Questo non vuole essere un post politico. Perlomeno nel senso che si da comunemente al termine nella società contemporanea. In tutte le nostre esternazioni la politica […]
Questo non vuole essere un post politico. Perlomeno nel senso che si da comunemente al termine nella società contemporanea. In tutte le nostre esternazioni la politica non deve entrare: è la ricetta della casa.
Il che tuttavia non può impedirci di produrre dei ragionamenti, al fine di smascherare con gli strumenti culturali e dialettici di cui possiamo disporre alcune affermazioni di principio che la politica politicante utilizza al fine di giustificare alcune scelte politiche che più direttamente ci riguardano.
Il fatto è che nella marmellata a cui orami sono stati ridotti idee e fatti si utilizzano spesso i termini in modo totalmente strumentale.
Mi riferisco in particolare alle politiche di liberalizzazione, che hanno interessato molti paesi europei e non; e tra questi anche il nostro.
Si sente spesso dire un po’ da tutti i politici – che le sbandierano come grande evoluzione – che tali politiche siano finalizzate a favorire la concorrenza e che quindi siano pienamente in linea con il pensiero liberale e liberista. Il che è vero solo a metà. Vediamo di capire il perché.
Non c’è alcun dubbio che se liberalizzi settori un tempo protetti possa aumentare il grado di concorrenza all’interno di quelli. Questa evidenza potrà fare sicuramente inalberare anche molti dentisti ,ma ce ne faremo una ragione: è così. Tanto è vero che gli stessi dentisti hanno cambiato pelle dopo aver subito l’ingresso di nuovi concorrenti nel proprio settore e molti di loro sono anche diventati più efficienti. So bene che spesso il problema viene posto sotto il profilo della tutela della Salute. E tuttavia quello è un tema che ci porta lontano dal fuoco del problema sotto il profilo meramente economico. Ed è proprio uscendo da quel profilo che si finisce, volenti o nolenti, nel fare il gioco del concorrente.
Restiamo al tema: i piccoli operatori con le liberalizzazioni sono costretti a diventare più efficienti e questo comporta anche vantaggi per i loro pazienti. Tutto vero; o perlomeno, c’è sicuramente del vero.
E tuttavia occorre anche interrogarsi sugli esiti non immediati di questo processo, soprattutto quando si considera il fatto che gli operatori che si fanno concorrenza all’interno di un settore non sono affatto tutti eguali. La gran parte di essi rispetta in pieno le condizioni di base richieste della teoria economica: sono troppi e troppo piccoli per influenzare le condizioni di mercato ai danni dei consumatori. Una minoranza invece è fatta da operatori grandi o grandissimi che sono viceversa del tutto in grado, in un’ottica non breve ma neanche tanto lunga, di influenzare ogni condizione di mercato e di spazzare via la gran parte dei piccoli concorrenti, non necessariamente perché sono più capaci ed efficienti ma soprattutto perché dispongono di capitali virtualmente illimitati con i quali possono manovrare le leve di cui dispongono proprio per effetto della libera concorrenza e piegare quest’ultima e i suoi veri plus a proprio esclusivo vantaggio.
Si pensi, a mero titolo di esempio, alle politiche di dumping spesso praticate da questi soggetti, con i quali gli stessi tengono i prezzi sotto costo per un certo periodo, al solo scopo di far fuori tutti o quasi tutti i concorrenti, salvo poi, una volta guadagnata una posizione centrale nel settore stesso, correggere al rialzo quei prezzi ad un livello tale da garantirsi il conseguimento di extra-profitti. Nella Grande Distribuzione alimentare è accaduto esattamente questo.
Nella versione più evoluta, quella dell’oligopolio collusivo, questi operatori non conducono queste politiche da soli ma in gruppo, il che non gli impedisce di concordare, una volta guadagnata l’esclusiva o quasi in ciascun settore, un livello tariffario che garantisca vantaggi a tutti gli appartenenti di quel gruppo. Ovviamente, a scapito dei clienti, che pagheranno un prezzo più alto di quello che era possibile trovare prima dell’avvento di questi per lo stesso tipo di bene o servizio.
