Il consenso informato è sempre più centrale nel rapporto tra medico e paziente, non solo per le ricadute in termini medico legali, ma anche e soprattutto per la costruzione di una relazione di cura sana e stabile. Eppure le implicazioni umane e giuridiche di tale procedimento sono difficili da comprendere sia per il medico che per il giurista. Lo scopo di questo articolo, la cui lettura non è per tutti, è quello di avvicinarci sempre di più al senso generale del consenso informato. Ognuno troverà da sè la strada migliore per adempiere agli obblighi morali, prima ancora che organizzativi, verso cui la dottrina ci spinge.
Il presente articolo sul Consenso Informato è pubblicato su questo Blog per gentile concessione di Mariassunta Piccinni, Ricercatrice di Diritto privato dell’Università di Padova. La sua pubblicazione originale è: Modalità e forme del consenso, Responsabilità Medica 2019, n. 1
Quando si consideri la legge n. 219/2017 sotto il profilo delle modalità e delle forme richieste per il consenso informato, ci si imbatte in una pletora di disposizioni, eterogenee e non sempre chiare sia dal punto di vista lessicale che dal punto di vista tecnico e sistematico. Sembrano, dunque, opportune alcune premesse per far luce sui termini del problema.
Prima premessa: l’istituto del consenso informato al trattamento medico è funzionale rispetto alla promozione e valorizzazione della relazione di cura e fiducia tra paziente e curanti (così art. 1, comma 2°); questa è, a sua volta, strumento per la realizzazione di interessi e diritti del paziente di particolare rilievo: si tratta della vita, salute, dignità, autodeterminazione (v. art. 1, comma 1°). Anche le disposizioni che si riferiscono alla forma vanno, dunque, interpretate in modo conforme agli obiettivi perseguiti dal legislatore.
Seconda premessa: la l. n. 219/2017 disciplina il consenso non solo quale presupposto di liceità del singolo trattamento sanitario, atto istitutivo, dunque, del rapporto giuridico tra medico e paziente, ma anche come principio che regola l’intero rapporto: il consenso informato si fa chiaramente procedimento e si giustifica l’affermazione per cui esso è fondamento ed orizzonte del rapporto di cura. In questo contesto il significato delle disposizioni sulla forma si complica perché talvolta queste riguardano solo il consenso come atto […], più spesso si riferiscono anche al principio di consensualità […]. Il (mancato) rispetto delle forme prescritte produce effetti giuridici diversi a seconda che incida sulla formazione dell’atto di consenso o sullo svolgimento del rapporto di cura e fiducia.
Terza ed ultima premessa: bisogna intendersi sul significato dell’aggettivo «informato» che qualifica il consenso sin dalla rubrica della legge e poi dell’art. 1. La criticata crasi concettuale – per cui dal paziente adeguatamente informato, che esprime per questo un valido consenso, si passa al consenso informato – indica una realtà importante nella richiamata dimensione “relazionale” della legge. Il dato linguistico «individua un modo peculiare di distribuire poteri e responsabilità» e permette di valorizzare i legami sociali e l’interdipendenza tra paziente e curanti proprio nella formazione ed espressione del consenso, momento massimo di affermazione dell’autodeterminazione del paziente. Ciò precisato, è da chiarire che, mentre non ha senso alcuno porsi un problema di validità rispetto alle forme utilizzate per l’informazione in sé, il rispetto delle forme comunicative ricade talvolta sulla validità ed efficacia del consenso nel rapporto di cura e fiducia: sia dal punto di vista degli oneri informativi e degli obblighi di comportamento del medico (es.: l’art. 1, comma 3° prevede che la persona sia informata «in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile», e ciò deve ritenersi valere anche nel caso previsto dal 5° comma per il caso in cui il paziente rifiuti o rinunci a «trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza»), che degli oneri informativi a carico del paziente (es.: art. 4, comma 1°, rispetto all’acquisizione da parte del disponente di «adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte»).
