La dismissione del patrimonio immobiliare dell’Enpam viene spesso considerata come un effetto della cattiva gestione del suo gruppo dirigente. In realtà, queste decisioni sono imposte dall’alto e il gruppo dirigente in questione non ha alcun titolo per decidere in merito. In questo articolo, spieghiamo perchè.
Per securitisation o cartolarizzazione si intende quel processo attraverso cui attività di tipo reale vengono trasformate in attività di tipo finanziario. Si tratta di una tendenza fortemente legata a quella più generale della finanziarizzazione dell’Economia, un processo inarrestabile che ha subito una forte accelerazione a partire dagli anni ’80 del secolo corso.
Con la comparsa e lo sviluppo di questa tendenza, la Finanza ha smesso progressivamente di assolvere al suo fondamentale ruolo di incubatore e moltiplicatore degli investimenti in Economia reale per porsi finalmente – si fa per dire – al centro della scena e iniziare ad utilizzare gli investimenti reali come un sottostante sulla base del quale costruire investimenti speculativi di natura puramente finanziaria.
Questa inversione del ruolo della Finanza nei circuiti di scambio dei mercati internazionali si caratterizza anche per essere uno dei motori fondamentali che spiegano la concentrazione della ricchezza in sempre meno mani, a discapito di quelle della pluralità dei soggetti economici. Come diverrà chiaro se il lettore conserverà la pazienza di arrivare alla fine di questo articolo.
E’ importante comprendere come la dismissione del patrimonio immobiliare degli enti di previdenza rientri in pieno in questo trend molto più generale; un trend che nel corso degli ultimi decenni ha comportato uno smisurato arricchimento dei protagonisti del settore finanziario a livello internazionale, un arricchimento che è stato a sua volta anche investito, da parte del settore finanziario stesso, al fine di pervadere ed influenzare ogni settore e organismo della società civile. Si è quindi venuto a creare un pensiero unico che pervade istituzioni, università, istituti di ricerca, organismi nazionali e sovranazionali, istituzioni di controllo e, al fine di trovare qualche autorevole fonte contrarian al pensiero comune, occorre leggere la manualistica dedicata a questi argomenti: lavori letterali che per loro natura sono destinati ad un pubblico tecnico e necessariamente ristretto.
Questa lunga premessa si rende necessaria al fine di poter leggere i singoli eventi in un’ottica diversa e più generale oltre che certamente più intellettualmente onesta rispetto a quella che ricerca negli stessi eventi responsabilità dirette e in qualche caso persino fraudolente in capo agli organi apicali dell’Enpam come di quelli di altre casse di previdenza. Non è affatto necessario ricorrere a questo tipo di processi sommari per comprendere quali siano le reali determinanti che orientano e per certi versi persino impongono quelle scelte. Che si spiegherebbero persino ipotizzando la piena buona fede e la completa onestà di chi quelle decisioni ha preso. Oppure, come meglio sarebbe forse dire, ha dovuto prendere.
Ad esempio, cosa spiega veramente la decisione del board direttivo dell’Enpam di dismettere l’intero patrimonio immobiliare, vendendolo ad un Fondo statunitense per 850 milioni di euro? I motivi sono gli stessi per i quali Enpam Real Estate ha dismesso interi rami d’azienda vendendoli sul mercato ad altri operatori finanziari e per i quali tutte le Casse di Previdenza si sono comportate più o meno nella stessa maniera.
Vediamo di passarli sia pur sommariamente in rassegna:
Tutti questi elementi costringono gli organismi apicali delle Casse Previdenziali nel convergere verso politiche di investimento fortemente incentrate su asset di tipo finanziario e li spingono a dismettere il patrimonio immobiliare in tutto o in gran parte. Tali organismi non sarebbero liberi di fare altrimenti neanche se lo volessero. Il pensiero unico si è insinuato ovunque: nello spirito delle norme e dei regolamenti di vigilanza, nella mentalità dei politici, nel pensiero degli intellettuali. In un ambito più ristretto quale quello della “scienza” di portafoglio, una narrazione martellante e ossessiva ha convinto quasi tutti gli operatori che la diversificazione finanziaria effettuata con i modelli matematici ispirati a Markovitz e alla sua frontiera efficiente e ai modelli media-varianza sia sempre in grado di condurre il gestore verso un ottimale rapporto tra rischio e rendimento. Il che, parlando in soldoni, significa semplicemente maggiori rendimenti di medio e lungo termine con minore volatilità dei rendimenti stessi nel durante. Questa è la credenza fideistica che è stata propagandata con ogni mezzo e a cui tutti hanno finito per credere, persino quando la prova dei fatti e le poche voci contrarian ne – rispettivamente – mostravano e indicavano i limiti nella ristretta platea degli addetti ai lavori.