Ora, la teoria economica ha sempre considerato il monopolio e l’oligopolio come il regime naturale per l’erogazione di alcuni beni e servizi che, per ragioni di interesse pubblico, avrebbero dovuto essere erogati dallo Stato. E la concorrenza ( più o meno perfetta )è stata viceversa considerata sempre il regime naturale per le erogazioni di tutti gli altri beni e servizi.
Non perché ci si preoccupasse degli operatori piccoli e meno efficienti. Nella logica dell’economia di mercato è appena giusto che chi non è in grado di competere sia estromesso da quella competizione.
Ma perché il mercato nel suo complesso si avvantaggia di quella competizione ad armi pari tra operatori non abbastanza grandi da piegare lo stesso a proprio esclusivo vantaggio. In questa chiave, il profitto che una azienda dovrebbe poter conseguire dovrebbe essere sempre quel profitto legato che è conseguente alla sua capacità di competere e non a particolari condizioni di partenza che lei possiede a differenza di altri e che le permettono di conseguire quel profitto in misura extra. E ciò soprattutto al fine di tutelare il cliente finale, al quale deve essere possibile acquistare beni e servizi ad un prezzo che non sia né troppo alto né troppo basso ma semmai ad un prezzo congruo; e le uniche condizioni di mercato che consentano di fissare i prezzi a quel livello desiderato di congruità – così conclude la Teoria Economica Liberale – sono quelle della concorrenza perfetta tra operatori non troppo grandi e potenti.
Insomma, se si guarda al pensiero economico liberale come base su cui articolare la politica economica, non si può non considerare la tutela della libera concorrenza e la lotta ai monopoli e agli oligopoli collusivi come una cosa sola.
Per diretta conseguenza, viene quasi da sorridere a pensare che sia stato proprio in suo nome che sono state varate queste politiche liberalizzatrici. Le quali possono considerarsi ispirate a quei principi solo per coloro che non conoscono bene quegli ultimi.
Ovviamente, questa può apparire una lettura semplice e semplicistica della realtà: esistono e non a caso alcune Autority – non solo in Italia ma in tutti i paesi dell’Occidente – tenute a combattere queste forme di concentrazione della ricchezza e delle aziende in poche mani. Tutto vero. Esiste anche un sistema di norme che condividono questo fine.
Tuttavia, la loro efficacia nel reprimere questi fenomeni è alquanto blanda.
Per rendere più chiaro il concetto: mi sta benissimo che l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato sanzioni la Fonmceo per gravi e reiterate intese restrittive della concorrenza. La Federazione si era mossa come un elefante in una cristalleria e se l’è pienamente meritata quella sanzione, nello specifico.
Tuttavia lo stesso tipo di condotte sanzionatorie dovrebbe riguardare anche i grandi e grandissimi operatori. E quando andiamo sul quel campo lì, ci accorgiamo che l’Autority è molto meno efficace. Non tanto e non solo perché non riesce a sanzionare tutti, quanto e soprattutto perché il Legislatore non gli ha fornito strumenti idonei ed efficaci per farlo.
E’ troppo pensare che se lo Stato non l’ha fatto una ragione c’è e che quella ragione potrebbe essere la presenza dei lobbisti – che fanno presenza fissa in in Parlamento e ultimamente hanno conquistato persino il previlegio di appartenere ad un ben preciso e pubblico elenco – al fine di perorare gli interessi di chi si può permettere di pagare loro – e non solo loro- al fine di ottenere qualunque provvedimento possa fare a lui comodo?
Sanzionare un’azienda multinazionale con una percentuale che va dal 5% al 10% del fatturato può sembrare un’enormità, ma tutto dipende da quale tipo di extra-profitti quell’azienda è riuscita a realizzare con i comportamenti scorretti per cui è stata sanzionata. Senza considerare che, a seconda della gravità di quei comportamenti, la sanzione più indicata dovrebbe essere l’emarginazione dal mercato e non certo una semplice multa. Peccato che nessuna di queste Autority si sia mai vista assegnare poteri di questo tipo.