Ciò precisato, si può rilevare che il problema delle modalità e forme del consenso informato può porsi almeno rispetto a tre diversi profili:
La disciplina delle modalità e forme richieste ai diversi fini ora richiamati muta in base ai differenti contesti in cui si esplica la relazione di cura e fiducia:
Un primo scenario è quello di un consenso attuale e puntuale, che si riferisca a specifici interventi o trattamenti, prospettabili al momento in cui si richiede il consenso: ciò può accadere all’instaurarsi del rapporto di cura (si pensi solo per fare qualche esempio al consenso ad un prelievo o ad un accertamento a fini diagnostici o ad un preciso intervento chirurgico) o può rendersi necessario nell’ambito di un rapporto di cura già in corso (es.: necessità di precisare o modificare il percorso terapeutico programmato per l’aggravarsi della malattia).
La tesi che si vuole qui sostenere è che la legge non imponga forme determinate né ad substantiam (cioè per considerare valida la manifestazione della volontà del paziente) né ad probationem (cioè per permettere di provare la manifestazione del consenso) per il consenso espresso nell’ambito di un rapporto intercorrente tra il paziente ed il curante. Al contrario, le diverse disposizioni riguardanti le modalità con cui il consenso deve essere prestato sembrano esprimere un unico principio per cui le forme devono essere le «più consone» al raggiungimento dell’obiettivo: quello di coinvolgere il paziente in modo adeguato nelle scelte che lo riguardano. Diverso è il problema delle forme previste per la certezza e conoscibilità delle decisioni prese.
Partiamo dai testi: il comma 4°, prevede che «il consenso informato» sia «acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e che sia «documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare»; ancora che «il consenso informato, in qualunque forma espresso», sia «inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». Il comma 5° equipara il rifiuto (totale o parziale) di cure e la revoca del consenso all’espressione in positivo delle proprie volontà. L’espressione «con le stesse forme di cui al comma 4°» è ripetuta per ben due volte nel comma 5° dell’art. 1: la prima quanto al rifiuto, la seconda quanto alla revoca del consenso.
La parte più importante del comma 4° pare la clausola di scopo con cui la disposizione si apre: il consenso deve essere «acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente».
Dunque, non solo non è richiesta una forma determinata per la validità del consenso informato, ma la formulazione complessiva sembra sancire il principio della libertà della forma vincolato al raggiungimento dello scopo sostanziale dell’istituto.
Le forme possono essere le più varie: da quella orale a quella per comportamenti materiali o fatti concludenti (si pensi ad un cenno del capo da parte di persona tracheostomizzata) alla videoregistrazione o all’utilizzo di più o meno sofisticati dispositivi che agevolino l’espressione del consenso di persone con disabilità.
La forma scritta è espressamente richiesta solo per determinati atti o trattamenti sanitari (v. art. 1, comma 11°): si pensi, per fare alcuni esempi, alle trasfusioni di sangue, all’adesione a protocolli di sperimentazione clinica di farmaci o all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Vale la pena di notare che non sarebbe nemmeno astrattamente configurabile un problema di forma ad substantiam per il caso di un rifiuto di cure. Qui entra in gioco il confine del corpo, il noli me tangere, che per sua natura è incomprimibile anche attraverso requisiti formali: il minimo segno di rifiuto secondo le possibilità di espressione che la persona conserva va sempre ritenuto valida manifestazione se viene, si intende, da chi è in grado di comprendere e decidere di sé.
Così una determinata forma non è richiesta nemmeno ad probationem. La legge prescrive solo che il consenso sia «documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare». Non si stabilisce, peraltro, che il consenso debba essere provato per iscritto (l’art. 2725 c.c. non è dunque applicabile), né sono applicabili le eccezionali limitazioni previste all’art. 2721 c.c. in materia contrattuale.
In definitiva, in assenza del rispetto delle modalità di documentazione indicate dalla legge, sarà più difficile provare l’avvenuta acquisizione del consenso in modo adeguato alle condizioni del paziente, ma non per questo non sarà possibile ricorrere alle c.d. prove costituende, inclusa la prova per testimoni (artt. 2722 ss. c.c.), le presunzioni semplici (art. 2729 c.c.) e la confessione stragiudiziale (artt. 2730 ss. c.c.).
