E’ vero che il Trump di oggi è più forte di quello del suo primo mandato e che ha già posto in essere alcune delle sue promesse in questo senso. Ma ha le elezioni del midterm tra due anni e il mercato azionario che lo segue da presso.
Nemmeno lui può permettersi livelli troppo elevati di inflazione interna per non scontentare troppo il suo elettorato. Inoltre la storia recente insegna che ogni guerra commerciale con la Cina o con la UE comporta una serie di reazioni e controreazioni che finiscono per ridursi in una tregua con un livello dei prezzi più alti sul mercato internazionale e poco più.
E non cambiano il trend di fondo del commercio mondiale. E cioè quello per cui la globalizzazione e il volume degli scambi internazionali continuano a crescere, se non alla stessa velocità di prima, comunque in valore assoluto.
E’ come se il sistema fosse divenuto talmente resiliente da essere sempre in grado di trovare un nuovo equilibrio attraverso il maggior peso di nuovi paesi rispetto ad altri In modo da controbilanciare il minor peso di quelli tradizionalmente protagonisti.
Del resto, i sistemi di libero scambio a livello internazionale sono sempre stati tali solo sulla carta e hanno sempre ricompreso tra le proprie regole dosi più o meno moderate di protezionismo.
Non è quindi il volume degli scambi a doverci preoccupare quanto gli effetti che le guerre commerciali possono ingenerare nella distribuzione dei redditi tra i paesi più forti e quelli più deboli e tra le classi sociali all’interno dei paesi stessi.
In ambito UE, in particolare, molto dipenderà dalle reazioni dei vertici comunitari agli eventuali dazi americani.
Se la UE reagisse con contro dazi non farebbe che peggiorare la propria situazione interna ma se invece dirottasse i propri flussi commerciali almeno in parte verso l’Africa potrebbe uscirne tutto sommato senza troppi danni.
Di sicuro sembra davvero difficile ipotizzare che sia in ambito UE che in quello più ristretto dell’Italia, l’effetto delle guerre commerciali in atto non comporti effetti più marcati su alcune fasce di popolazione.
L ‘inflazione, in particolare, non danneggia ricchi e poveri nello stesso modo.
La disamina appena effettuata può apparire incompleta e semplificante e in parte certamente lo e’. Sono le sue conclusioni a non essere facilmente discutibili: le tendenze in atto comporteranno significative conseguenze sulla distribuzione dei redditi in Italia, ampliando quell’effetto di polarizzazione già in atto da tempo.
Ciò significa che i dentisti riceveranno sempre più maggiori stimoli nella ricerca e nella attrazione della propria pazientela target e cioè quella che può permettersi di pagarsi le cure. Un target che in numero di pazienti tenderà fatalmente a ridursi.
Può sembrare cinico e di fatto lo è quanto può esserlo a volte la verità.
Niente quanto una offerta low cost appare essere una scelta intempestiva e sbagliata per il dentista titolare di studio e di ambulatorio.
Quel target e’ e sempre più sarà terra di conquista di terzi paganti e grande capitale con la piena accondiscendenza di uno stato che non vede l’ora di scaricare per quanto possibile le spese per la sanità dal proprio bilancio.
Certo i dentisti potrebbero per altre ragioni destinare parte dei propri utili al sostentamento delle fasce deboli in termini di cure, magari puntando su forme aggregative quali consorzi e contratti di rete. Tuttavia questa sarebbe l’eccezione che conferma la regola.
Nulla di più.