Non si può essere sorpresi dunque se a fronte di una gestione sub-ottimale del patrimonio immobiliare, molte Casse abbiano trovato tutto sommato anche comodo aderire a questa corrente di pensiero. Invece che migliorare la gestione degli immobili, con tutte le difficoltà e criticità che tale processo avrebbe inevitabilmente comportato, è stato di sicuro ritenuto molto più facile cambiare la composizione del patrimonio stesso, seguendo peraltro le direttive imposte dall’alto.
Se tale contesto assolve ufficialmente gli organismi decisori delle citate Casse, non esime certo i liberi pensatori dall’entrare nel merito della reale fondatezza di questa sostituzione delle attività reali (immobili) con quelle finanziarie.
In questa chiave, il giudizio non può che essere critico.
In primis, non esiste alcuna seria verifica che possa vantare dignità scientifica in grado di seriamente dimostrare che nel lungo termine sostituire immobili con finanza comporti necessariamente una maggiore stabilità dei rendimenti e una maggiore redditività dell’investimento. Le attività reali di fatto si mostrano molto più resilienti in un arco di tempo lungo rispetto agli attivi finanziari, per i motivi che ci occuperemo di illustrare a seguire.
Anche ammesso che tale tipologia di attivo debba necessariamente comportare una minore redditività nel lungo termine, ci sarebbero comunque ottime ragioni – e a maggior ragione se consideriamo gli obiettivi e le caratteristiche di una gestione di natura previdenziale – per costituire un portafoglio in cui la componente reale debba comunque restare presente in misura sensibile. Questa impostazione ha in effetti caratterizzato le prime versioni della regolamentazione e delle best pratices sui portafogli dei fondi gestiti dalle Casse di previdenza, salvo poi essere progressivamente sostituita da una impostazione ben diversa, che richiedeva la totale alienazione del patrimonio immobiliare in favore di acquisti di asset finanziari.
Il problema principale nella ricerca dell’equilibrio previdenziale risiede nel fatto che, una volta dismesso interamente il patrimonio immobiliare, l’equilibrio della gestione resta in tutto e per tutto agganciato al buon esito di una gestione finanziaria. E quando dalle affascinanti teorie sulla sua presunta superiorità si passa alla pratica, la questione diviene molto meno limpida.
La verità è che la gran parte di questi prodotti finanziari replica indici di mercato o si configura come strumento alternativo a tali strumenti a benchmark. I primi sono spesso incapaci di replicare davvero gli indici di riferimento mentre quelli alternativi hanno mostrato di essere capaci di restituire rendimenti del tutto deludenti in un arco di tempo non certo breve.
Il tanto decantato effetto diversificazione nell’utilizzo di questi e altri strumenti è – alla prova dei fatti – molto meno forte di quanto si vorrebbe lasciare intendere. Tanto meno i risultati di medio periodo (dieci anni) hanno dimostrato che inserendo in portafoglio strumenti del primo e del secondo genere si arrivi ad una migliore relazione tra rischio e rendimento.
Quasi non bastasse, la storia degli ultimi decenni ha mostrato chiaramente anche a chi esperto non è che per effetto delle politiche di deregulation e molto parziale ri-regulation che hanno interessato il comparto finanziario in tutto il Mondo sviluppato gli intermediari finanziari hanno spesso riempito questi prodotti di immondizie finanziarie varie e lo hanno fatto persino inoculando tali virus in prodotti spacciati come sicuri e destinati al risparmiatore non professionale. Figuriamoci cosa sarebbero in grado di fare nei confronti di un investitore istituzionale che gode di ancor minori tutele da parte degli organismi regolatori del mercato. Peraltro, la frequente presenza di “soggetti in carriera” con meriti prettamente politici all’interno delle Casse fa si che gli organismi apicali delle stesse siano composti anche da persone che non posseggono neanche le basilari competenze per valutare correttamente gli asset di natura finanziaria. Quanto ai consulenti dei quali le Casse si circondano, non si può certo dimenticare il fatto che gli stessi costituiscono parte integrante della stessa cultura mainstream che caratterizza il contesto finanziario generale. I modelli che usano gli intermediari finanziari per gestire i portafogli sono esattamente gli stessi che utilizzano anche questi consulenti per valutare la bontà di quei processi di investimento e di quegli intermediari.