Ancora diverso il discorso quanto agli obblighi informativi: non si tratta in questo caso di un problema di forma (ad validitatem o ad probationem), ma di una regola di comportamento che richiede al medico di porre in essere modi di informazioni «adeguati» al paziente: così l’art. 5, comma 2°, che riassume il contenuto dell’art. 1, comma 3°. Questa disposizione va interpretata alla luce della clausola di scopo espressa solo all’art. 3, comma 1°, per la persona minore d’età: il parametro cui misurare l’adeguatezza delle informazioni è la loro idoneità a mettere il paziente «nelle condizioni di esprimere la sua volontà»; questo scopo è, d’altronde, come già rilevato in apertura, implicito nel sintagma stesso «consenso informato», nonché nell’enunciazione dei «principi» e «diritti» espressamente enunciati al comma 1° dell’art. 1.
Una determinata forma è semmai richiesta al fine della certezza delle decisioni assunte e della conoscibilità per i terzi. Si capisce così il significato del comma 4°: «in qualunque forma espresso» il consenso «è [rectius deve essere] inserito nella cartella clinica». Posto il fine della norma, la mancata o inesatta registrazione nella cartella clinica non incide sull’esistenza e validità del consenso informato, né sulla possibilità di farlo valere nei confronti di terzi estranei al rapporto di cura; si tratta peraltro di un obbligo di natura anche pubblicistica, per il medico e per la struttura sanitaria di appartenenza, il cui mancato adempimento ha conseguenze potenzialmente pregiudizievoli per il paziente. Questi potrà ottenere l’accesso ai dati che lo riguardano, chiederne, eventualmente, la registrazione, rettifica o integrazione ed, in caso di difformità o diniego ingiustificato, agire in sede amministrativa o giudiziale.
Vale la pena di precisare che anche nelle ipotesi indicate al comma 3° dell’art. 1, sia quanto al rifiuto di ricevere informazioni espresso dal paziente, che quanto all’indicazione della persona di fiducia cui può essere attribuito il compito di ricevere informazioni ed eventualmente di fare le veci del paziente, vi è solo una disposizione espressa che riguarda, ancora, la certezza e la conoscibilità: se ne prevede la «registrazione» nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Non sono richiesti invece particolari requisiti di forma e deve, dunque, ritenersi applicabile (anche se in questo caso non espressamente richiamato) il principio di cui al comma 4°: anche in questi casi le volontà saranno acquisite «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e sarà onere degli interessati documentarle in forma scritta o attraverso videoregistrazione o altre forme idonee alla prova.
Come già ricordato, il consenso nell’ambito della relazione di cura e fiducia è per lo più un fenomeno evolutivo/“progressivo”. È la struttura stessa della relazione di cura ad essere, infatti, per sua essenza, in evoluzione perché in evoluzione sono lo stato di malattia e di salute così come il contesto di vita del paziente. La legge sembra introdurre un generale principio di pianificazione e programmazione condivisa delle cure.
Le regole ed i principi enunciati all’art. 1 si applicano anche a questa dimensione del consenso ed, anzi, il riferimento ai «modi» e «strumenti» più consoni alle condizioni del paziente acquista ancor più significato rispetto al consenso informato come processo. Di più, la precisazione normativa che il «tempo di comunicazione» è «tempo di cura» richiama alla necessità di prevedere anche tempi (oltre che spazi) adeguati a dare e ricevere informazioni lungo tutta la durata del rapporto di cura, in modo da poter individuare ed adattare il percorso terapeutico alle più complessive esigenze di vita del paziente.
