuale conflittualità familiare in una sede diversa da quella delle società operative che essa controlla, evitando di andare a disturbare le stesse con questioni che non hanno nulla a che fare con l’attività imprenditoriale in esse condotta.
Ma soprattutto, perché si può blindare le vicende successorie con una serie di clausole che impediscono il verificarsi di molte di quelle criticità e con l’utilizzo di strumenti che possono irrobustire questa più generale architettura, senza nel contempo violare i diritti dei legittimari.
Ad esempio, uno degli strumenti più utilizzati è la donazione da parte del titolare dei diritti parziari sulle quote della holding.
Donando l’usufrutto sulle quote agli eredi diretti (ad esempio, ai figli), il titolare conserva la nuda proprietà sulle stesse fino a che sarà in vita e concede quindi al figlio o ai figli designati a succedergli la possibilità di esercitare il diritto di voto e eventualmente anche quella di amministrare la società holding e il gruppo da essa controllato e coordinato. Con questa operazione, il fondatore insomma si assicura di poter controllare da presso il figlio/i mentre muove i primi passi nell’attività gestoria e di correggere il tiro mentre è ancora in vita tutte le volte in cui lo stesso/gli stessi pongono in essere condotte errate o imprudenti, per effetto della loro inesperienza.
Una possibilità opposta è quella della donazione della nuda proprietà agli eredi, mantenendo l’usufrutto sulle quote stesse. In questo modo, il fondatore si assicura il controllo della società e la possibilità di gestirla fino alla sua morte. Una volta intervenuta la quale, il figlio vedrà riunirsi a suo favore la nuda proprietà all’usufrutto e quindi potrà acquistare la piena disponibilità delle quote, potendo finalmente arrivare a gestire la società. La donazione delle quote è soggetta a collazione al momento dell’apertura della successione del titolare, mentre la donazione di un diritto parziario sulle quote non lo è. Infatti, la riunione dell’usufrutto alla nuda proprietà non è un evento che rientra tra quelli mortis causa ma che è considerato a tutti gli effetti post mortem.
Il titolare fondatore, tuttavia, può anche muoversi in parallelo in ambito statutario, predisponendo apposite clausole che imprimano particolari diritti ad alcune quote rispetto ad altre o che addirittura creino quote di categoria speciale, con particolari diritti che, a differenza del primo caso, perdurino anche in caso di trasmissione a terzi delle quote stesse. Alcune di queste quote potranno quindi concedere al detentore di esercitare particolari diritti in merito all’amministrazione della società, mentre altre potrebbero legittimare particolari diritti in merito al dividendo. Se gli eredi fossero ad esempio due, pur nel rispetto della quota di legittima da attribuire agli stessi, uno potrebbe essere il futuro amministratore e l’altro un socio di puro capitale.
A parità di quantità, insomma, sarebbe la qualità delle quote degli stessi ad essere diversa: il che salva capra e cavoli e cioè la quota di legittima come anche la salute dell’azienda.
E tuttavia il titolare potrebbe anche spingersi nell’attribuire particolari prerogative agli eredi anche all’interno di ciascuna società appartenente al gruppo. Alcuni figli potrebbero essere ad esempio particolarmente portati a gestire alcune attività e non altre.
Al fine di impedire l’ingresso di elementi estranei al nucleo familiare, il fondatore potrebbe predisporre particolari clausole statutarie in capo alla holding che impongono il gradimento per l’ingresso dei nuovi soci. Ottenendo come effetto che – nel caso in cui il nuovo socio, che magari per effetto di una successione mortis causa ha acquisito le quote-, non sia gradito dagli altri, lo stesso debba essere liquidato in denaro in proporzione al valore patrimoniale della relativa quota e gli venga di fatto impedito l’ingresso in società.
Le combinazioni di utilizzo degli strumenti societari sono praticamente infinite e noi in questo post abbiamo posto solo alcuni esempi e persino per gli utilizzi più semplici.
Per una trattazione abbastanza esaustiva di queste tematiche rimandiamo al nostro volume dedicato alla holding di prossima pubblicazione oltre che al nostro corso, sempre dedicato alla holding, del prossimo novembre 2022.
Quello che in questa sede ci premeva evidenziare è che senza l’utilizzo di questi strumenti e del testamento, gli effetti pratici sulla trasmissione del complesso aziendale agli eredi possono essere molto pesanti. Questi strumenti ci sono e vanno utilizzati e la holding costituisce persino la sede previlegiata per utilizzarli al meglio.
Il suo statuto, in particolare, non va redatto limitandosi a copiare quello di un altro, ma va studiato e arricchito delle opportune clausole dopo aver analizzato la peculiare situazione di ciascuna compagine familiare specifica e aver costruito una soluzione su misura per la stessa.
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