Tuttavia, il vero punto dolente non sarebbe neanche tanto quello legato a questi fattori. La questione principale è in tutto e per tutto legata ai limiti dei modelli matematici media-varianza che vengono utilizzati per la costruzione dei portafogli efficienti. Questi modelli – come ben è stato in grado di spiegare Nassim Nicolas Taleb nella sua celeberrima opera il Cigno Nero-, mostrano la corda proprio nei momenti in cui il loro contributo dovrebbe rilevarsi determinante. È proprio quando si verificano eventi imprevedibili dal forte impatto sociale ed economico che i portafogli costruiti sulla loro base registrano le più consistenti perdite, non foss’altro perché sono proprio quei modelli ad impedire al gestore del portafoglio di muoversi al fine di contenere le perdite stesse liquidando gli attivi e che lo costringono a restare quasi completamente investito in asset che continuano a perdere per periodi anche prolungati. E una volta che il portafoglio avesse subito, anche per effetto di queste politiche, una forte contrazione, possono servire anche molti anni (nei casi peggiori sulle serie storiche del mercato azionario anche 28 anni) per recuperare interamente tutta la perdita. Il problema che poi complica un quadro già complicato di suo è che il Mondo contemporaneo si è fatto più instabile e ha visto il moltiplicarsi a distanza ravvicinata di diversi cigni neri, con le conseguenze che a questo punto è facile intuire.
A questo punto, il Lettore potrebbe chiedersi: quali sono i motivi per i quali si insiste nel gestire i portafogli secondo questi modelli, se i fatti dimostrano che non sono così efficienti come si vorrebbe fare credere? Perché si è passati dagli immobili alla finanza, se questi possono essere i reali risultati di questo passaggio?
La risposta è semplice: perché tale pensiero unico è funzionale all’interesse di quei pochi che su questi miti hanno costruito le basi per la propria prosperità duratura, continua e crescente.
A riprova, basterebbe pensare al fatto che una volta acquisito il patrimonio immobiliare di Enpam, il Fondo statunitense acquirente ha iniziato quasi subito – a distanza di pochi mesi – a rivendere pezzi consistenti di quel patrimonio ad altri Fondi. Per ogni passaggio di mano, si aprono ulteriori possibilità di guadagno per una Finanza che ha bisogno di attività reali per farne il sottostante di ulteriori speculazioni finanziarie. Si può ad esempio acquisire un complesso immobiliare destinato ad edilizia residenziale popolare e trasformarlo in un complesso immobiliare di lusso per ricchi. I vecchi inquilini verranno previamente allontanati dalle proprie abitazioni con le buone o con le cattive e questo processo sarà tanto più facile da realizzare tanto più quegli inquilini apparterranno alle classi sociali più povere ed indifese. Le Casse difenderanno le proprie ragioni affermando davanti ai propri iscritti che la dismissione del patrimonio è avvenuto in guadagno e si caratterizzava per essere una scelta obbligata; e si guarderanno bene da aggiungere che, magari, la plusvalenza è solo apparente e appare tale solo per effetto di precedenti svalutazioni che portano – in realtà – il bilancio complessivo dell’investimento in negativo. D’altra parte è normale che se cambi radicalmente politica di investimento e vendi un immobile dopo dieci anni che lo hai comprato anziché dopo quaranta, gli effetti possano anche essere questi.
In sostanza, quando guardati singolarmente, i protagonisti di questo gioco sembrano avere tutti ragione. Ognuno di essi ha avuto un buon motivo per comportarsi nella maniera in cui si è comportato: vale per le Casse, per la Finanza, per lo Stato e i suoi Organismi deputati al controllo di questi operatori.
Tuttavia, per capire come stanno realmente le cose, non ci resta che seguire i soldi come insegnava il Giudice Falcone, uno dei pochi eroi della nostra travagliata Repubblica.
Quando si guarda le cose da questa prospettiva, tutti questi che abbiamo descritto appaiono come dettagli e i soggetti coinvolti si rivelano per quello che realmente sono: più o meno consapevoli comparse all’interno di una rappresentazione teatrale molto più grande.
La realtà vera è che in questi processi gli unici a veramente guadagnarci sono gli intermediari finanziari. Non ci guadagnano certo le casse private, i loro iscritti come non ci guadagna la collettività.
Il gioco è sempre tutto a favore dei pochi che sanno come condurlo e orientarlo. E il grande teatro che abbiamo descritto appare come del tutto funzionale al perseguimento di quell’interesse.
D’altra parte, non è stato proprio uno come Eduardo De Filippo, che della materia si intendeva, a ricordare che la vita è come il teatro, con la differenza che il teatro è una cosa seria?
Il fatto che tale meccanismo si presti poi molto bene a spogliare i poveri per favorire i ricchi non deve stupire. Come diceva un cinico ricco esperto della materia si spogliano sempre e preferibilmente i poveri, per la semplice ragione che sono in tanti.
Insomma, da che mondo è mondo, Il gioco vale sempre la candela.
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