La dimensione della pianificazione condivisa così intesa permette sia di modulare le informazioni rispetto alla condizione del paziente, che di mantenere la flessibilità necessaria per adeguare il programma terapeutico e di salvaguardare, al contempo, il principio della modificabilità della volontà del paziente (espresso solo per il caso di rifiuto di cure salvavita, ma implicito nell’intera disciplina del consenso); così nei casi di malattie che richiedono interventi più onerosi per il paziente è possibile tentare percorsi più impegnativi – innalzando la soglia dell’accettabilità/proporzionalità – con la prospettiva che, nel caso in cui le terapie ed i presidi attivati si rilevino per il paziente non più accettabili, si possa rivedere il programma; ancora, la pianificazione condivisa è dimensione necessaria per un’adeguata terapia del dolore.
Nella dimensione del consenso progressivo acquistano particolare rilievo pure gli strumenti di certezza e conoscibilità. Più il percorso terapeutico si preannuncia di lunga durata o di particolare complessità più è possibile che il paziente entri in contatto con singoli professionisti o equipe estranee alla relazione di cura ed è dunque necessario che anche per costoro siano facilmente conoscibili la volontà del paziente ed il piano terapeutico. Forme determinate sono previste per l’istituto della p.c.c. di cui all’art. 5 della legge. Si tratta di una situazione particolare: quella in cui vi sia una diagnosi di una «patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta». In questo caso, è prevedibile fin dal momento in cui si prospetta la possibilità di una p.c.c. che vi siano due distinte fasi del rapporto: in una prima fase la persona è capace di interloquire con i medici ed è, dunque, possibile fare riferimento alla programmazione condivisa, con possibilità di modificarla consensualmente in base all’evolversi della situazione; in una seconda fase la persona potrebbe non essere più in grado di interloquire con il personale curante: ci si dovrà affidare alle volontà precedentemente raccolte e, con l’aiuto del fiduciario, ove nominato, saranno i curanti a dover “ricostruire” il consenso del paziente.
Queste peculiarità sembrano giustificare le particolari forme richieste.
L’art. 5, comma 4°, prevede che il consenso e l’indicazione del fiduciario siano espressi in forma scritta o «nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso video-registrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare». La ratio dei più ristretti requisiti formali mi pare rinvenirsi nell’idoneità a valere per il futuro in un tempo in cui la persona non potrà più modificare le proprie volontà. La forma è richiesta ai fini della validità e può essere particolarmente utile, anche nella prospettiva del paziente, a garantire l’efficacia della p.c.c.
Un discorso a sé va fatto per l’aggiornamento, inteso come adeguamento al mutare dei fatti, e per la revoca, intesa come ripensamento. Il legislatore prende in considerazione espressa solo il primo (v. art. 5, comma 4°, ultima parte). Mi pare che anche in questo caso debbano valere i requisiti di forma per poter far riferimento alla p.c.c. quando la persona non è più in grado di interloquire (con applicazione, ex art. 5, comma 5°, dell’ultima parte dell’art. 4, comma 6° per eventuali ripensamenti in condizioni di emergenza o urgenza). Diversamente, finché la persona conservi la propria capacità, potrà applicarsi il principio della libertà delle forme ex art. 1 l. n. 219/2017 per l’espressione della propria volontà attuale.
La legge richiede, infine, l’«inserimento» «nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». Anche se il mancato inserimento non incide sulla validità dell’atto, non è inutile ribadire l’importanza che la conoscibilità della p.c.c. riveste nei confronti dei professionisti o delle persone vicine al malato, che siano rimaste estranee alla stessa.
L’ultimo scenario è quello in cui il paziente abbia lasciato proprie volontà destinate ad operare per il tempo in cui non sia più in grado di interagire con il personale sanitario. La mancanza di attualità e l’impossibilità di confrontarsi con il paziente implica la necessità di interpretare le volontà da questi previamente espresse in modo fedele alla sua identità ed alla sua storia.
Questa operazione può essere facilitata nel caso di p.c.c.: lo scenario della malattia è familiare per il paziente e le volontà sono formate e raccolte nell’ambito di una relazione di cura e fiducia. Più problematico il caso in cui le d.a.t. esistano, ma siano formulate – magari dal disponente in solitudine, o di fronte a notaio – in vista di determinati scenari futuri solo parzialmente congruenti, o non congruenti, con la situazione in atto.