Siamo finalmente giunti al punto essenziale della questione: se liberalizzare i mercati significa aprirli alla concorrenza senza minimamente distinguere tra grandi e piccoli operatori, facendo finta che le condizioni di partenza non contino e che sarà il mercato a risolvere la questione, si sta facendo una scommessa lecita ma che non c’entra molto con i principi dell’Economia liberale (a parte alcune sue estremistiche interpretazioni ultra-liberiste, ovviamente).
Alcuni esempi: abbiamo liberalizzato le farmacie imponendo un tetto alla concentrazione in poche mani su base regionale pari al 20% delle farmacie stesse. Il che vuole dire che il Grande Capitale potrebbe, con appena cinque grandi oligopolisti, saturare tutte le farmacie dell’intero territorio nazionale (che sono in numero limitato e non espandibile a piacimento, visto che vige ancora la cd pianta organica, un meccanismo per il quale non si può aprire una nuova farmacia se non ha un’utenza potenziale di almeno tremila pazienti); abbiamo dato poi la possibilità di praticare e ricevere sconti fino al 30% e indovinate chi saranno coloro in grado di fare meglio in questo senso ?
Per non parlare del settore della sanità privata, ove quel tetto neanche esiste.
La domanda a questo punto nasce spontanea: siamo proprio sicuri che l’aver aperto non alla concorrenza ma alla concorrenza in questo modo serva davvero a fare l’interesse del sistema e del cliente finale? Non tanto oggi. ma in un’ottica di medio e lungo termine?
Non sarà invece che questo tipo di politiche liberalizzatrici è unicamente orientato a fare l’interesse dei pochi che possono disporre di grandi capitali e in particolare della Grande Finanza, con la scusa di inseguire i buoni propositi della tutela della libera concorrenza?
A favore di quest’ultima ipotesi, potremmo citare il fatto che ad attentare alla concorrenza sembrano sempre essere i più piccoli: nella narrazione dei media sentiamo sempre parlare dei taxisti, dei medici e dei dentisti in termini corporativi; molto meno delle banche e delle assicurazioni o delle grandi multinazionali. O magari ne sentiamo anche parlare, ma la cosa finisce lì o poco ci manca.
Quando 5 grandi banche europee furono beccate con il sorcio in bocca mentre manipolavano l’andamento dei tassi euribor sulla cui base avevano erogato un numero impressionante di mutui e finanziamenti – fatto non grave, ma gravissimo – qual è stata la sanzione comminata dall’Antitrust europea ? 5 milioni di euro per ciascuna ! Una percentuale risibile rispetto ai guadagni conseguiti con questa truffa. Qualcuno ha revocato o almeno sospeso la licenza bancaria ad una di esse ? I suoi alti dirigenti sono stati estromessi oppure sono tutti al loro posto ?
E tuttavia ipotizziamo che questa strada sia in qualche modo desiderabile. Proviamo per un attimo a pensare che la concentrazione della ricchezza in poche mani possa costituire un obiettivo desiderabile e persino utile al fine di assicurare il benessere della collettività. Il problema è che tutta una serie di fatti incontrovertibili ci dimostrano esattamente l’esatto contrario e sono fatti sotto gli occhi di tutti.
E a ben vedere non c’è neanche bisogno di ricordarli quei fatti: la miglior prova che le cose stiano in maniera ben diversa è costituita dal fatto che in un coro unanime che incarna ormai un Pensiero Unico tutti ci dicono che queste politiche non servono a fare l’interesse di pochi ma che sono unicamente orientate a tutelare la libera concorrenza e persino ispirate ai principi dell’Economia liberale. Il che dovrebbe farci ridere se non fosse che non c’è proprio nulla per cui appena sorridere.
Perché orami le classi sociali sono solo due: quella di chi può e quella di chi non può. E chi può ha fatto in modo da tempo di piegare tutto al proprio volere, compresa la politica. Che fa finta di dividersi, mentre pone in essere politiche unicamente orientate a tutelare gli interessi di chi la lotta di classe l’ha combattuta e vinta già da tempo. Ma questa volta, per davvero.
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