In queste ipotesi si pone un problema interpretativo che assume connotati di integrazione, anche sulla base di altre fonti, della volontà del paziente; operazione che, nel caso di d.a.t. incongrue, come in quello di assenza di d.a.t., diviene ricostruzione di una volontà (correntemente indicata come “presunta”) e trascolora dalla tutela della volontà a quella dell’identità della persona, ovvero delle sue convinzioni, preferenze, scelte etiche ed esistenziali.
Il rilievo che assume il principio di auto responsabilità per il disponente e le responsabilità in capo al personale curante ed, eventualmente, alla persona nominata come fiduciario, impongono particolari cautele. Sembra perciò giustificata l’introduzione normativa di requisiti di sostanza e di forma che incidono sulla validità delle stesse. In altre parole, il mancato rispetto delle forme previste all’art. 4 l. n. 219 rende le stesse non idonee a vincolare, da un lato, il personale sanitario nei termini di cui all’art. 4 comma 5°, dall’altro il fiduciario (v. art. 4, comma 1°) ed il giudice stesso, nel caso in cui si renda necessaria la nomina di un amministratore di sostegno (v. in particolare gli artt. 4, comma 4°; 1 e 3, comma 1°, l. n. 219/2017; 407, comma 2°, c.c.).
Il legislatore stabilisce al comma 6° diverse forme alternative di redazione delle d.a.t. In ordine di solennità, si elencano l’«atto pubblico», «la scrittura privata autenticata», la mera «scrittura privata» che deve però essere «consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo» o ancora «presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7» [cioè ove le Regioni si siano attivate anzitutto adottando modalità informatiche di gestione dei dati degli utenti ed, in secondo luogo, provvedendo con «proprio atto» a «regolamentare la raccolta di copia delle DAT»].
Nel caso di condizioni fisiche che impediscano il ricorso alle forme stabilite, il legislatore prevede anche la «videoregistrazione» o il ricorso a «dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare». Ulteriori adempimenti formali non sono richiesti. Non è chiaro se siano, almeno, possibili forme di deposito che permettano alla persona con disabilità di assicurarsi che i curanti vangano a conoscenza delle d.a.t.
Nebulosa è anche la disciplina degli atti formatisi prima dell’entrata in vigore della legge. Stando alla lettera dell’art. 6 i requisiti (anche formali) di questa dovrebbero applicarsi non a tutti gli atti formati prima dell’entrata in vigore della legge, ma solo a quelli «depositati presso il comune di residenza o presso un notaio».
L’introduzione di forme determinate per la validità delle proprie volontà pone, ancora, problemi specifici per il caso di ripensamento. Il legislatore ribadisce il principio della revocabilità in ogni momento (insieme alla rinnovabilità e modifica) delle stesse, ma fa salvo l’utilizzo di una delle forme previste per la loro redazione. La restrizione formale mi pare giustificata da esigenze di certezza e la limitazione all’autodeterminazione relativizzata dalla norma di chiusura prevista per le situazioni di urgenza in cui è ammessa anche la «dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni». È, poi, da precisare che, in costanza di malattia, ove il paziente esprima proprie volontà difformi, queste prevarranno ai sensi dell’art. 1: non si tratta di ricostruire previe volontà, ma al contrario di rispettare volontà attuali.
Requisiti di forma sono previsti per l’accettazione della nomina da parte del fiduciario, che può avvenire ex art. 4, comma 2°, con la «sottoscrizione delle DAT o con atto successivo» a queste allegato. Sempre con «atto scritto» il fiduciario può rinunciare alla nomina. Il legislatore, d’altro canto, precisa che il venir meno per qualsiasi motivo del fiduciario non incide sull’efficacia delle volontà espresse del disponente. Anche il rispetto delle forme previste per l’accettazione della nomina ha, dunque, il limitato effetto di rendere efficace la nomina.
Il problema della forma è, rispetto alle d.a.t., più complesso, perché non solo (e vorrei quasi dire non tanto) il rispetto delle forme previste, ma ancor più le modalità utilizzate per il loro confezionamento incidono fortemente sulla possibilità di ricostruire la concreta volontà del paziente e dunque sulla possibilità che le d.a.t., indipendentemente dalla loro validità, raggiungano il loro scopo, producano cioè l’effetto di guidare le scelte dei sanitari. Dunque, i problemi di validità, di efficacia, di prova e di conoscibilità sono fortemente intrecciati.
In questo senso, ci si può trovare di fronte a manifestazioni di volontà inefficaci, nonostante la validità. Al di là dei dubbi, dovuti ad una formulazione normativa poco chiara, le disposizioni «palesemente incongrue» («o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente o terapie non prevedibili»), così come la mancanza di «adeguate informazioni mediche», incidono solo sulla (non) applicabilità delle d.a.t.: non si tratterebbe, dunque, di «disattendere» le volontà del paziente, né di strumentalizzarle rispetto alle convinzioni dell’interprete, ma semmai di “onorarle” attraverso una interpretazione fedele alla più complessiva personalità del disponente, quale desunta dalle d.a.t. ed, eventualmente, da altri elementi indiziari disponibili (resta sempre applicabile l’art.1, comma 1°, anche in virtù dell’espresso richiamo che ne fa l’art. 3, comma 1°, che si applica ad ogni persona incapace di autodeterminarsi).
Al contrario, ci potrebbero essere volontà chiare (sia di contenuto, che di delega), espresse con forme inadeguate. In queste ipotesi, pur non rilevando la volontà ai fini delle d.a.t. (art. 4, comma 5°), queste vincoleranno il medico, il fiduciario ed il giudice (nel caso in cui questi intervenga nella decisione ex art. 3, comma 5°, o attraverso la nomina di un amministratore di sostegno ex art. 404 ss. c.c.) nella misura in cui permettano di ricostruire la volontà del paziente ex artt. 1 e 3 l. 219 o, meglio, per dirla con il linguaggio più “identitario” degli art. 407 e 410 cod. civ., di individuare la scelta più rispettosa degli «interessi», «bisogni», «richieste», «aspirazioni» dell’interessato. Solo un cenno è, infine, possibile in questa sede al rilevante problema della conoscibilità, qui intesa anche come agevole reperibilità delle d.a.t. che contengano le volontà più recenti della persona, con ulteriori eventuali difficoltà pratiche nel caso di coesistenza di d.a.t. successive espresse con forme e modi tra loro non omogenei.
Le forme previste per la certezza e conoscibilità delle d.a.t. sono alternative e legate a strumenti ancora in fase di elaborazione normativa. Si tratta dell’«annotazione» nel registro eventualmente istituito presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente, della «raccolta di copia delle DAT» eventualmente disposta con proprio atto dalle Regioni ai sensi dell’art. 4, comma 7° ed, infine, della «registrazione» presso la banca dati nazionale che doveva essere istituita dal Ministero della salute ex art. 1, comma 418°, l. finanziaria n. 205/201719. Non sono previsti obblighi pubblicitari, invece, a carico del notaio che rediga un atto pubblico.
Anche in questo caso le forme previste non incidono né sulla validità, né sulla possibilità di far valere l’atto. Tuttavia, già solo da questo elenco emerge chiaramente come l’effettiva applicazione delle d.a.t. sia a serio rischio in mancanza di un sistema «completo ed utile» che ne garantisca la «conoscibilità e l’accesso (tempestivo)».
Al momento, salva la possibilità di lodevoli iniziative da parte dei soggetti istituzionali interessati (penso realisticamente a Comuni e Notariato, perché è prevedibile che le Regioni continuino a temporeggiare in attesa dell’intervento ministeriale), lo strumento che meglio mi pare garantire la possibilità che le proprie d.a.t. siano conosciute e, quindi, rispettate è l’averle sempre con sé e contemporaneamente procedere alla nomina di un fiduciario, assicurandosi che questi accetti il proprio incarico e abbia a disposizione una copia delle d.a.t.
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